L’ultima immagine che abbiamo di lui lo mostra con le mani alzate. Arreso di fronte agli uomini del Ros che lo hanno appena fermato nelle campagne di Sacrofano. Non è armato. Non oppone resistenza. È sorpreso e spaesato. Neanche il tempo di scendere dalla sua auto e Massimo Carminati, 56 anni, detto er Cecato, uomo chiave dell’inchiesta della procura di Roma sulla cosiddetta Mafia capitale, ha già le manette che gli serrano i polsi. Una breve sequenza di fotogrammi che la penna di Giancarlo De Cataldo avrebbe narrato allo stesso modo, chiudendo, con il rumore delle sbarre, l’ultimo capitolo dell’epopea criminale di un uomo che per oltre 30 anni è entrato e uscito dalle storie più torbide del nostro Paese. Stragi, omicidi eccellenti, colpi miliardari e traffici di droga. Un tormento per generazioni di investigatori, ma lui, il Guercio, per via di quell’occhio perso in un conflitto a fuoco con la polizia quando di anni ne aveva appena 23, ne è sempre uscito pulito, o quasi.
Il profilo più recente, quello tracciato dagli inquirenti romani che attorno al suo nome hanno delineato i confini di una potente holding criminale capace di arrivare ovunque, cristallizza meglio di qualunque altra biografia l’autorevolezza e lo spessore criminale di Carminati. Capo e organizzatore, sovrintende e coordina tutte le attività dell’associazione, impartisce direttive agli altri partecipi, fornisce loro schede dedicate per le comunicazioni riservate, individua e recluta imprenditori, ai quali fornisce protezione, mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operanti su Roma nonché con esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario, con appartenenti delle forze dell’ordine e dei servizi segreti.
Il suo metodo, scrivono gli investigatori che oggi indagano su Mafia capitale, è rimasto immutato tanto e quanto la sua fama. La sua è una figura «di rispetto», il trait d’union perfetto tra crimine, alta finanza e politica. Una leadership di ferro costruita negli anni che gli ha permesso di attraversare, senza mai rimetterci le penne, diverse primavere criminali, fino a posizionarsi, in equilibrio, tra il mondo di sopra, fatto di colletti bianchi, imprenditori e uomini delle istituzioni, e il mondo di sotto, fatto di batterie di rapinatori, trafficanti di droga e gruppi armati. Cioè nel mondo di mezzo - come spiega lui stesso nelle intercettazioni più recenti - dove tutto si incontra e tutto si mischia.
Tuttavia, nelle oltre mille pagine dell’ordinanza di custodia cautelare che lo ha portato in carcere, non c’è nulla di nuovo sul conto di Carminati. Nulla di cui le cronache non abbiano già parlato da quel 20 aprile 1981, il lunedì dell’Angelo e della sparatoria in cui il giovane estremista di destra perse l’occhio sinistro mentre, insieme ad altri due neofascisti e a un borsone con 25 milioni di lire e pietre preziose, tentava di passare clandestinamente il valico di Gaggiolo tra Italia e Svizzera.
La sua carriera inizia così e quando esce dall’ospedale di Varese torna a Roma, più forte di prima, perché quella pallottola, entrata dall’orbita di un occhio e miracolosamente finita nella mascella, senza fare altri danni, non è altro che un punto in più nel suo curriculum. Da allora, per tutti, è il cecato, il guercio, il pirata o, se volete, il nero di Romanzo Criminale.
Carminati nasce a Milano, con il cuore nero, e ben presto la militanza politica lo spinge a Roma, nella sezione del Movimento Sociale di viale Marconi, poi, prima di avvicinarsi ad Avanguardia Nazionale, aderisce al Fuan del quartiere Nomentano. Approda alla militanza politico-eversiva, nei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), seguendo tre amici e compagni di scuola: Alessandro Alibrandi, Giuseppe Valerio Fioravanti e Franco Anselmi. Il passo è breve e il 27 novembre 1979 è già con un mitra in mano. Insieme a Fioravanti, Alibrandi, Domenico Magnetta e Peppe Dimitri rapina la filiale dell’Eur della Chase Manhattan Bank. Il colpo frutta bene e il giovane Carminati si fa notare da Enrico De Pedis, detto Renatino, che si occuperà, per conto della Banda della Magliana, di riciclare il bottino. È il salto di qualità che salda l’eversione nera - e chi c’è dietro ad essa - con il crimine romano.
