Nessuno potrà mai dire se una sola vittima del terremoto, che il 6 aprile 2009 sconvolse l’Aquila, si sarebbe potuta salvare se non avesse dato ascolto alla scienza e alle rassicurazioni di chi doveva decidere. Come nessuno potrà mai affermare - con assoluta certezza - che lo sciame sismico che faceva tremare da mesi la terra in Abruzzo era precursore di un terremoto così devastante. E se ci sarà un processo ai vertici della Commissione grandi rischi, oggi indagati in blocco dalla Procura del capoluogo abruzzese per omicidio colposo, quello sarà anche il processo alla scienza e a tutte le sue contraddizioni che in questa storia, più che in altre, non mancano.
A L’Aquila la terra tremava da almeno quattro mesi, con frequenza e magnitudo crescenti, fino a quella scossa di venti secondi e di intensità 5.8 delle 3.32 del 6 aprile di un anno fa. Negli aquilani, in quei quattro mesi, cresceva anche la preoccupazione di fronte alle continue rassicurazioni degli esperti e degli amministratori. Nessuno disse loro di valutare l’ipotesi di abbandonare le proprie abitazioni, neanche quelle che erano notoriamente più fragili, perché c’era il rischio che il panico si impadronisse della città. Di fatto gli dissero solo di stare tranquilli dentro le loro case, che tremavano anche dieci volte al giorno e dove quella notte morirono in 308, perché il terremoto, come la morte, è imprevedibile.
Il 31 marzo, sei giorni prima quella interminabile scossa delle 3.32, proprio all’Aquila si riunì la Commissione grandi rischi, con l’obiettivo di fornire ai preoccupati cittadini abruzzesi e ai loro amministratori tutte le informazioni «disponibili alla comunità scientifica sull’attività sismica delle ultime settimane». Quella Commissione, a cui parteciparono i massimi esperti del settore, circa un’ora dopo stilò un verbale di quattro pagine che oggi è al centro di pesanti interrogativi e oggetto di una discussa inchiesta giudiziaria. I 7 esperti che firmarono quel documento devono rispondere, infatti, di omicidio colposo: «Per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia». Perché - scrivono il procuratore capo Alfredo Rossini e il sostituto Fabio Picuti - in occasione di quella riunione effettuarono una valutazione dei rischi, connessi all’attività sismica in corso sul territorio aquilano, «approssimativa, generica e inefficace in relazione alle attività e ai doveri di previsione e prevenzione».
In estrema sintesi fornirono agli organi di informazione, al Dipartimento della Protezione Civile, al sindaco dell’Aquila e ai suoi cittadini, informazioni «incomplete, imprecise e contraddittorie sulla natura, sulle cause, sulla pericolosità e sui futuri sviluppi dell’attività sismica in esame vanificando le finalità di tutela dell’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente». La scienza finisce così sotto accusa e sembra quasi una sfida che mette in discussione un “dogma”, cioè che per gli esperti di tutto il mondo è impossibile prevedere quando e dove la terra tremerà. Ma la Procura va oltre.
L’indagine, compiuta dagli investigatori della Squadra mobile dell’Aquila, parte dagli esposti presentati da decine di cittadini, prende in considerazione il parere di altri esperti ed elenca, uno dietro l’altro, una serie di interrogativi pesanti come macigni. Sui terremoti - sentenziò la Commissione in quel documento - «non è possibile fare previsioni»; «è estremamente difficile fare previsioni temporali sull’evoluzione dei fenomeni»; «la semplice osservazione di molti piccoli terremoti non costituisce fenomeno precursore». Al contempo - scrive la Procura nell’atto d’accusa - la stessa Commissione affermava anche l’esatto contrario, ovvero che «qualunque previsione non ha fondamento scientifico». Non lo avrebbe perché gli esperti, riuniti a l’Aquila mentre la terra tremava senza un attimo di tregua, dissero anche che i forti terremoti in Abruzzo «hanno periodi di ritorno molto lunghi» ed è «improbabile il rischio a breve di una forte scossa come quella del 1703, pur se non si può escludere in maniera assoluta».
Perciò non c’era nessun motivo per affermare «che una sequenza di scosse di bassa magnitudo possa essere considerata precursore di un forte evento». Passerà questo messaggio nei minuti successivi alla diffusione di quel verbale: «Non vi è pericolo perché la situazione è favorevole, perché c’è uno scarico di energia continuo».
