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All’ombra della trattativa

L'anno delle stragi, del delitto Lima (12 marzo), di Capaci (23 maggio) e via D’Amelio (19 luglio). Anno di grande fermento politico: dalle dimissioni (28 aprile) del «picconatore» Francesco Cossiga, che lascia il Quirinale prima della scadenza del suo settennato aprendo la strada all’ascesa al Colle di Oscar Luigi Scalfaro, fino alle elezioni politiche. Sono passati vent’anni da quel maledetto 1992: si cercano ancora verità e risposte. Sull’escalation di una sanguinaria stagione delle stragi che, dalla Sicilia, allungherà la sua scia di morte sul “continente”. Dalle bombe in via dei Georgofili a Firenze (nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993) a quelle contro le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma e in via Palestro a Milano (27 luglio). E’ lo scenario nel quale, secondo i magistrati della Procura di Palermo, l’aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, che hanno firmato l’avviso di chiusura delle indagini, si dispiega e va in scena la trattativa Stato-mafia al centro della loro inchiesta.
IL DELITTO LIMA: L’INIZIO
Dai verbali d’interrogatorio dei dodici indagati e delle persone sentite come testimoni, i magistrati di Palermo cercano di fare luce sulla consecutio temporum che si instaura tra i fatti di sangue firmati dalla mafia e l’evoluzione del quadro politico nazionale di quegli anni. In particolare, sulle ripercussioni del delitto Lima. «L’uccisione del parlamentare non è l’inizio della trattativa ma è un omicidio di rottura dei rapporti con la classe politica – chiarisce il procuratore aggiunto Antonio Ingroia in una recente intervista a Libero –. L’aggiustamento del maxiprocesso era fallito e la mafia voleva dare una sanzione». L’obiettivo è capire se, dopo l’omicidio dell’esponente siciliano della Dc, si fosse fatta largo la convinzione che altri uomini delle istituzioni potessero finire nel mirino della criminalità organizzata. Un aspetto affatto secondario, secondo la ricostruzione della Procura di Palermo, perché avrebbe contribuito a far maturare, negli ambienti di certa politica, il convincimento di scendere a patti con la mafia proprio per salvare la pelle. Non subendo dunque una trattativa figlia del ricatto, ma cercandola attivamente. Il 12 gennaio 2012, l’anno del ventennale delle stragi di Capaci e di via d’Amelio e dello stesso delitto Lima, Ciriaco De Mita depone come persona informata dei fatti davanti ai magistrati di Palermo. L’allora presidente della Dc riferisce di un incontro con Giovanni Falcone successivo al delitto Lima (12 marzo 1992) ma precedente alle elezioni politiche (5 aprile dello stesso anno). «Falcone... ecco, Falcone mi chiese di incontrarlo... e siccome eravamo in campagna elettorale, gli dissi che non ero a Roma... onestamente non pensavo che fosse una cosa urgente; mi fece sapere invece che mi avrebbe raggiunto. Lo vedo durante la campagna elettorale e allora mi sembrò indelicato insomma e organizzammo un incontro a Roma in un intervallo tra le manifestazioni che c’erano, tra l’Hilton e l’Eur. E allora lui mi ha spiegato la sua opinione sulla uccisione di Lima – racconta De Mita ai magistrati –. Mi dice: preparatevi perché la mafia eleverà il livello di scontro con lo Stato, perché dopo la decisione della Cassazione che confermava la procedura adottata a Palermo e loro hanno bisogno di riorganizzarsi e per riorganizzarsi debbono elevare... E lui disse... Eh, ma Lima che c’entra, non mi sembra un uomo simbolo. E lui disse: no, Lima non è mafioso...». De Mita è sorpreso e incuriosito dalle rivelazioni di Falcone e gli rivolge, come risulta dal verbale, altre domande: «Poi gli chiedo: ma perché mi fa questo discorso, rispetto al rischio che cresce lo dice a me perché? No, no, nessun elemento particolare, ma glielo dico. Io poi gli aggiungo: ma io non sono più né Mini… Presidente del Consiglio e non sono Ministro di Grazia e Giustizia, perché racconta a me queste cose? Perché è una persona che stimo. E poi gli dico: ma allora perché non le scrive? Perché in questo momento non passano. La sostanza della conversazione era: preparatevi perché la mafia organizzerà uno scontro elevando il livello dello scontro. Questa cosa rimane nella mia memoria, io la dico ad alcuni, a (Eugenio, ndr) Scalfari che era il direttore di Repubblica, io son rimasto molto sorpreso da questo tipo di giudizio che mi è stato trasmesso. Poi purtroppo Falcone viene ammazzato e io vengo chiamato a testimoniare...