Potrebbe esserci poco o quasi nulla di segretissimo, dietro le continue missioni dei droni americani sul Mar Nero e ai confini con la Russia. Per quanto se ne sa, almeno per ora, volano in modalità inoffensiva, orbitando per ore attorno al loro target, che oggi è l’Ucraina, ieri era l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria. Ma come ha dimostrato l’incidente avvenuto martedì 14 marzo – quando un drone MQ-9 della Usaf, dopo aver incrociato due caccia SU-27 russi, si è inabissato nelle acque del Mar Nero – la loro presenza, secondo l’opinione di diversi analisti, è intenzionalmente provocatoria e volta a influenzare il comportamento del nemico.
Del resto, se fossero davvero missioni top secret – per la raccolta di dati (in gergo Sigint) o addirittura alla ricerca di obiettivi da annientare – le rotte dei droni americani non sarebbero, come avviene spesso, tracciabili semplicemente installando sul proprio smartphone l’app Flightradar24. Tracciare e seguire le missioni dei velivoli statunitensi senza pilota è diventato, infatti, il passatempo di molti amanti di questo settore.
Anche in Italia, dove, ultimamente, c’è molto da sbirciare, perché dalla base siciliana di Sigonella decollano ogni giorno droni, caccia e altri mezzi aerei Usa. È il caso degli ormai famigerati “Forte 10”, “Forte 11” e “Forte 12”, queste alcune delle sigle di identificazione rintracciabili su “Flightradar24” dei RQ-4 Global Hawk – modello più evoluto del Reaper MQ-9 precipitato martedì – che dall’inizio del conflitto fanno la spola tra Italia e Mar Nero, quasi sempre senza nascondere, a noi comuni mortali ma anche la nemico, il proprio identificativo.
Orecchie e occhi silenziosi da centinaia di milioni di dollari, i droni impiegati dagli Stati Uniti sono capaci, in alcuni casi, di raccogliere enormi quantità di informazioni, rimanendo in volo anche 24 ore, fotografando e trasmettendo in diretta immagini ad alta risoluzione, anche di notte. Ma sono in grado anche di spiare i sistemi di telecomunicazione del nemico o seguire il segnale emesso dal cellulare in possesso del target prescelto. In altri casi, possono pedinare, puntare e annientare un obiettivo con un missile. Operazioni chirurgiche e senza rischi per i piloti che le conducono, perché i droni vengono comandanti da operatori che si trovano ad esempio a Ramstein, in Germania, o nella base di Creech, in Nevada.
È così che il 22 luglio dello scorso anno gli Usa hanno eliminato l’erede di Osama bin Laden alla guida di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri. E ancora nel 2020, questa volta sotto la presidenza di Trump, quando un drone eliminò il generale iraniano Qassem Soleimani. In quest’ultimo caso, per annientare l’alto ufficiale di Teheran, gli americani hanno impiegato un MQ-9, lo stesso modello precipitato nel Mar Nero, equipaggiato con missili Hellfire a guida laser.
A sdoganare l’utilizzo dei droni, in particolare del Reaper, tanto da renderlo noto come il “lugubre mietitore”, era stato però l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Sotto la sua presidenza, secondo i dati del Bureau of Investigative Journalism, i velivoli senza pilota, quasi sempre ai comandi della Cia, hanno compiuto oltre 500 attacchi tra Iraq, Afghanistan, Pakistan, Somalia e Yemen, causando anche la morte di molti civili che nulla avevano a che fare con i target scelti. Perché il margine di errore, quando non si è certi di aver inquadrato l’obiettivo giusto, è altissimo.
Tornando al caso del MQ-9 precipitato nel Mar Nero, secondo la versione Usa, il jet russo si sarebbe messo intenzionalmente di fronte al drone e ha scaricato del carburante (come mostra un video diffuso oggi dal Pentagono). Il portavoce del Pentagono, il generale Patrick Ryder, ha riferito che l’aereo russo ha volato “nelle vicinanze” del drone per 30-40 minuti prima di causarne la caduta, poco dopo le 7 del mattino, ora dell’Europa centrale.
“Il nostro aereo MQ-9 stava conducendo operazioni di routine nello spazio aereo internazionale quando è stato intercettato e colpito da un aereo russo, provocando un incidente e la completa perdita dell’MQ-9”, ha affermato il comandante della US Air Force, James B. Hecke. La Difesa russa, tuttavia, nega che i suoi caccia siano entrati in contatto con il drone. Mosca afferma di averlo solo identificato, perché violava i confini del “regime di spazio aereo temporaneo stabilito per l’operazione militare speciale”. Poi “è andato in volo incontrollato, ha perso quota ed è caduto in acqua”.
Per il Pentagono non è così: era decollato dalla base Nato di Campia Turzii, in Romania, e quando è stato intercettato dai russi si trovava a 7.500 metri di quota nello spazio aereo internazionale a sud-ovest della Crimea. Insomma una tesi distante anni luce da quella raccontata dal Cremlino. Quel che è certo è che il coordinatore del Consiglio di sicurezza nazionale, John Kirby, ha riferito che i rottami del Reaper difficilmente potranno essere recuperati, perché si trovano in acque molto profonde, ma anche che è stato fatto il necessario “per ridurre al minimo qualsiasi valore di intelligence che potrebbe derivare se qualcun altro mette le mani su quel drone”.
Tradotto vuol dire che prima di spegnersi per sempre, i sistemi di autodifesa del drone hanno distrutto quanto i suoi sensori avevano raccolto – cioè il “valore di intelligence” – e reso inutilizzabile la strumentazione che si trova a bordo. Insomma se tutto è andato come sembra, anche se Mosca dovesse recuperare il relitto del drone non riuscirà a cavare un ragno dal buco.
di Fabrizio Colarieti per La Notizia [link originale]