Le mafie si nutrono di «sacche di opacità ed ambiguità». Scriveva così, a marzo di quest’anno, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a Don Luigi Ciotti e alla sua associazione Libera, ricordando le vittime di Cosa nostra e l’importanza della società civile nella lotta contro la criminalità organizzata. E’ lo stesso Napolitano che spiazza tutti, affidando all’Avvocato generale dello Stato l’incarico di rappresentare la Presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione annunciato dinanzi alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo. Il tema è quello della trattativa tra Stato e mafia, la causa sono quelle intercettazioni che tanto hanno infastidito e messo in difficoltà il Colle nelle scorse settimane. La vicenda è nota. Ad innescarla, le conversazioni telefoniche tra Nicola Mancino (indagato per falsa testimonianza nell’ambito dell’inchiesta palermitana) e il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio. Una richiesta di soccorso da parte di un indagato, poi girata dal Colle al procuratore generale della Cassazione. Vicenda nella quale spuntano anche alcune intercettazioni indirette (perché sotto controllo era il telefono del privato cittadino Mancino), in cui sarebbe stata registrata la stessa voce di Napolitano. E che ora sono al centro del conflitto sollevato dall’avvocatura dello Stato. Il Colle cita Luigi Einaudi, per motivare la decisione, essendo suo dovere evitare che si pongano «nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». Il Quirinale prende atto di quanto ha riferito all’Avvocatura il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, Francesco Messineo: «Questa procura, avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge». Ma fa poi riferimento a quanto il procuratore di Palermo ha detto in una lettera pubblicata da Repubblica l’11 luglio, e cioè che «in tali casi alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, sentite le parti». Insomma, tanto rumore per nulla trattandosi di conversazioni mai divulgate e che saranno destinate alla distruzione perché irrilevanti, ma nel rispetto delle procedure previste dalla legge. «Siamo sereni – ha commentato lo stesso Messineo –. Tutte le norme messe a tutela del Presidente della Repubblica riguardo a una attività diretta a limitare le sue prerogative sono state rispettate». Chi, invece, sembrerebbe meno sereno è proprio il Presidente della Repubblica al quale rinnoviamo un interrogativo. Se a chiamare il Colle fosse stato un signor Rossi qualsiasi, si sarebbe prodigato con la stessa solerzia dimostrata dinanzi alla richiesta di aiuto di un ex ministro, ex presidente del Senato ed ex vice presidente del Csm?
di Fabrizio Colarieti per Il Punto, 23 luglio 2012 [pdf]
Una Trattativa cominciata dal Ros dei Carabinieri - Colonnello Mario Mori e Capitano De Donno -, subito dopo la strage di Capaci in cui morì il Giudice Giovanni Falcone, la Dottoressa Francesca Morvillo e gli agenti della scorta della Polizia di Stato. Il cui interlocutore, attraverso il figlio Massimo, fu il defunto sindaco mafioso Don Vito Ciancimino, che per far cessare la strategia stragista del Capo dei capi, Totò Riina, doveva porre delle condizioni a favore della mafia siciliana. Don Vito, da parte sua, pensava di poter ottenere una revisione del suo processo. Ma, il Colonnello Mario Mori espose al Ciancimino Vito le sue condizioni, ossia la cattura di Riina, di Provenzano e degli altri. Don Vito si rifiutò per timore di morire.
Nel frattempo, l'amico carissimo del Dottor. Falcone, il Dottor.Paolo Borsellino, interpellò a sua volta il Ros volendo sapere se:
- Fossero sulla strada giusta per scoprire i mandanti e gli esecutori della strage del 23 Maggio 1992;
- Indagare a fondo sul rapporto del Dottor. Falcone, che riguardava mafia ed appalti.
Seppe nulla, il Dottor. Borsellino, di cosa, invece, il Ros dei Carabinieri stava compiendo con Vito Ciancimino?.
Infatti, mentre il Dottor.Paolo Borsellino, si trovava a Roma per interrogare un pentito, Gaspare Mutolo, ricevette una telefonata da parte del Ministro dell'Interno, Nicola Mancino, affinchè si recasse immediatamente da lui. Lì trovò il Capo della Polizia di Stato,Vincenzo Parisi, ed il nr.2 del Sisde Contrada. Era il 1° Luglio 1992.
Perchè il Dottor. Paolo Borsellino ritornò ad riinterrogare Gaspare Mutolo, così nervoso, cha a dire del collaborante, il Magistrato fumò due sigarette contemporaneamente?.
Il Capo dei capi, Totò Riina, aveva saputo chi c'era al di sopra delle parti, alle quali poteva affidare le richieste di Cosa nostra attraverso la formulazione dei 12 punti del Papello?. Se sì dovrebbe spiegare chi erano.