(a Caltanissetta, ndr)». I pm vogliono approfondire le «reazioni» nel partito (la Dc) al delitto Lima. E richiamano l’attenzione di De Mita su un passaggio della deposizione (di cui gli danno lettura) di Vincenzo Scotti, all’epoca dei fatti ministro degli Interni del governo Andreotti: «Subito dopo l’omicidio Lima, giunse al ministro dell’Interno quando ancora era ministro degli Interni, delle, alcune note dei Servizi di Sicurezza del Dipartimento di Polizia che facevano riferimento al pericolo di altri attentati organizzati dalla mafia nei confronti di esponenti politici fra i quali il presidente del Consiglio allora in carica, (Giulio) Andreotti, e i ministri (Calogero) Mannino e (Carlo) Vizzini...». Progetti di attentati dei quali, secondo Scotti, lui stesso si sarebbe fatto carico di informare Vizzini e Mannino (oggi indagato dalla procura di Palermo per «violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario» nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa, ndr) tramite l’allora capo della Polizia, Parisi. Una denuncia che, secondo l’ex ministro degli Interni – come ricordano i pm di Palermo a De Mita – sollevò non poche polemiche: «Si scatenò nei miei confronti un vero e proprio putiferio», riferisce ai magistrati Scotti. Dalla cui esposizione si evince, in sostanza, che dopo il delitto Lima vi erano concrete ragioni di ritenere che altri esponenti politici potessero finire nel mirino della mafia. De Mita, d’altra parte, ammette che «le cose che accadevano non è che poi fossero insignificanti», confermando di aver «raccontato la conversazione con Falcone a diverse persone», sebbene ribadendo di non aver avuto particolari manifestazioni di preoccupazione da alcun esponente politico.
VIA ARENULA E IL DAP
Insomma, la politica era stata avvertita. Due volte. La prima (dalla mafia) con il delitto Lima. La seconda (dalle istituzioni) con l’allarme lanciato dal ministro Scotti sul rischio di nuovi attentati. E’ in questo contesto che, il 25 maggio, due giorni dopo la strage di Capaci, Oscar Luigi Scalfaro succede al dimissionario Francesco Cossiga alla presidenza della Repubblica. E il 10 febbraio 1993 il capo dello Stato si trova a gestire la prima “emergenza” politico-istituzionale: il Guardasigilli, Claudio Martelli, si dimette da ministro e dal Psi in seguito ad un avviso di garanzia notificatogli dalla Procura di Milano. Sulle circostanze e le modalità della sua sostituzione con Giovanni Conso al ministero di Via Arenula, il 20 gennaio 2011, i pm di Palermo raccolgono la deposizione dell’allora segretario generale della presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni. «Sì Martelli che cade il giorno che noi stavamo a Trieste in visita ufficiale alla città, arriva una telefonata: guardi che... avviso di garanzia. E devo dire che Scalfaro mi disse: stasera stessa, vai via... le dimissioni e stavamo al ritorno da Trieste già quando stavamo a Trieste, fece arrivare l’aereo per firmare il decreto di accettazione delle dimissione in sostituzione con l’interim. Poi arrivati a Ciampino con l’aereo, si fermò, dice: aspetta un momentino che dobbiamo cercare di guardare in giro. E dove lo trovamo a questo, che erano le nove di sera? Allora lui fece un paio di telefonate e poi dice: no a me mi pare che la persona migliore assolutamente sia Giovanni Conso. E così telefonò a Conso il quale divenne in quel momento Ministro di Grazia e Giustizia...». Una circostanza che i pm vogliono approfondire: « No perché il Ministro ad interim viene scelto direttamente dal Capo dello Stato, il Presidente del Consiglio che ruolo ebbe in questo...?». Gifuni: «Ah be’, s’è fatta prima la telefonata a Giuliano Amato e Giuliano Amato ha detto: per carità, eccetera eccetera... Cioè