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«Altro che falsi, quei titoli sono veri e ancora validi, ecco perché fanno tanta paura agli americani. Al mio assistito li ha consegnati un cittadino spagnolo con tanto di procura a vendere, doveva provare a piazzarli sul mercato dietro riscontro di una percentuale». A parlare è l’avvocato dell’agricoltore viterbese, fermato dalla Guardia di Finanza il 21 aprile scorso nel capoluogo della Tuscia, mentre se ne andava in giro sulla sua macchina con una valigetta piena zeppa di titoli di Stato e certificati di deposito in oro statunitensi per un valore di quasi 4 miliardi di euro. «Il mio assistito – spiega a Il Punto l’avvocato Franco Taurchini – aveva con sé anche alcuni documenti che certificano l’autenticità dei titoli e dei certificati di deposito. Glieli aveva affidati uno stimato imprenditore della Costa Brava, che tra l’altro ha da tempo intentato causa alla Federal Reserve. Sono autentici, e visto il loro valore, è ovvio che le autorità americane si affrettino a dichiararli falsi».
Il 70enne Andrea Cherchi, così si chiama l’agricoltore finito sotto inchiesta per il contenuto di quella valigetta, non è stato arrestato (come chiarisce il suo legale), anche se nei suoi confronti è stato ipotizzato il reato di introduzione nel territorio dello Stato di monete e titoli presumibilmente falsi. In passato l’agricoltore viterbese di origini sarde aveva già avuto molti problemi con la giustizia, ed è la sua fedina penale a raccontare tutto il resto: rapina, estorsione, reati contro il patrimonio, traffico di stupefacenti e riciclaggio di denaro. Gli investigatori pare indagassero sul suo conto da mesi, anche se la genesi dell’indagine Million dollar, che ha portato al sequestro della valigetta contenente il tesoretto in titoli americani, è ancora poco chiara, così come tutto ciò che ruota attorno a questa spy story. Stando a quanto ha fatto sapere la Guardia di Finanza i documenti sequestrati all’agricoltore sono ritenuti «di dubbia provenienza», cioè sarebbero falsi. I titoli di credito americani, emessi “al portatore” dalla Federal Reserve negli anni Trenta, che l’uomo aveva con sé valevano complessivamente 1,5 miliardi di dollari e oltre 3 miliardi di euro gli altri certificati di deposito, per circa mille tonnellate di oro, trovati in suo possesso. Secondo le fiamme gialle i titoli erano destinati a garantire prestiti «ovvero opache transazioni finanziarie internazionali», così come altri documenti finanziari e scritture notarili che Cherchi aveva in auto nel momento in cui la finanza lo ha bloccato a Viterbo. Sull’autenticità dei documenti sono ancora in corso accertamenti, cui stanno collaborando i funzionari della Banca centrale americana e dell’Ambasciata degli Stati Uniti. «Accertamenti - spiega una nota diffusa dalle fiamme gialle - volti a verificare l’autenticità, la natura e la provenienza dei titoli, nonché la loro destinazione ed eventuali collegamenti dell’uomo con organizzazioni criminali».
Via Veneto conferma. Ecco quanto ha riferito a Il Punto il portavoce dell’Ambasciata americana di Roma: «Per quanto riguarda le recenti notizie di falsi/fittizi titoli di Stato degli Stati Uniti, posso solo dire che i Servizi segreti stanno collaborando regolarmente con i funzionari italiani delle forze dell'ordine e ci complimentiamo con la polizia italiana e i magistrati per la collaborazione. I 6.000 miliardi di dollari in titoli sequestrati a febbraio erano fittizi e il Servizio segreto ne ha dato conferma alle autorità italiane». Secondo quanto ha appreso Il Punto, gli esperti del U.S. Secret service, dopo aver visionato i titoli sequestrati a Cherchi, hanno trasmesso alla Guardia di Finanza un dettagliato rapporto in cui si conferma, come avvenuto in occasione di altre decine di sequestri di questo tipo, che quei titoli sono «fittizi», cioè falsi. La verità, secondo le autorità americane, è nelle loro caratteristiche: colori sbagliati, tagli desueti, carta e inchiostro di produzione successiva agli anni Trenta, varie imperfezioni e iscrizioni mai usate nelle emissioni reali. Senza tralasciare – come più volte segnalato dalla stessa Federal Reserve – che l'esagerato taglio dei bond sequestrati (1 miliardo di dollari) è di gran lunga superiore a quello massimo (100.000), effettivamente utilizzato dal governo statunitense, che, tra l’altro, nel ‘34 non immise sul mercato obbligazioni di questo tipo.
