MANCINO CHIAMA IL COLLE: Indagando su chi trattò con la Mafia, dalla parte delle Istituzioni, un ruolo centrale, finora, l’hanno avuto le telefonate intercorse tra il senatore Nicola Mancino e il Quirinale, direttamente con Napolitano e prima ancora con il suo consigliere giuridico, Loris D'Ambrosio (scomparso il 26 luglio scorso). Conversazioni che non hanno nulla di penalmente rilevante, come anche la stessa Procura di Palermo ha ribadito, ma che certamente mostrano uno scenario significativo. Mancino, ormai a conoscenza delle sue grane, teme il confronto disposto dai pm con l’ex Guardasigilli, Claudio Martelli («Non vorrei che dal confronto viene fuori che io ho fatto una dichiarazione fasulla e quello ha detto la verità, perché a questo punto chi processano? Non lo so», dice a D’Ambrosio). Il confronto si terrà regolarmente. Mancino, sempre al telefono con il Colle, lamenta anche assenza di coordinamento tra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, doglianze che, il 4 aprile 2012, il segretario generale della Presidenza della Repubblica, gira con una lettera al Procuratore generale della Cassazione. L’iniziativa del Quirinale ha un seguito: il 19 aprile si tiene in Cassazione una riunione cui partecipano, tra gli altri, lo stesso Pg Ciani e il Pna Piero Grasso. E’ proprio Grasso, dopo aver evidenziato «la diversità dei vari filoni d’indagine » tra Caltanissetta, Firenze e Palermo e «la loro complessità», a far mettere a verbale «di non avere registrato violazioni del protocollo del 28 aprile 2011 tali da poter fondare un intervento di avocazione». Al telefono nessuno dei protagonisti commette reati. Mancino, però, ha già messo in fila troppi non ricordo e a parere dei pm siciliani deve essere processato per falsa testimonianza. Altra faccenda il conflitto di attribuzione nato tra il Colle e la Procura di Palermo. La Corte Costituzionale deve sciogliere il nodo delle intercettazioni, che pur interessando il solo cellulare del senatore Mancino hanno coinvolto, indirettamente, anche il Presidente della Repubblica, ledendo a suo avviso le prerogative proprie del capo dello Stato.
LA VERSIONE DI AMATO: La versione di Giuliano Amato, presidente del Consiglio nel momento in cui tutto si consumò, ovvero dal 28 giugno ‘92 al 22 aprile ‘93, è di qualche giorno fa e arriva dall’aula audizioni della Commissione Antimafia. «Se ci sono stati uomini dello Stato che hanno trattato con la mafia – ha riferito il dottor Sottile a chi gli chiedeva se fosse al corrente della trattativa -, nessuno è mai venuto a dirlo a me. Non avrei mai potuto sapere dell’esistenza della trattativa tra Stato e mafia perché, anche se ci fosse stata, nessuno sarebbe venuto a parlarne con me: avrei messo un fermissimo alt. Io ero totalmente all’oscuro. Il generale Mori - ha aggiunto l’ex premier davanti alla Commissione antimafia - venne ricevuto dal segretario generale di Palazzo Chigi, Fernanda Contri dopo l’uccisione di Borsellino. Lei gli chiese notizie sulle indagini, non parlò di trattative né ebbe da lui indicazioni in quel senso. La mia posizione sul 41bis è sempre stata più rigida di quella degli altri, io non ho mai avuto dubbi e non mi risulta che sotto il mio governo non siano stati firmati decreti di sottoposizione della misura. Non ci furono pressioni sulla scelta dei ministri del mio governo». In merito alla nomina di Mancino all’Interno, e alla conseguente esclusione di Scotti, Amato ha poi aggiunto: «Nelle proposte fattami da Forlani all’Interno sarebbe dovuto andare Nicola Mancino e Vincenzo Scotti, in precedenza all’Interno, si sarebbe spostato agli Esteri. Io ritenni plausibili queste indicazioni ritenendo Mancino una personalità dal curriculum adeguato e Scotti un uomo eclettico in grado di ricoprire diversi incarichi. Scotti non mi segnalò mai il suo desiderio di restare all’Interno e perciò rimasi sorpreso quando lui successivamente disse di aver provato sorpresa e preoccupazione per non essere rimasto all’Interno ». Sull’esclusione di Martelli al ministero della Giustizia e la successiva nomina di Conso: «Il nome di Giovanni Conso come Guardasigilli venne in mente a me (e non a Craxi, ndr), era il più illustre processual- penalista italiano, persona stimatissima e il capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, fu d’accordo. C’è chi pensa che le stragi di Capaci e via D’Amelio abbiano matrici diverse, non soltanto mafiose. Io non sono in grado di escluderlo. Le technicalities dei due episodi - ha aggiunto ancora Amato - sono tipiche di altri fenomeni criminali, del terrorismo internazionale, ma io non ho elementi su questo. Si sa che la mafia, in precedenza, uccideva in un altro modo».