Non come fece il Ministro dell'Interno, Nicola Mancino, che pose un diniego sulle negoziazioni tra la mafia e lo Stato. Chi, dunque, al di sopra delle parti accettò questo inizio di Trattativa?.
IL MIGLIOR COMMENTO E' QUESTA LETTERA DI NICOLA MANCINO !
LA LETTERA AL CORRIERE 17.07.2009
Mancino: «Salvatore Borsellino fa sempre una citazione monca»
«Se ci fosse stato l’incontro, perché avrei dovuto nasconderlo?»
ROMA - Egregio Direttore, nell’imminenza dell’anniversario della strage mafiosa di via D’Amelio nella quale caddero il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, mi trovo, mio malgrado, di nuovo messo sotto accusa da Salvatore Borsellino che, dopo un lungo silenzio di oltre dodici anni dall’accaduto, da qualche tempo crede di avere individuato una mia presunta responsabilità morale nell’attentato, che afferma ma non prova. Questa volta lo strumento usato per quella che non esito a denunciare come una aggressione personale, è una videointervista pubblicata oggi, senza che a me sia stata data l’opportunità di replicare, sul sito «Corriere.it».
Nella videointervista Salvatore Borsellino ripete senza modifiche le sue accuse. La ricostruzione dei fatti si ricava dall’interrogatorio che Gaspare Mutolo rese il 21 febbraio del 1996 nell’aula del processo celebrato a Caltanissetta per la strage di via D’Amelio. Senonchè Salvatore Borsellino cita sempre, e anche nel video riportato oggi dal Corriere.it, una sola parte di quella testimonianza, in cui il magistrato dice al pentito che deve allontanarsi per andare al Viminale. Sono in possesso delle pagine processuali. Sono un po’ lunghe. Cito, perciò, dal volume «L’agenda rossa di Paolo Borsellino», di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, ed. Chiarelettere, pag. 146. «Sai, Gaspare, debbo smettere perché mi ha telefonato il ministro, ma…manco una mezz’oretta e vengo». Salvatore Borsellino cita continuamente questa frase, ma mai ricorda quel che Paolo Borsellino disse allo stesso Mutolo al suo ritorno dal Viminale. Se proseguiamo nella lettura de «L’agenda rossa», nella stessa pagina 146, possiamo leggere il seguito del racconto di Mutolo: «Quindi (Paolo Borsellino) manca qualche ora, quaranta minuti, cioè all’incirca un’ora, e mi ricordo che quando è venuto, è venuto tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano. Io, insomma, non sapendo che cosa (…) Dottore, ma che cosa ha? E lui, molto preoccupato e serio, mi fa che viceversa del ministro, si è incontrato con il dott. Parisi e il dott. Contrada…»
Dunque, è lo stesso magistrato a non confermare l’incontro con il ministro, ed è la stessa fonte – Gaspare Mutolo – a testimoniarlo. Ma Salvatore Borsellino fa sempre una citazione monca, e dà a me del bugiardo. Se ci fosse stato l’incontro, perché avrei dovuto nasconderlo? Che cosa si sarebbero dovuti dire due persone che non avevano mai avuto rapporti tra di loro il primo giorno dell’insediamento di un ministro al Viminale? Che non si sarebbero dovute tenere trattative con la mafia? E chi le avrebbe tenute? Uno che proprio quel giorno era arrivato al Viminale per assumere la responsabilità di dirigere ordine e sicurezza pubblica? Via! Per ricondurre alla giusta dimensione l’atteggiamento di quel Ministro dell’Interno del governo Amato nei confronti della mafia, si ricostruiscano dalle cronache del tempo impegni, decisioni, azioni di contrasto contro la criminalità organizzata, applicazione dell’art. 41 bis, allestimento delle carceri di massima sicurezza dell’Asinara e di Pianosa, scioglimento di oltre 60 Consigli comunali inquinati dalla mafia e da altre organizzazioni malavitose: tutte iniziative portate avanti con fermezza ed intransigenza dal Ministro Mancino”.
Nicola Mancino Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura
Seconda parte:
A Luglio del 1992, prima della strage di Via D'Amelio, il Capo dei Capi, Totò Riina attende nervosamente una risposta da parte dello Stato, ed intenzionato a non abbandonare la strategia stragista della mafia volutamente usata per ricattare lo Stato.
Mentre, il nr.2 di Cosa nostra, il boss Bernardo Provenzano, sà dell'incontro da parte di Don Vito Ciancimino con gli ufficiali del Ros dei Carabinieri, Colonnello Mario Mori e Capitano Giuseppe De Donno, convinto anch'esso di poter ottenere "qualcosa di importante per la mafia", es. revisione del maxiprocesso di Palermo, fà continuare questi colloqui riservati.
In uno di questi, l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino , vuole sapere dal Colonnello Mario Mori chi c'è sopra di loro ad avallare questi incontri: l'ufficiale lo rassicura di un coinvolgimento di un comandante di grado superiore.