Niente allarmi. I tecnici dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, sembravano certi di quello che scrivevano, rilevando nello stesso documento che «le registrazioni delle scosse sono caratterizzate da forti picchi di accelerazione, ma con spostamenti spettrali molto contenuti di pochi millimetri e perciò difficilmente in grado di produrre danni alle strutture, c’è quindi da attendersi danni alle strutture più sensibili alle accelerazioni quali quelle a comportamento fragile». Quello sciame era insomma un normale fenomeno geologico che si collocava «in una fenomenologia senz’altro normale dal punto di vista dei fenomeni sismici che ci si aspetta». «I responsabili sono persone molto qualificate che avrebbero dovuto dare risposte diverse ai cittadini», commenterà il procuratore Rossini annunciando la chiusura delle indagini: «Non si tratta di un mancato allarme, l’allarme era già venuto dalle scosse di terremoto. Si tratta del mancato avviso che bisognava andarsene dalle case».
Per gli inquirenti con questa lunga serie di certezze, ma anche di contraddizioni, si sottovalutò la situazione e i membri di quella Commissione vennero meno ai doveri «di valutazione del rischio connessi alla loro qualità e alla loro funzione e tesi alla previsione e alla prevenzione e ai doveri di informazione chiara, corretta, completa». Una affrettata valutazione che cagionò - sempre per l’accusa - la morte di 308 aquilani «indotti a rimane in casa per effetto esclusivo della condotta descritta nonostante le scosse di terremoto».
In cima all’atto d’accusa c’è il nome di Franco Barberi, presidente vicario della Commissione grandi rischi, già capo della Protezione Civile e ordinario di vulcanologia all’Università Roma Tre; Bernardo De Bernardinis, vicecapo della Protezione Civile; Enzo Boschi, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e ordinario di fisica terrestre all’Università di Bologna; Giulio Selvaggi, direttore del Centro nazionale terremoti; Gian Michele Calvi, direttore della Fondazione Eucentre e ordinario di progettazione in zona sismica all’Università di Pavia; Claudio Eva, ordinario di fisica terrestre all’Università di Genova; Mauro Dolce, direttore dell’Ufficio rischio sismico del Dipartimento di Protezione Civile e ordinario di tecnica delle costruzione alla Federico II di Napoli. «Non sono certo le argomentazioni di tipo scientifico che mancano - affermano i dirigenti dell’Ingv esprimendo solidarietà agli indagati - per dimostrare la correttezza e la serietà del nostro contributo, come testimoniato anche dalla Commissione Internazionale, nominata ad hoc dal Dipartimento della Protezione Civile e composta dai massimi esperti in materia a livello mondiale. Osserviamo con amarezza come a tutt’oggi l’unica lezione lasciataci dal drammatico evento di L’Aquila non sia sulle politiche di prevenzione e mitigazione degli effetti dei terremoti, come avviene in tutti i paesi del mondo, bensì si limiti alla sterile discussione sulla previsione a breve termine dei terremoti, problema certo interessante ma che tutta la comunità scientifica internazionale - concludono - ritiene ancora lungi da una soluzione positiva anche parziale».
Gli aquilani probabilmente non la pensano come il premier Silvio Berlusconi, che ha accusato la magistratura abruzzese di infangare l’operato della Protezione civile, perché dietro questa indagine ci sono decine di testimonianze, come quella del giornalista Giustino Parisse, capo della redazione aquilana de Il Centro, che sotto le macerie della sua casa di Onna ha lasciato due figli e un padre. «Sono fra quelli che hanno presentato l’esposto alla Procura - ha scritto sul suo giornale - per chiedere che si faccia chiarezza su quello che è ormai noto come “mancato allarme”. Non cerco né vendette né condanne. Nessuna sentenza potrà ridarmi i miei figli. Ho presentato quell’esposto con un solo obiettivo: che di quella incredibile e tragicomica riunione del 31 marzo 2009 si parli il più possibile. Non per mandare al rogo qualcuno ma solo, e lo dico con amarezza, per evitare di ripetere in futuro l’errore. Quando si ha a che fare con la vita delle persone prima di sbagliare bisogna pensarci. Molto».
Il Punto - di Fabrizio Colarieti - 24 giugno 2010 [pdf]