Il 13 gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano salta fuori una valigetta che contiene, tra le altre cose, un fucile mitragliatore Beretta Mab 38/44 e cariche di esplosivo T4 dello stesso tipo utilizzato per la strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti e 200 feriti). Il mitragliatore, con matricola abrasa e calcio artigianale, proviene da uno scantinato di via Liszt 34, a Roma, dove ha sede il ministero della Sanità.
La polizia vi arriva il 25 novembre dello stesso anno e vi rinviene un grosso quantitativo di armi, munizioni ed esplosivo. Si tratta dell’arsenale della Banda della Magliana, cui attinge anche il gruppo di Carminati, e a prendere in prestito il fucile Beretta rinvenuto sul treno, riferirà un altro esponente della Banda, Maurizio Abbatino, è stato proprio lui, er Cecato. La valigetta, accerteranno le indagini, doveva servire a depistare le indagini sulla strage di Bologna. Finiscono sotto processo, insieme a Carminati, il colonnello del Sismi, Federigo Mannucci Benincasa, Ivano Bongiovanni, un delinquente comune con simpatie di destra, e un maggiore del Sios dell’Aeronautica, Umberto Nobili.
Il primo grado, il 9 giugno 2000, si conclude con la condanna di Carminati a 9 anni di reclusione, a 4 anni e mezzo ciascuno per Mannucci Benincasa e Bongiovanni e con l’assoluzione di Nobili. Er Cecato non li sconterà: il 21 dicembre 2001, in appello, è l’unico a uscire di scena perché il reato contestatogli - detenzione e porto di armi ed esplosivi - nel frattempo si è prescritto.
Il 29 ottobre 1993 il pentito Vittorio Carnovale, detto er Coniglio, in un interrogatorio davanti al giudice Otello Lupacchini, che indaga sulla Magliana, torna su alcune dichiarazioni in merito all’omicidio del giornalista Carmine “Mino” Pecorelli (20 marzo 1979) e tira in ballo tre componenti della Banda: De Pedis, Abbruciati e Carminati. Secondo il pentito, citando quanto gli aveva narrato Edoardo Toscano, un altro membro della Banda, il delitto doveva servire a rendere un favore all’avvocato Wilfredo Vitalone che attraverso suo fratello Claudio, giudice a Roma, si era impegnato con De Pedis a sistemare alcuni processi che lo vedevano coinvolto. Er Coniglio racconta a Lupacchini che ad assassinare Pecorelli erano stati Carminati e un siciliano di nome Angelo, mentre Abbruciati avrebbe avuto un ruolo di copertura e di gestione. Il pentito Tommaso Buscetta il 26 novembre 1992 aveva già dichiarato, per la parte che conosceva dell’omicidio, che fu appunto la Magliana a uccidere il giornalista per conto dei cugini Ignazio e Antonino Salvo. È dunque verosimile che i Salvo e i Vitalone, tutti di area andreottiana, potessero condividere gli stessi interessi con il nero e la sua Banda. Durante un ulteriore interrogatorio, nell’aprile del 1994, davanti ai magistrati di Perugia, Carnovale spiega più chiaramente il movente maturato per il delitto confermando indirettamente le parole di Buscetta. Un’ulteriore conferma sul coinvolgimento della Banda della Magliana nell’assassinio del direttore di Osservatore politico (Op) arriva, ancora una volta, dall’arsenale scoperto nei locali del ministero della Sanità dove la polizia nel 1981 aveva rinvenuto anche proiettili Gevelot uguali a quelli utilizzati per freddare il giornalista. Il processo, che vedrà coinvolti Giulio Andreotti, Gaetano Badalamenti, Claudio Vitalone, Giuseppe Calò, Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati, si conclude in primo grado nel 1999 con l’assoluzione di tutti gli imputati «per non aver commesso il fatto». Sentenza confermata anche in appello, tranne che per Andreotti e Badalamenti, condannati a 24 anni, fino al 2003 quando la Cassazione annulla tutto senza rinvio.