Presi i primi accordi, Don Vito, però, non è del tutto convinto. Continua ad avere un fitto dialogo con il boss, Bernardo Provenzano, e per sapere di più sulla questione delle coperture che hanno permesso questi incontri interpella un certo " Signor.Franco" dell'Intelligence italiana.
Il fantomatico " Signor.Franco" gli riferisce che, questi incontri non sono solo noti al Comandante dei Carabinieri - il superiore alto in grado -, ma anche a due Ministri:
- il Ministro dell'Interno, Nicola Mancino;
- il Ministro della Difesa, Virginio Rognoni.
I DUE MINISTRI NEGHERANNO DI AVERE MAI AVUTO ORDINE DI AVALLARE QUESTE CONVERSAZIONI.
Nel frattempo, la cricca - "Signor.Franco" e Bernardo Provenzano - chiede a Don Vito Ciancimino di continuare questi incontri.
Purtroppo arrivò l'irreparabile: la strage di Via D'Amelio del 19 Luglio del 1992.
I due Ufficiali del Ros, vista oramai la contrapposizione insostenibile tra Stato e mafia - " un muro contro muro" -, chiesero a Don Vito di metterli in contatto con qualcuno della mafia per evitare ulteriore spargimento di sangue.
Infatti, nell'Ottobre del 1992, con quest' l'ultimo incontro si volle, da una parte continuare la Trattativa - il Ros dei Carabinieri - dall'altra - Don Vito Ciancimino - sapere cosa poter ottenere. EVIDENTEMENTE CHI STAVA, ALL'INTERNO DELLE ISTITUZIONI, AVALLANDO QUESTA TRATTATIVA ERA DISPOSTO A TUTTO PUR DI INTERROMPERE IL FLUSSO STRAGISTA DI COSA NOSTRA.
Questo fatidico incontro si poteva organizzare: ma all'estero. Don Vito sperava di poter ottenere una revisione del suo processo, mentre il Ros voleva la cattura dei Superlatitanti e Capi della mafia, Totò Riina, Bernardo Provenzano e gli altri. A questo punto, Don Vito Ciancimino mise alla porta i due Ufficiali, esortandoli a prendere una pausa di riflessione,interruppe le conversazioni.
IL TENTATIVO DI TROVARE UNA TALPA, CHE LI CONDUCESSE AL PADRINO ED AI SUOI FEDELISSIMI ERA FALLITO.
Passano 20 anni.
I due Ufficiali del Ros vengono indagati dalla Procura della Repubblica di Palermo: in ballo due procedimenti scottanti:
- la Trattativa Stato - mafia;
- il favoreggiamento a Cosa nostra per il mancato arresto del superboss, Bernardo Provenzano, nel 1995;
Uno dei testi, il figlio di Don Vito Ciancimino, Massimo, precisa che questi incontri iniziarono prima della morte del Dottor. Paolo Borsellino, e non dopo: quindi, per i Magistrati della Procura di Palermo, il Giudice ucciso aveva scoperto cosa c'era di vero tra Stato e mafia, ovvero la Trattativa orchestrata dal Ros dei Carabinieri con pezzi dell'Istituzione dello Stato. Inoltre, aggiunse di avergli consegnato le richieste della mafia formulate nel "Papello".
Nel corso del processo, il divenuto generale Mario Mori, negò di aver ricevuto la lista delle richieste. Se gli avessero dato una lista, l'avrebbe immediatamente sequestrata come prova concreta del legame di Ciancimino con i mafiosi; l'avrebbe poi usata per spingerlo a collaborare. Il generale Mario Mori negò di aver avviato delle negoziazioni, descrivendo i suoi contatti con Don Vito Ciancimino, come rapporti di natura confidenziale. Non era mai stata sua intenzione siglare un patto con Cosa nostra.
SE L'EX - MINISTRO DELL'INTERNO,NICOLA MANCINO, NEGA LE NEGOZIAZIONI CON COSA NOSTRA, ED IDEM FA' IL GENERALE MARIO MORI, DUNQUE, IL DOTTOR.PAOLO BORSELLINO, DI QUESTA BENEDETTA TRATTATIVA STATO - MAFIA E' L'INNOCENTE UCCISO IL 19 LUGLIO DEL 1992 DA COSA NOSTRA, O IL MARTIRE SACRIFICATO DI UNA VERITA' INELUDIBILE?.
Grazie...-
Una Trattativa Stato - mafia, che ebbe il prologo nell'uccisione del fiduciario della Dc in Sicilia ed eurodeputato, Salvo Lima, dopo la sentenza del maxiprocesso di Palermo che condannò per la prima volta la Cupola di Cosa nostra.
I politici italiani, talmente, erano spaventati per una possibile ritorsione nei loro confronti dalla mafia, che posero le basi per un dialogo diretto con Cosa nostra siciliana.