Non si parla più di mafia. Eppure Cosa nostra, l’organizzazione criminale siciliana in guerra con lo Stato e le regole da oltre un secolo, è quella di sempre, almeno secondo quanto scrive nell’ultima relazione al Parlamento la Direzione investigativa antimafia (leggi). E cioè: imprevedibile, pericolosa e alla ricerca di nuovi equilibri. Il problema, dunque, acclarato che la minaccia non è mai scemata, è forse la sua scomparsa dalle pagine di gran parte dei quotidiani nazionali e dai palinsesti delle tv che fanno informazione, per non parlare del dibattito politico. A ricordarcelo, all’indomani di un episodio grave e che fa molto riflettere, è stato un giornalista di Repubblica, Salvo Palazzolo, una delle firme palermitane in trincea da anni alla ricerca, citando il titolo di un suo libro, dei “pezzi mancanti”. Lo ha fatto dopo aver subìto, lo scorso 13 settembre (leggi), una perquisizione, in casa e in redazione, il controllo del suo computer personale e il sequestro del suo cellulare, alla faccia della tutela delle fonti e del diritto di cronaca. Palazzolo, reo di aver rivelato la chiusura dell'indagine sul depistaggio Scarantino (l’inchiesta che ha riscritto daccapo la storia della strage di via D’Amelio in cui fu trucidato Paolo Borsellino e la sua scorta - leggi), è indagato per rivelazione di notizie, cioè la chiusura dell'indagine a carico di tre poliziotti sotto accusa per il colossale depistaggio costruito imboccando il pentito Vincenzo Scarantino (l’udienza davanti al gup è iniziata il 20 settembre - leggi).
Parte da questo episodio - non eccezionale, perché i giornalisti, quelli che fanno il loro mestiere, sono abituati a questo tipo di inciampi - la lettera-appello firmata nei giorni scorsi da Palazzolo sul sito della Fnsi (leggi). «È il momento - scrive il cronista di Repubblica nel suo appello - di una nuova grande indagine sulle stragi di Stato. Con il sostegno dei cittadini onesti e delle istituzioni di buona volontà. Non smettiamo di ripetere ogni giorno le domande ancora senza risposta, quelle che abbiamo annotato sui nostri taccuini».
E di domande senza risposta, giù a Palermo, volendo, ce ne sarebbero ancora molte, a partire dall’imbarazzante faccenda del depistaggio Scarantino. Così come in altre procure, da nord a sud, dove si continua a indagare sulle mafie e sulle pagine più buie del nostro Paese.
Il libro nero delle stragi e degli omicidi irrisolti è lungo. «Un racconto cruciale per la democrazia - dice Palazzolo -, perché nelle parole dei giornalisti vive l'impegno di tante persone di buona volontà: familiari delle vittime, magistrati, avvocati, investigatori, rappresentanti di gruppi e associazioni, semplici cittadini». Ecco perché il lavoro dei giornalisti va difeso e tutelato, anziché perquisito.
Di spunti ce ne sarebbero. Per citarne solo alcuni: sempre nel capoluogo siciliano è in piedi l'indagine 'Trattativa Stato-mafia bis'; a Reggio Calabria il processo 'Ndrangheta stragista'; a Firenze l'indagine sui mandanti occulti delle bombe mafiose del 1993; a Bologna si cerca ancora la verità sulla strage alla stazione del 2 agosto 1980 e a Roma su quella di Ustica del 27 giugno 1980.
Tanti buoni motivi per non smettere di cercare la verità, anche se, scrive ancora Salvo Palazzolo, «a volte nessuno sembra ascoltare». «Anche se a volte - aggiunge - fare quelle domande ci costa caro. Vogliamo sapere chi ha rubato l'agenda rossa di Paolo Borsellino e le parole di tanti nostri martiri. Parole che di sicuro racchiudevano il progetto di un'Italia migliore. Ecco perché vanno ritrovate».