Giuliano Amato purtroppo il suo Governo fu una rovina, non per colpa sua, ma perché una settimana sì e una no cadevano come birilli, cioè abbiamo cambiato la bellezza di dieci ministri...». Dunque, stando ai fatti riferiti da Gifuni, è Scalfaro ad indicare Conso al presidente del Consiglio Amato, ottenendone il benestare. I pm reiterano la domanda: «Quindi fu un’idea del presidente Scalfaro quella di Conso?». E Gifuni ribadisce: «Sì, sì, sì e fu confermato proprio a pieni voti da (Carlo Azeglio) Ciampi...», subentrato il 28 aprile 1993 allo stesso Amato. L’interesse dei magistrati di Palermo sul nome di Giovanni Conso non è casuale: nel novembre 1993, durante il suo dicastero, sarà revocato (meglio, non prorogato) ad oltre 300 mafiosi il regime del 41-bis. Una decisione che Conso ha dichiarato di aver preso in completa autonomia. Versione che non convince i magistrati che lo indagano per «false informazioni a pubblico ministero». Non convince, per altro, anche altri testimoni dell’inchiesta. Come il suo predecessore Claudio Martelli che il 15 febbraio 2011 mette a verbale: «La dichiarazione di Conso insomma... ma poi che si sia lui assunto la totale responsabilità è la cosa che più mi colpisce, non... che cosa può averlo indotto a una decisione di questa natura, perché se io non ricordo male il dispositivo del 41 bis non è che fossimo di fronte a qualche cosa che era in scadenza, la durata che è stata fissata mi pare nel luglio-agosto.. no?.. l’iscrizione al 41 bis dei 420 che io firmo siamo intorno ai primi di agosto credo... Non è che nel marzo successivo fossero in scadenza, non c’era niente in scadenza, gli sono stati semplicemente tolti». In realtà, alcuni sono stati revocati, altri non sono stati rinnovati alla scadenza, cioè a novembre. Parallelamente, i magistrati di Palermo puntano ad approfondire un’altra vicenda. Riguarda la composizione del Dap, in particolare dei vertici dell’amministrazione penitenziaria, che, dopo l’avvicendamento tra Martelli e Conso, subiscono una rivoluzione tutt’altro che indolore.
LA SOSTITUZIONE DI AMATO
Dopo 11 anni alla guida del Dipartimento di via Arenula, il 4 giugno 1993, Nicolò Amato viene sostituito con il procuratore di Trento, Adalberto Capriotti. Come per la scelta di Conso, anche in questo caso, la testimonianza di Gaetano Gifuni è significativa. «Lei ha ricordo delle ragioni di questo avvicendamento?», gli chiedono i pm. Risposta: «No e insomma, teneva un brutto, lo posso dire, un brutto carattere Nicolò Amato insomma, forse non sembrava molto collaborativo, che, però non vorrei spingermi oltre, però ricordo che fu insomma una decisione presa, come al solito, da Scalfaro, Ciampi e... perché lui fu sostituito durante il governo Ciampi, Nicolò Amato...». Quindi Scalfaro partecipa alla nomina di Capriotti. «Sì, sì, sì, erano perfettamente d’accordo sia Scalfaro e sia Ciampi», conferma Gifuni. «Ma scusi, era normale che per la sostituzione di un direttore, seppure di un dipartimento così importante, si interessasse il presidente della Repubblica?», gli chiedono i pm. Gifuni risponde: «Be’ sì, sì era importante...», citando il precedente del «povero» Michele Coiro, e «certamente era informato il capo dello Stato, non poteva non esserlo...». Che sulle motivazioni dell’avvicendamento, a precisa domanda dei magistrati, chiarisce: «Se questo 41 bis fosse entrato nei moventi della sostituzione, onestamente le dico che... non mi risulta proprio». E’ un punto cruciale, perché la revoca del 41-bis ad oltre 300 mafiosi nel novembre del 1993 potrebbe essere parte del risultato della trattativa Stato-mafia. Un punto sul quale la posizione di Nicolò Amato era chiara: «Gli scrissi (a Conso, ndr) che il 41-bis, essendo un decreto ministeriale, era il prodotto di un’emergenza. Perciò proponevo di sostituirlo con una legge, che avrebbe reso permanente, più efficace e più dura la risposta dello Stato alla mafia – spiega l’ex direttore del Dap in un’intervista a Panorama –. La sicurezza sarebbe stata tanto più garantita quanto più forte fosse stato il controllo sulle comunicazioni tra il carcere e fuori, che passavano attraverso la