Il momento esatto non si conosce. È intorno al 13 dicembre 1991, il giorno in cui la Cupola delibera che Falcone e Borsellino dovevano morire. Una data che combacia con l’inizio della strategia del terrore e con un lungo rosario di eventi ancora da decifrare. È l’inizio di un conflitto che terminerà, lasciando sul campo decine di morti, solo dopo le stragi del 1993. In mezzo ci sono l’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima e gli eccidi di Capaci e via D’Amelio. E ci sono anche la presunta trattativa Stato-Mafia e quel “papello”, con le condizioni di Totò Riina, che secondo le più recenti indagini della Procura di Palermo - l’ossatura del processo che si aprirà il prossimo 27 maggio - finì prima nelle mani dei carabinieri e poi nel cuore delle istituzioni.
LA SENTENZA DI MORTE. A capotavola, racconteranno le inchieste degli anni a seguire, c’è proprio lui, il Capo dei capi. Intorno a Totò u curtu, la Cupola al completo: Greco, Aglieri, La Barbera, Cangemi, Brusca, Ganci, Biondino, Madonia e Graviano. «Ora è arrivato il momento in cui ognuno di noi si deve assumere le sue responsabilità», queste le parole del padrino di Corleone, prima di pronunciare la sentenza di morte. La mafia siciliana sta attraversando un momento davvero difficile. Lo Stato gli ha inferto colpi durissimi. Il maxi processo, nato dalle indagini di Falcone e Borsellino, in meno di un anno, tra il 1986 e il 1987, ha già mandato alla sbarra e fatto condannare quasi 400 mafiosi, senza contare i 19 ergastoli che hanno di fatto decapitato i vertici di Cosa nostra, compresi gli imprendibili Riina e Provenzano. La lama della giustizia è penetrata a fondo colpendo non solo uomini d’onore e capi mandamento, ma anche gregari e soldati. Le collaborazioni di Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone e Francesco Marino Mannoia, hanno permesso al pool di Palermo di comprendere il linguaggio mafioso e la struttura di un’organizzazione criminale che fino a quel momento non era stata ancora definitiva né “verticistica” né con il nome di Cosa nostra. Il maxi processo si concluderà in Cassazione il 30 gennaio 1992, meno di quaranta giorni dopo la riunione della Cupola. E non colpirà la piovra solo sul piano repressivo, ma anche su quello dell’autorevolezza. Secondo i pm di Palermo, che hanno indagato sulla presunta trattativa Stato-Mafia, è proprio da lì «che iniziò una nuova presa di coscienza all’interno dei vertici dell’organizzazione mafiosa e che prese avvio la crisi dei rapporti di Cosa nostra con i referenti politici tradizionali, che agli occhi dei capimafia avevano fallito su uno dei terreni più importanti per i quali la mafia a loro si rivolgeva: la garanzia dell’impunità».
LE BOMBE DEL 1993. L’omicidio Lima segna l’inizio della stagione di sangue. È il 12 marzo 1992. Ed è l’avvio di un’escalation di piombo e tritolo che terminerà un anno dopo con le stragi di Roma, Palermo e Firenze. «Nel 1992, la posta in gioco era soprattutto la vita dei politici inseriti nella lista nera di Cosa nostra - scrivono i pm di Palermo - che andavano salvati, e perciò la trattativa ebbe per oggetto la rinuncia agli omicidi già programmati in cambio dell’allentamento della morsa repressiva». Riina e Bagarella esprimono due concetti rozzi ma che ben riassumono quello che accadrà poi: «Dobbiamo fare la guerra allo Stato per poi fare la pace» e «in futuro non dobbiamo più correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle». Per fare questo, tuttavia, vanno rimossi almeno due ostacoli. Il 23 maggio 500 chili di tritolo uccidono Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini di scorta. Alcune settimane dopo Don Vito Ciancimino, il sindacomafioso di Palermo, avvicina i carabinieri del Ros e dà il via alla trattativa. «Dal lato di Cosa nostra - scrivono i magistrati - (la trattativa, ndr) venne originariamente gestita direttamente dall’odierno imputato Salvatore Riina, da parte dello Stato, venne