Nella notte tra il 16 e il 17 luglio del 1999 a Roma si consuma un furto nel caveau che si trova nei sotterranei della cittadella giudiziaria di Piazzale Clodio. Servendosi di chiavi false, i ladri aprono le porte che conducono alle scale e il cancello che porta al caveau. Una volta nel sotterraneo, forzano 147 delle 997 cassette di sicurezza, dalle quali prelevano oro, oggetti preziosi e denaro per un valore di circa 50 miliardi di lire, ma anche droga e documenti riservati conservati da alcuni giudici e pm. Le indagini, affidate alla procura di Perugia, consentono di accertare il coinvolgimento di 23 persone. Si tratta di esponenti di spicco della Banda della Magliana, ex militanti della destra eversiva, carabinieri, un vice direttore della Banca di Roma, un avvocato, un edicolante, “cassettari” e “chiavari”. A ideare il colpo sarebbe stato un ex della Magliana, Manlio Vitale, detto er Gnappa, insieme a Massimo Carminati e a er Mago delle vedove (cioè delle casseforti), Stefano Virgili. Al processo di primo grado, nell’aprile del 2005, arriveranno in sette e senza la contestazione dell’associazione a delinquere che la procura aveva inizialmente ipotizzato.
Carminati, arrestato sei mesi dopo il colpo, rimedia una condanna a 4 anni di reclusione. Un testimone riferirà durante il processo che l’obiettivo di quel colpo, ideato dal alcuni superstiti della Magliana ancora vicini a Carminati, era reperire documenti per ricattare alcuni magistrati romani. Rimarrà un’ombra il coinvolgimento di faccendieri e uomini dei Servizi apparsi sulla scena e poi svaniti nel nulla.
Il nome di Massimo Carminati dai primi anni Novanta compare nelle carte dell’inchiesta sul duplice omicidio dei leoncavallini Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, avvenuto a Milano, in via Mancinelli, la sera del 18 marzo 1978 e rivendicato dalla Brigata Combattente Franco Anselmi. Il 14 luglio 1997, il giudice Guido Salvini scriverà nell’ordinanza-sentenza: «Le caratteristiche somatiche e d’abbigliamento quantomeno di uno degli assassini di Fausto e Iaio sono decisamente compatibili con la persona di Massimo Carminati. L’impermeabile chiaro, indossato probabilmente da due degli aggressori, era del resto quasi una “divisa” per gli esponenti della destra romana. I collaboratori di giustizia Walter Sordi e Cristiano Fioravanti, sulla base di voci e di valutazioni di ambiente, hanno quindi indicato nel gruppo di Carminati il possibile responsabile del duplice omicidio di Milano». Nonostante ciò er Cecato ne esce pulito. Il 6 dicembre 2000 il giudice Clementina Forleo scriverà archiviando la sua posizione: «Pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva e in particolare degli attuali indagati (Massimo Carminati, Mario Corsi e Claudio Bracci), appare evidente allo Stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi, e ciò soprattutto per la natura de relato delle pur rilevanti dichiarazioni».
Nel maggio del 2012, a Cremona, nell’ambito dell’inchiesta sul Calcioscommesse che coinvolge alcuni calciatori, saltano fuori i nomi di Angelo Senese, un camorrista del clan Moccia, e di Massimo Carminati. Tra il mondo del calcio e il cecato c’è un contatto, il centrocampista, prima della Lazio e poi del Genoa, Giuseppe Sculli, un giovane imparentato con il capo bastone Giuseppe Morabito, detto ‘u tiradrittu, pezzo da 90 della ‘ndrangheta. Sculli viene intercettato mentre si trova Roma, in occasione della partita Roma-Genoa. Parla al telefono con una persona che chiama 'fratellino' e che invita a incontrarlo nel suo hotel. Il fratellino, accertano gli investigatori, è un massaggiatore di una squadra di calcio. L’uomo arriva all’albergo a bordo di una Smart con un’altra persona, «un uomo di circa 40/45 anni, con capelli rasati a zero», annotano gli investigatori. Quella Smart non è nuova agli inquirenti, poco tempo prima era stata fermata a Roma e alla guida c’erano Carminati e tale Giovanni De Carlo, campione italiano di kick boxing che somiglia tanto all’uomo rasato con cui si sono incontrati Sculli e il massaggiatore. De Carlo, detto Giovannone, ora è in carcere, i Ros lo hanno arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla Mafia capitale. Incensurato, girava alla guida di una Ferrari e dicono che fosse il braccio destro di Carminati. Un vero boss in ascesa, «quello che conta davvero», secondo Ernesto Diotallevi, storico componente della Banda della Magliana. I magistrati nell’ordinanza d’arresto scrivono che «l’ingente disponibilità di risorse finanziarie in assenza di qualsiasi fonte di reddito lecita inducono a ritenere che De Carlo abbia fatto del crimine una scelta di vita». Appunto, proprio come Carminati.
di Fabrizio Colarieti per Lettera43