«Perché sono stato condannato? Perché ci deve essere una seconda vittima? Tutto questo è ingiusto». Raniero Busco, 46 anni, ha pronunciato queste parole prima di crollare sulle sue gambe, il 26 gennaio scorso, dopo che il presidente della terza Corte d’Assise di Roma, Evelina Canale, aveva letto il dispositivo della sentenza di primo grado con cui lo ha condannato a 24 anni. Venti anni dopo la giustizia - anche se è pur vero che si è innocenti fino a sentenza definitiva - ha trovato l’assassino che il 7 agosto 1990, in quell’appartamento di via Poma a Roma, accoltellò per 29 volte la giovane Simonetta Cesaroni. Per i giudici quel mostro è lui: il suo ex fidanzato, quel giovane biondino di 26 anni che l’amava perdutamente, “uno di casa”, l’ultimo degli indagati dopo diciassette anni di indagini che avevano detto tutto e il contrario di tutto. Raniero non se l'aspettava proprio. Nel corso del processo, durato appena un anno, si era sempre professato innocente e alla fine credeva che anche chi lo stava giudicando, sulla base di prove che per la sua difesa erano poco credibili, si sarebbe convinto della sua innocenza. Le sue gambe non hanno retto e alla fine, mentre in un’aula gremita di gente c’era chi piangeva per lui (gli amici) e chi accoglieva il verdetto con soddisfazione (i familiari della vittima), suo fratello e sua moglie Roberta lo hanno portato via di peso. «Questa sentenza - ha affermato a caldo la sorella di Simonetta, Paola - è la conferma della fiducia che non abbiamo mai perso nella giustizia, nelle istituzioni e nell'impegno dei pm in venti anni di lavoro. Siamo stati premiati perché abbiamo sempre creduto nel lavoro degli inquirenti in qualsiasi direzione andasse. Anche se - ammette Paola Cesaroni - il nostro dolore rimane e non sarà mai cancellato». Per la pm Ilaria Calò, Raniero Busco, oggi tecnico di manutenzione dell'Alitalia, padre di due gemelli di 9 anni, è l’autore di quel delitto e la verità è scritta nelle conclusioni degli accertamenti compiuti dal Ris dei carabinieri nel 2006 sugli indumenti di Simonetta. A condannarlo sono stati perciò il Dna trovato sul corpetto della ragazza, estratto da una piccola traccia di saliva o forse sudore, e la compatibilità della sua arcata dentaria con i segni di un morso trovato sul seno sinistro della vittima. Ma anche quelle macchie di sangue trovate sulla porta dell'ufficio che secondo gli esperti del Ris, allo stesso modo, sono compatibili con il profilo genetico di Busco. Si è arrivati così alla svolta delle indagini, diciassette anni dopo quel pomeriggio del 7 agosto 1990, e Raniero si è ritrovato prima iscritto nel registro degli indagati, con la pesante accusa di omicidio volontario, e poi sotto processo. Ma nonostante la condanna Busco non andrà in carcere, perché, proprio essendo passati tanti anni dal delitto, non ci sono più i presupposti per la custodia cautelare (pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato). La sua difesa, in attesa di leggere le motivazioni della sentenza, ha già annunciato che farà appello. La condanna di Busco ha diviso l’opinione pubblica, riacceso il dibattito e rimesso, ancora una volta, tutto in discussione, perché via Poma è così. «Ammesso e non concesso che questa persona sia colpevole, ha senso un ergastolo dato vent'anni dopo?», se lo era chiesto Maurizio Costanzo, poche ore prima dalla sentenza. «Era il '90. È incredibile - osserva Costanzo - l'idea che uno debba andare a ricercare prove dopo dieci, undici anni. Siamo sicuri che le prove siano tali, vent'anni dopo, da consentire la pena dell'ergastolo? Non lo so, staremo a vedere. Se è vero - ha aggiunto il giornalista - il conto si deve sempre pagare». Tra l'altro, ricorda sempre Costanzo: «c'è anche un altro morto, Pietrino Vanacore, il famoso portiere di via Poma, che si è tolto la vita qualche mese fa. Mi aveva scritto una lettera quando era andato via da Roma, scrivendo che si ritirava, andava a vivere in Puglia perché erano stati pesanti quegli ultimi anni. Me ne sono ricordato - chiosa Costanzo - perché quando si è tolto la vita hanno trovato una minuta di questa lettera tra le sue carte». Busco non è stato condannato all’ergastolo, come aveva chiesto l’accusa, ma a 24 anni e difficilmente i tanti dubbi, e gli altrettanti misteri che in questi anni hanno segnato l’inchiesta sul delitto di via Poma saranno diradati da questa sentenza. A partire proprio dalla morte di Vanacore e alle decine di piste battute dagli inquirenti, compresa quella che puntava il dito addirittura contro i servizi segreti. Ed è la morte di Vanacore, quello strano suicidio che l’ha visto togliersi la vita in un palmo d’acqua, il 9 marzo 2010, alla vigilia della sua deposizione al processo, a non convincere molti, come lo scrittore Alberto Bevilacqua: «Quella casa di via Poma è maledetta. Due anni prima - ha dichiarato il giallista dopo la condanna di Busco - in quel palazzo ci fu un altro delitto di una donna. Io lo feci notare. Nessuno mi ha mai dato retta. Dimentichiamo - aggiunge ancora - che c'è stato anche il suicidio del portiere Vanacore? Ma insomma, un uomo si toglierebbe la vita, se realmente se l'è tolta ma questo non lo posso sapere, perché un fidanzato ha ucciso la fidanzata? Non sta né in cielo né in terra». La storia-rompicapo di via Poma è segnata - forse per sempre - da dubbi, ombre e misteri che non hanno abbandonato la scena fino alla fine. Come l’ultima lettera anonima, indirizzata al capo dell'avvocatura comunale, Andrea Magnanelli, recapitata il giorno della sentenza alla cancelleria della Corte d'Assise: «Il colpevole è tra i primi sospettati». Il colpevole - fino a prova contraria - è Raniero Busco e ne sono convinti anche Italo Ormanni, già procuratore aggiunto di Roma, oggi capo del Dipartimento per gli affari di giustizia, e il suo collega Roberto Cavallone che per anni, insieme alla pm Ilaria Calò, si sono occupati del delitto Cesaroni: «Ritengo che così sia stato riconosciuto il lavoro degli inquirenti della Procura di Roma, - afferma Ormanni - di chi per anni ha indagato sul delitto di Simonetta Cesaroni e non ha mai lasciato nulla di intentato. Il processo lo ha certamente dimostrato. Bisognerà vedere se questa decisione reggerà nei diversi gradi di giudizio. Uso cautela. In ogni caso credo che per la famiglia della ragazza sia un riconoscimento non da poco. Alla faccia dei tanti scettici e dei tanti supponenti che ci avevano accusato di aver sbagliato completamente pista, dico che la sentenza emessa dalla Corte d’Assise rappresenta un riconoscimento del buon lavoro fatto dalla procura di Roma, da me e dalla collega Ilaria Calò. Quando ho saputo che Busco era stato condannato - ha aggiunto, invece, Cavallone - il mio pensiero è andato proprio alla famiglia Cesaroni, una famiglia distrutta e oggi posso dire loro con soddisfazione che la giustizia è arrivata». Vent'anni dopo.
di Fabrizio Colarieti per Il Punto, 3 febbraio 2011 [pdf]