Prima del blitz della Guardia di Finanza a Viterbo, anche la Direzione distrettuale di Potenza aveva messo a segno un colpo analogo. Proprio nel febbraio scorso, il 17, il Ros dei carabinieri nell’ambito dell’operazione Vulcanica aveva sequestrato a Zurigo altri titoli Usa del valore di 5.975 miliardi di dollari. In quell’occasione era finito in manette, insieme ad altre 7 persone, un promotore finanziario di Codogno, che interrogato aveva anch’egli dichiarato che quei titoli erano autentici ma scaduti. Il professionista codognese, secondo gli inquirenti della Dda di Potenza, era l’intestatario del contratto di deposito in Svizzera delle casse che contenevano i bond, aperte dai militari del Ros grazie alla collaborazione dell’istituto di credito elvetico che le custodiva. I titoli erano stati emessi nel 1934 (come quelli sequestrati all’agricoltore viterbese) e avevano una validità di trentatré anni. I pm Francesco Basentini e Laura Triassi sono arrivati alle tre casse partendo dalla Basilicata e indagando su faccende di usura e mafia. Il prezioso contenuto dei bauli avrebbe raggiunto Zurigo dopo un lungo peregrinare: prima Roma, poi Londra, Hong Kong e infine la Svizzera, e a veicolare fin lì i titoli sarebbe stata una fiduciaria elvetica fondata all’indomani della seconda guerra mondiale. All’interno di ognuna delle tre casse gli investigatori hanno trovato, ben custoditi dentro dei cilindri di piombo, anche una copia del trattato di pace di Versailles (1919). E quei Bond, secondo il gruppo di falsari che stava tentando di immetterli sul mercato, rappresentavano la «riparazione» delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale per i danni causati all’Europa. Le tre casse di legno erano chiamate con il nome in codice mother box, pesavano oltre un quintale l’una e avevano impresse sulla parte superiore le scritte in bronzo “Chicago” e “Federal Reserve”. Al loro interno i titoli erano a loro volta stipati e accuratamente catalogati in piccoli box di ferro in grado di ospitare 250 documenti ciascuno. Dopo una prima analisi, gli inquirenti hanno potuto accertare che i bond erano stati trattati con la paraffina, per garantire una migliore conservazione, ed erano di ottima fattura, ma certamente falsi secondo la perizia trasmessa al Ros dagli esperti dell’ufficio di Roma dell’U.S. Secret service. Secondo gli investigatori l’organizzazione, di cui facevano parte oltre il promotore finanziario di Codogno anche tre piemontesi, due romani, un lucano e un siciliano, avrebbe comunque tentato di “piazzare” titoli americani simili a quelli sequestrati a Zurigo, anche avviando trattative con «alcune non ben individuate autorità americane», interessate, guarda caso, a «intercettare» il tesoro prima che fosse messo in circolazione.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto [pdf]

«Li ho visti da vivi e li ho visti da morti. Ho conosciuto molti dei personaggi che hanno incrociato le loro esistenze tormentate, i pochi amici, i tanti nemici, il branco degli indifferenti. Prima di iniziare a scrivere, ho raccolto vecchie istruttorie e qualche sentenza. Ma poi ho provato un disagio profondo a leggere sempre gli stessi nomi, gli stessi mandanti delitto dopo delitto e strage dopo strage. Non sono arrivato in fondo. Non ce l’ho fatta. Sapevo già come finiva la storia di questi uomini soli». Attilio Bolzoni, giornalista de La Repubblica, esperto di mafia, nella premessa del suo ultimo libro, Uomini soli (Melampo Editore, 232 pagine 16,00 euro), accoglie così i suoi lettori. Il suo saggio è quasi un trattato di storia contemporanea, è un racconto collettivo su quattro uomini, lasciati soli dalle istituzioni e uccisi da Cosa Nostra.