corrispondenza e i colloqui. Chiedevo un rafforzamento della censura sulle lettere e la possibilità di ascoltare e registrare i colloqui. E inoltre che i mafiosi chiamati a deporre nei processi potessero farlo solo attraverso un collegamento audiovisivo senza essere portati in udienza». Poi accadde un fatto singolare: Cosa Nostra inviò una lettera anonima. Destinatari il Presidente della Repubblica (Scalfaro), il Papa, il vescovo di Firenze, il cardinale di Palermo, il presidente del Consiglio, i ministri della Giustizia e degli Interni, il Csm, il Giornale di Sicilia, il giornalista Maurizio Costanzo e il critico d’arte Vittorio Sgarbi. Alcuni dei quali si riveleranno gli obiettivi delle bombe che si susseguiranno di lì a poco. I mittenti chiedevano che «gli squadristi al servizio del direttore Amato» fossero rimossi dalle carceri («Di quella lettera non venni mai messo al corrente», assicura l’ex capo del Dap). Di quella lettera, come sostiene in un’intercettazione Loris D’Ambrosio, l’attuale consigliere giuridico del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, si sono perse le tracce negli archivi del Quirinale. E dopo le bombe di via Fauro a Roma (14 maggio 1993) e la strage dei Georgofili a Firenze (27 maggio), il 4 giugno Amato viene rimosso dall’incarico. I pm citano un incontro che, secondo Amato, qualche giorno prima della sua sostituzione, l’ex segretario generale della presidenza della Repubblica avrebbe avuto con lui a Teatro dell’Opera di Roma. «E’ vero», conferma Gifuni. «E lei avrebbe detto: guarda, il presiden-te, parlava di Scalfaro, Scalfaro ha detto che entro una settimana te ne devi andare dal Dap...». Gifuni risponde: «Ma in queste formule io non... non parlo in questo modo, ma può darsi, mo’ adesso controllo pure le agende, sto Teatro dell’Opera mi, mi lascia un po’ perplesso, ma può darsi che lui già al corrente delle cose in movimento, mi dice: Gaetano che succede eccetera, eccetera, dico, guarda che oramai...». Il pm lo interrompe: «E’ deciso». Gifuni riprende: «...hanno deciso e però tu hai la via di uscita più che onorevole perché diventi Grado IV, Consigliere di Stato, e puoi fare tranquillamente la tua carriera». Amato rifiuterà l’incarico e si dedicherà, invece, alla professione forense. E già nello stesso mese di giugno, il nuovo capo del Dap, Capriotti (indagato per false dichiarazioni ai pm), chiederà di non prorogare i decreti per il 41 bis ad una serie di detenuti in scadenza.
DA SCOTTI A MANCINO
Tra la nomina di Scalfaro e l’arrivo di Giuliano Amato a Palazzo Chigi, al ministero dell’Interno siede il democristiano Vincenzo Scotti. E’ il padre della Dia, l’ha istituita nel ’91, e nei venti mesi che trascorrerà al Viminale (dal 16 ottobre 1990 al 28 giugno 1992) si occuperà di lotta alla criminalità praticamente ogni giorno. E’ frutto del suo lavoro e di Claudio Martelli anche il decreto-legge 306, quello che nel giugno del ’92 apporta in fretta molte modifiche al codice penale, compreso il 41bis. Ma proprio nelle ore in cui il tritolo ferisce il Paese, qualcosa cambia: il 28 giugno Scotti viene rimpiazzato da Nicola Mancino. «Sono andato a letto credendo di essere nominato il giorno dopo ministro dell’Interno e invece mi sono svegliato ministro degli Esteri», dirà ai giornalisti l’ormai ex titolare del Viminale. Ma esiste anche un’altra lettura. Quella di De Mita: la Dc aveva deciso che chi entrava nel governo doveva dimettersi da parlamentare, e questo voleva dire rinunciare all’immunità parlamentare. Oggi Scotti non vuole parlare delle indagini che coinvolgono Mancino (indagato per falsa testimonianza dai pm di Palermo, ndr), ma qualcosa su quella stagione lo ha detto in un’audizione alla Commissione antimafia il 28 ottobre 2010. La domanda del presidente, Beppe Pisanu, è diretta: «A cavallo delle stragi di Falcone e di Borsellino ci fu un cambio di Governo con la sua sostituzione al ministero dell’Interno. Lei ha mai collegato questa vicenda con i colloqui in corso tra Mori e Ciancimino? Quali motivazioni le vennero date, oltre a quelle ufficiali della incompatibilità con la carica di deputato?». La risposta: «So con molta