condotta da alcuni alti ufficiali dei carabinieri». Sono i vertici del Ros: il generale Antonio Subranni, il suo vice Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. «A loro volta investiti dal livello politico (ed in particolare dal sen. Calogero Mannino), che contattarono Vito Ciancimino, a sua volta in rapporti con Salvatore Riina per il tramite di Antonino Cinà». Ma a Roma c’è un altro ostacolo, è il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti, in prima linea contro la mafia insieme a Claudio Martelli. Scotti lascerà il posto a Nicola Mancino il 28 giugno, appena un mese dopo Capaci e venti giorni prima di via D’Amelio. Su questo punto sono sempre i magistrati di Palermo a focalizzare meglio quanto sta accadendo: «Il Ministro dell’Interno in carica Vincenzo Scotti era ritenuto un potenziale ostacolo, mentre Mancino veniva ritenuto più utile in quanto considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato Mannino». È il momento in cui irrompe «una male intesa (e perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali». È certo che in quelle stesse ore chi ha preso il testimone di Falcone è a conoscenza che Cosa nostra e lo Stato hanno iniziato a trattare. Borsellino ha i giorni contati quando il direttore degli Affari penali, Liliana Ferraro, lo informa che c’è in atto un tentativo di scendere a patti con la mafia. Il 28 giugno la Ferraro, che ha saputo da De Donno che il Ros è in contatto con Don Vito, riferirà tutto questo a Borsellino nel corso di un incontro, casuale, all’aeroporto di Fiumicino. Il 1° luglio Borsellino incontra a Roma il ministro Mancino, ma lui afferma ancora oggi di non ricordare quella circostanza. Diciotto giorno dopo 100 chili di tritolo tolgono di mezzo il giudice e i suoi cinque angeli custodi. Nel 2012 la Procura di Caltanissetta, concludendo l’ultima inchiesta sulla strage di via D’Amelio, afferma che Borsellino era diventato un ostacolo insormontabile all’avvio della trattativa.
LA RESA DEI CONTI. Il 1993 si apre con un arresto eccellente. Il 15 gennaio Riina finisce in manette dopo 24 anni di latitanza. Lo ferma il Ros fuori dalla sua villa di via Bernini, a Palermo. Ma è anche l’anno delle bombe al cuore dello Stato. Il 14 maggio, in via Fauro a Roma, arrivano altri 90 chili di tritolo, sono per Maurizio Costanzo, ma l’attentato fallisce e il giornalista si salva per un soffio. Tredici giorni dopo a Firenze esplode una bomba in via dei Georgofili, le vittime sono cinque e anche la Galleria degli Uffizi subisce gravi danni. Il 26 giugno il nuovo capo del Dap, Adalberto Capriotti, propone al ministro della Giustizia, Giovanni Battista Conso, di non prorogare il carcere duro a 373 mafiosi. Per i magistrati di Palermo è il segnale che lo Stato si è piegato: «Nel 1993, la trattativa sembrò inizialmente non produrre gli esiti sperati e si resero necessarie ulteriori minacce che, questa volta, produssero qualche frutto: l’allentamento del 41 bis. Il “cedimento“, consistito nell’inopinata mancata proroga di oltre 300 decreti di applicazione del 41 bis, costituisce il segnale che si volesse andare incontro ai desiderata di Cosa Nostra». Una promessa non basta. Tra il 27 e il 28 luglio esplodono altre tre bombe: in via Palestro a Milano (cinque vittime), a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro a Roma. Quella notte a Roma, a causa di uno strano blackout, le linee telefoniche del governo non funzionano, l’allora premier, Carlo Azeglio Ciampi, racconterà di aver temuto un colpo di Stato. L’ultimo attentato del 1993, il 31 ottobre allo stadio Olimpico durante Lazio-Udinese, fallisce. Un’autobomba, imbottita con 130 chili di tritolo arricchito con chiodi e bulloni, non esplode perché il telecomando del detonatore s’è inceppato. Cinque giorni dopo il Guardasigilli Conso decide di non prorogare il 41 bis a 334 detenuti per mafia.
di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 28 marzo 2013 [pdf]