È la storia di Pio La Torre, il primo parlamentare (del PCI) ucciso dalla mafia, sparato giù a Palermo, il 30 aprile 1982. Lo ammazzano, scrive Bolzoni, perché, probabilmente, «aveva capito che la Sicilia stava cambiando padroni». Lo uccidono perché era pericoloso, tenace, intransigente. Insomma era uno «che non si piegava mai» e che parlava due lingue, il siciliano e l’italiano. Di Pio La Torre, resta una legge, la Rognoni-La Torre, uno strumento decisivo nella lotta alla mafia, nata grazie al suo sacrificio e a quello di altri uomini rimasti soli, come lui. ...continua a leggere "Uomini soli"

Si complica, e non di poco, la vicenda dei due Marò del battaglione San Marco fermati in India con l’accusa di aver ucciso, il 15 febbraio al largo delle coste del Kerala, due pescatori indiani scambiati per pirati del mare. Il magistrato di Kollam il 16 aprile ha esteso di altri 14 giorni la carcerazione preventiva dei Marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, detenuti nella prigione di Trivandrum. Il prolungamento dei termini di custodia giudiziaria, secondo quanto si è appreso, sarebbe stato richiesto dalla polizia indiana che avrebbe ancora bisogno di tempo per completare le indagini, prima di decidere per un eventuale rinvio a giudizio.
Sul conto dei due fucilieri del San Marco, che rischiano la pena capitale, pesano, più che altro, le conclusioni della perizia balistica, condotta in un laboratorio della polizia scientifica indiana, secondo la quale a uccidere i due pescatori sarebbero stati i fucili d’assalto Beretta in dotazione all’unità militare italiana imbarcata sulla petroliera Enrica Lexie. Perizia, quest’ultima, fortemente contestata in Italia, anticipata dalla stampa indiana, ma non ancora trasmessa alla Farnesina, e, ora, oggetto di una rilettura compiuta, per conto del “Comitato Cittadino Marò Liberi”, da un esperto, ex consulente del caso Ustica, secondo il quale a sparare non sarebbero stati Latorre e Girone.
Sulla vicenda, ha confermato il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, a margine del vertice Nato tenutosi a Bruxelles la scorsa settimana, «i contatti con i principali partner sono continui, in particolare con il ministro degli esteri danese, che è presidente di turno della Ue. L’azione diplomatica prosegue a tutto campo - ha aggiunto il titolare della Farnesina - e con la massima intensità». Terzi ha confermato, poi, che l’interessamento dell’Unione europea, in particolare dell’alto rappresentante della politica estera Catherine Ashton, è forte. Nelle stesse ore il guardasigilli, Paola Severino, ha fatto sapere che il governo ha inoltrato all’India la rogatoria internazionale con cui chiede di acquisire i risultati degli accertamenti svolti dalle autorità del Kerala. Si tratta degli esami balistici (anticipati dalla stampa indiana ma non ancora trasmessi all’Italia) e dei verbali contenenti le dichiarazioni dei due Marò. In tal senso il ministro della Giustizia, intervenendo alla Camera il 18 aprile, ha confermato «il pieno impegno del governo» per riportare in Italia i due fucilieri, e ribadito, riprendendo quanto dichiarato dal collega Terzi, che la giurisdizione sulla vicenda «resta del nostro Paese». Il 15 marzo, ha spiegato il ministro, la Procura di Roma - che ha iscritto i due Marò nel registro degli indagati per omicidio volontario - «ha trasmesso al ministero della Giustizia il testo della rogatoria che, nella stessa giornata, è stata inviata alla Farnesina affinché‚ la trasmettesse alle autorità indiane».