sicurezza che il mio partito commise un grave errore nel decidere, in quel momento, di porre il Ministro dell’interno senza una rappresentatività parlamentare e politica. In un momento di lotta così delicata e così dura, il ministro dell’interno non poteva essere privato della sua presenza e della sua rappresentatività parlamentare prima di tutto, perché si poneva il problema di porlo a ricatto. Credo che feci bene – e ne sono convinto – nel non accettare». E’ ancora Pisanu a incalzare l’ex ministro: «Corrisponde al vero che è dopo l’8 giugno, e dunque dopo il decreto Scotti-Martelli (il 306, ndr), che nel suo partito emerse la decisione di chiedere l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e di membro del governo?». La risposta di Scotti: «Le dico con molta franchezza che ho l’impressione che fu una decisione presa per sistemare vicende interne di partito, più che per rispondere a una logica. Per me quella fu una scelta politicamente inopportuna e del tutto sprovveduta, per usare un linguaggio diplomatico». Il 12 gennaio 2012, davanti ai pubblici ministeri Ingroia, Sava e Guido, c’è Ciriaco De Mita, nel ’92 presidente della Democrazia cristiana. Dice di avere la memoria di ferro e i magistrati ne approfittano: «E’ in grado di ricostruire i passaggi nell’avvicendamento fra i due governi con particolare riferimento a quello che accadde rispetto alla guida del ministero dell’Interno?». De Mita risponde: «L’avvicendamento, come dire, formalmente è vero, perché al governo Andreotti subentra quello Amato, ma quel passaggio fu accompagnato, come dire, da eventi straordinari che poi hanno segnato... non fu una cosa semplice... e l’elezione del capo dello Stato avvenne in un contesto molto singolare, in coincidenza in quella vigilia ci fu l’uccisione di Falcone e anche su questo molti ritengono che l’accelerazione fosse dovuta alla notizia della morte di Falcone. L’ indicazione di Mancino ministro dell’Interno veniva accompagnata dalla spiegazione che era un orientamento di Scalfaro. C’è stata un po’ di discussione, non a difesa della conservazione di un ruolo ma sulla collocazione dei ruoli. Lui (Scotti, ndr) accettò di fare il ministro degli Esteri. Però lui non si dimise subito a differenza degli altri, quando gli si chiese di optare, o meglio di rinunciare al ruolo di parlamentare, non si pensava neppure che optasse, lui preferì di conservare l’immunità parlamentare». A questo punto i pm ricordano a De Mita le parole di Scotti: «Si percepiva un clima politico di progressivo mio isolamento tanto che un gruppo di 59 Deputati del mio Partito, raccolsero le loro firme per farmi pervenire la loro personale solidarietà...». De Mita: «Escludo in maniera assoluta, con piena coscienza, che la scelta dei ministri sia stata motivata da linee politiche». Ingroia, Sava e Guido riportano a De Mita altri passi delle dichiarazioni di Scotti: «Io feci sapere che mi sarei posto il problema della incompatibilità solo dopo l’eventuale designazione come ministro e davo per scontata la mia conferma al Viminale. Di tanto parlai anche con Martelli che dopo averne parlato con Amato mi rassicurò sul fatto che non vi sarebbe stato alcun problema per la mia conferma se io fossi stato disposto ad andare contro la decisione del mio Partito. Preciso che durante la notte antecedente alla mia nomina a ministro degli Esteri, mi telefonò De Mita...». De Mita nega: «Io in vita mia non telefono mai a nessuno...». I pm vanno avanti con le parole di Scotti: «Mi telefonò De Mita per chiedermi se volevo accettare il dicastero degli Esteri ma io rifiutai categoricamente...». Dopo di che Scotti avrebbe addirittura chiusi bruscamente la telefonata. Ancora De Mita: «Non ricordo che Scotti nei miei confronti avesse mai assunto atteggiamenti (del genere, ndr). Faceva parte di una corrente (la Corrente del Golfo, ndr) variabile!». Già, variabile, come le tante, troppe contraddizioni di una vicenda sulla quale la Procura di Palermo ha cercato di accendere la luce della verità.

 di Antonio Pitoni e Fabrizio Colarieti per Il Punto, 12 luglio 2012 [pdf]

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