DEPOSIZIONI DIVERGENTI: Secondo Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia tra il ’91 e il ’93 e importante testimone nell’inchiesta sulla trattativa, l’ex presidente della Repubblica Scalfaro fu il regista, anzi «dominus», di una strategia «che, pensando di fermare le stragi, puntava ad assecondare l’ala moderata di Cosa nostra». Parole che pesano come macigni, pronunciate dall’ex delfino socialista nelle scorse settimane, dinanzi alla Commissione antimafia. Scalfaro, oggi scomparso, secondo l’ex Guardasigilli agì «dietro le quinte, potendo contare sul consenso di uomini che ricoprono ruoli chiave». Tra questi «il capo della polizia Parisi, Capriotti (che aveva sostituito al Dap Niccolò Amato, ndr), non voglio dire di Mancino ma penso di sì». A Mancino, aveva raccontato anche ai pm di Palermo, Martelli comunicò «l’anomalo atteggiamento » assunto dall’allora capitano del Ros dei carabinieri, Giuseppe De Donno, che insieme al generale Mario Mori «aveva agganciato Vito Ciancimino». Martelli parla di «capitolazione» dello Stato di fronte a Cosa nostra. «Un cedimento che passa dalla scelta di mettere da parte i politici che avevano esagerato nel contrasto alla mafia (Martelli e Scotti tra i primi, ndr)». E ancora su Scalfaro: «Non lo conoscevo personalmente e la prima volta che lo incontrai mi disse che aveva dubbi sulla costituzionalità del decreto che introdusse il 41 bis. Poi si adoperò per sostituire Scotti con Mancino al Viminale». Per Martelli Giuliano Amato «mente quando dice di aver scelto Conso in autonomia, perché si sa che lo scelse Scalfaro». E mente ancora «dicendo di non aver ricevuto pressioni da parte di Bettino Craxi perché non restassi alla giustizia». Qualche giorno dopo, parlando alla Festa Nazionale del Psi, l’ex ministro della Giustizia socialista rine di Scalfaro al Quirinale:«Ci fu l’attentato a Falcone, che causò una accelerazione dei tempi che portò all’elezione di Scalfaro ». Le parole di Amato, nella parte riferita alla nomina di Conso, non collimano anche con quanto riferì ai magistrati di Palermo il 20 gennaio 2012 l’allora segretario generale della presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni. «Sì Martelli che cade il giorno che noi stavamo a Trieste in visita ufficiale alla città, arriva una telefonata: guardi che... avviso di garanzia. E devo dire che Scalfaro mi disse: stasera stessa, vai via... le dimissioni e stavamo al ritorno da Trieste già quando stavamo a Trieste, fece arrivare l’aereo per firmare il decreto di accettazione delle dimissione in sostituzione con l’interim. Poi arrivati a Ciampino con l’aereo, si fermò, dice: aspetta un momentino che dobbiamo cercare di guardare in giro. E dove lo trovamo a questo, che erano le nove di sera? Allora lui fece un paio di telefonate e poi dice: no a me mi pare che la persona migliore assolutamente sia Giovanni Conso. E così telefonò a Conso il quale divenne in quel momento Ministro di Grazia e Giustizia...». Dunque, stando ai fatti riferiti da Gifuni, è Scalfaro a indicare Conso al presidente del Consiglio Amato, ottenendone il benestare. Sarà Conso nel novembre del ’93 a non prorogare a oltre 300 mafiosi il regime del 41-bis.
LA VERSIONE DI DE GENNARO: Gianni De Gennaro, il superpoliziotto dalla carriera in continua ascesa, arriva alla Commissione antimafia il 10 settembre. «Non ho mai sentito parlare di contatti con formazioni trattativiste di Cosa Nostra, essendo peraltro nota la mia posizione assolutamente oltranzista su questo punto», ha riferito l’attuale sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio. In merito ai presunti rapporti intercorsi tra i militari del Ros e Vito Ciancimino ha poi aggiunto: «Non escludo di aver sentito parlare di qualche forma di collaborazione, ma non è consuetudine condividere informazioni tra organismi investigativi ad indagini in corso». L’ex capo della polizia, già fidato collaboratore di Falcone, ha poi sottolineato di «essere sempre stato un convinto assertore del 41 bis, non abbiamo mai pensato che ci si potesse privare di questo strumento, sarebbe stato il primo concreto cedimento da parte dello Stato alla mafia ». Nel corso dell’audizione De Gennaro ha anche accennato alle parole pronunciate da Falcone all’indomani dell’Addaura: «Il riferimento alle “menti raffinatissime” fatto da Giovanni Falcone dopo il fallito attentato dell’Addaura è probabilmente da ricercarsi nelle logge massoniche».
di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 28 settembre 2012 [pdf]