Sarebbe stata l’unica volta che Silvio Berlusconi non avrebbe gridato allo scandalo, anzi avrebbe ringraziato la Consulta – quella tutta di sinistra – per averlo reso immune e libero di parlare di qualunque cosa, al telefono, con uno scudo invincibile e fatto di sole parole. Ma quelle parole, che scritte in altri tempi avrebbero evitato molte grane all’ex premier, la Corte Costituzionale le ha appena riservate a un’altra istituzione, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, finita indirettamente dentro le cuffie di una procura mentre parlava con un affannato cittadino, tale Nicola Mancino, già senatore e già vicepresidente del Csm, sotto inchiesta a Palermo per non aver detto tutta la verità sulla presunta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra. Lo dicono i magistrati che lo hanno indagato per falsa testimonianza, insieme ad altri 11 tra politici, militari e mafiosi, e a breve si saprà se a torto o a ragione. Per ora Mancino è sotto inchiesta per quella lunga catena di non so e non ricordo. E mentre andiamo in stampa (martedì 22 gennaio) il Gup Piergiorgio Morosini deve ancora pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Palermo. Un buco nero che copre tutta la stagione delle stragi di mafia, di cui lui, però, rimembra poco o nulla. Per esempio non ricorda di aver conosciuto – da ministro dell’Interno appena insediato – il giudice Paolo Borsellino, ed è singolare, perché, oltre a essere il simbolo della lotta alla mafia, era l’unico, in quel momento, dopo Giovanni Falcone, ucciso da pochi giorni, a rischiare la vita a Palermo. Nega di aver mai appreso, in quello stesso periodo, dell’esistenza di un dialogo segreto tra pezzi dello Stato e i boss (Bagarella, Cinà, Brusca, Riina e Provenzano).
I FATTI. Torniamo indietro. Il 15 giugno 2012 Corriere della Sera e La Repubblica riferiscono la notizia di un colloquio telefonico fra il consigliere giuridico del Colle, Loris D’Ambrosio (scomparso il successivo 26 luglio), e l’ex ministro Nicola Mancino (intercettato). Il colloquio è avvenuto il 7 dicembre 2011, il giorno dopo la sua audizione in procura a Palermo. Mancino si autodefinisce «un uomo solo, che va protetto», e chiede l’intervento di Napolitano. Cinque giorni dopo il settimanale Panorama rivela l’esistenza di alcune telefonate, intercettate, proprio fra il Presidente Napolitano e Mancino. Altri due giorni e intervistato da La Repubblica il pubblico ministero Nino Di Matteo, titolare dell’inchiesta sulla trattativa, insieme ad Antonio Ingroia e Lia Sava, dichiara che «negli atti depositati non c’è traccia delle conversazioni del Capo dello Stato. Questo significa che non sono minimamente rilevanti». Il 6 luglio il procuratore capo, Francesco Messineo, fa sapere che la procura di Palermo «avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato, non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge». Tre giorni dopo dalle colonne del quotidiano La Repubblica, sempre Messineo, ribadisce che «nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione, quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione ». Perché Mancino è così preoccupato, tanto da rivolgersi al capo dello Stato? Innanzitutto perché sa che tutti quei non ricordo sono davvero imbarazzanti, anche vent’anni dopo. Ma non immagina, forse, che anche quelle telefonate diventeranno presto altrettanto fastidiose, in particolare per il suo interlocutore.
LE TELEFONATE. Mancino e Napolitano parleranno per quattro volte consecutive, su 9.295 telefonate intercettate dalla procura di Palermo, per complessivi diciotto minuti. Le prime due chiamate partono dalle utenze dell’indagato, le altre due dal centralino del Quirinale. Quando Mancino raggiunge telefonicamente Napolitano, è ormai a conoscenza delle sue grane e teme il confronto disposto dai pm palermitani con l’ex Guardasigilli Claudio Martelli («Non vorrei che dal confronto viene fuori che io ho fatto una dichiarazione fasulla e quello ha detto la verità, perché a questo punto chi processano? Non lo so», dice al consigliere D’Ambrosio). Il confronto si terrà regolarmente. Mancino, sempre al telefono con il Colle, lamenta anche assenza di coordinamento tra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, doglianze che, il 4 aprile 2012, il segretario generale della Presidenza della Repubblica, gira con una lettera al Procuratore generale della Cassazione. L’iniziativa del Quirinale ha un seguito: il 19 aprile si tiene in Cassazione una riunione cui partecipano, tra gli altri, lo stesso Pg Ciani e il Pna Piero Grasso. È proprio Grasso, dopo aver evidenziato «la diversità dei vari filoni d’indagine» tra Caltanissetta, Firenze e Palermo e «la loro complessità», a far mettere a verbale «di non avere registrato violazioni del protocollo del 28 aprile 2011 tali da poter fondare un intervento di avocazione». Cos’altro si sono detti,Mancino e Napolitano, non è dato saperlo. I loro dialoghi vanno distrutti, secondo la Corte Costituzionale, perché, pur non contenendo nulla di penalmente rilevante (anche secondo gli stessi inquirenti), hanno comunque generato un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e leso le prerogative del Presidente. Da una parte c’era il Quirinale, convinto che tutto sia concesso a un capo dello Stato, e dall’altra una procura, che voleva andare fino in fondo, cercando verità e risposte anche indagando sul conto di Mancino. La decisione arriva presto, ed è la prima dell’anno nuovo: quelle telefonate, scrive il presidente della Consulta, Alfonso Quaranta, vanno distrutte e basta, aggiungendo che non spetta alla procura di Palermo «valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica». Cita l’articolo 90 della Costituzione: «Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri». Napolitano, dunque, non poteva essere né ascoltato (anche indirettamente) né registrato. Non poteva in alcun modo essere coinvolto in un’inchiesta giudiziaria – anche solo di riflesso, come è avvenuto –, né, tanto meno, velato dal sospetto che in quelle conversazioni ci fosse qualche verità scomoda o indicibile. Per trovare qualcosa del genere – ha ricordato recentemente il giurista Franco Cordero – bisogna scomodare l’articolo 4 dello Statuto Albertino: «La persona del Re è sacra ed inviolabile». «E a proposito d’effetti paradossali – afferma sempre Cordero – cosa avverrebbe se conversando con l’intercettato, P. (il presidente, ndr) parlasse del colpo di Stato al quale lavora?». Omissis, direbbe Mancino.
di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 31 gennaio 2013 [pdf]