Tuttavia c’è un ostacolo non facile da superare. Tra l’Italia e l’India non vi è un trattato di mutua assistenza giudiziaria, e, perciò, le richieste di rogatoria inoltrate dalla magistratura italiana sono trattate sulla base della cosiddetta «cortesia internazionale» e con offerta di «reciprocità per casi analoghi». Insomma la risposta degli indiani non è per nulla scontata e potrebbe essere oggetto di un baratto, semmai l’Italia abbia qualcosa da mettere sul piatto. Dunque il governo sta mettendo in campo tutte le sue forze, con un impegno sia politico diplomatico sia tecnico giuridico, in attesa di una risposta da Nuova Delhi, non dovuta ma di cortesia. Sulla sorte dei due Marò, inoltre, incombe anche il sospetto - già avanzato da Il Punto - che a complicare la faccenda ci si sia messa di mezzo anche la tragica vicenda di Franco Lamolinara, l’ingegnere sequestrato in Nigeria e ucciso, insieme al collega Chris McManus, nel corso di un blitz delle teste di cuoio inglesi l’8 marzo scorso. Un incidente diplomatico, con implicazioni d’intelligence, che ha raffreddato i rapporti tra Roma (orientata a trattare) e Londra (intervenuta con la forza). Non è un mistero, infatti, che Palazzo Chigi fosse già pronto a chiedere, e con tanto di cappello in mano, un intervento di Downing Street sulla vicenda dei Marò detenuti in India. La sorte dei Marò potrebbe essere legata a quanto la Corte Suprema di New Delhi deciderà il prossimo 8 maggio dopo aver ammesso (il 23 aprile) il ricorso presentato dall'Italia in merito all'incostituzionalità della detenzione dei due militari del San Marco. I tre giudici del massimo organo giudiziario indiano, accogliendo le argomentazioni presentate dal legale, Harish Salve, a proposito dell'illegittimità dell'arresto di Latorre e Girone, hanno chiesto al governo dell'Unione indiana e allo stato del Kerala di presentare una memoria. L'avvocato ha ribadito che l'incidente è avvenuto in acque internazionali, perciò il fatto è di competenza italiana, e che Kerala è incompetente a giudicare una disputa tra due Stati sovrani e in cui sono implicati dei militari. Il ricorso «per eccezione di giurisdizione», in cui si contesta l'applicabilità delle leggi indiane al caso della Enrica Lexie, era stato presentato anche all'Alta Corte del Kerala, che, però, deve ancora pronunciarsi. Nell'attesa del verdetto il team di legali italiani ha presentato un appello in via di urgenza alla Corte Suprema dove è in corso anche l'esame della petizione per il rilascio della nave Enrica Lexie.
«Quella perizia balistica indiana è falsificata in modo “evidente” e “oggettivo” nei punti dove si dichiara la colpevolezza dei militari italiani. Non sono stati i Marò del San Marco a sparare ai pescatori e tutta la verità è nei tracciati radar». Luigi Di Stefano non ha dubbi. Da freelance - l’ex consulente radaristico della compagnia aerea Itavia nell’inchiesta-rompicapo sulla strage di Ustica (27 giugno 1980, 81 vittime) - si è preso la briga, per conto del “Comitato Cittadino Marò Liberi” di studiare la dinamica dell’accaduto e di riscrivere le conclusioni dell’affaire Marò. «La sicurezza di avere “prove inoppugnabili” sulla responsabilità dei due militari italiani - spiega l’esperto rendendo pubblico il suo studio sul sito seeninside.net/piracy - è totalmente campata in aria. Le autorità indiane sapevano fin dal 16 febbraio (giorno successivo ai fatti e giorno dell’autopsia sui cadaveri) che il calibro della pallottola repertata non era quello delle armi italiane (Beretta 70/90 calibro 5,56 Nato, ndr), per cui non si capisce quale sia il supporto a queste roboanti dichiarazioni, ma, soprattutto, ai provvedimenti di arresto eseguiti successivamente a carico dei due militari italiani e al fermo della nave Enrica Lexie. L’unico elemento che ritorna e regge alle opportune verifiche - va avanti il tecnico - è la rotta della nave Enrica Lexie, congrua per spazi, tempi e velocità con quanto dichiarato dalla parte italiana. Così come le dichiarazioni dei due Marò che affermano di non aver colpito nessuna imbarcazione, tantomeno il peschereccio St. Antony. Tutto il resto si sbriciola non appena si compiono verifiche seguendo le più elementari metodologie di un’indagine tecnico-giudiziaria». A questo punto Di Stefano elenca le incongruenze, compiendo una rilettura del caso che scagiona i due fucilieri del San Marco, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, tuttora detenuti in India. «Il calibro del proiettile è incompatibile con le armi in dotazione ai nostri militari. La Enrica Lexie, nel momento in cui il peschereccio St. Antony viene colpito, - spiega l’ex consulente del caso Ustica - si trovava 27 miglia più a nord. Il ruolo della Olympic Flair non è stato investigato, è stato permesso a questa nave di eclissarsi, e abbiamo visto che anche quest’ultima ha dichiarato di aver subito un attacco pirata addirittura nella rada del porto di Kochi. Gli autori dell’omicidio dei due pescatori vanno ricercati altrove, piuttosto che nel personale imbarcato sulla Enrica Lexie, e nuove conferme potranno arrivare - chiosa Di Stefano - solo esaminando i tracciati radar».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto [pdf]

Clemente MastellaE’ stato un giudice a staccare la spina. E ora Il Campanile non suona più. La sezione fallimentare del tribunale di Roma, con sentenza del 29 marzo, ha messo la parola fine alla travagliata storia del fu quotidiano dell’Udeur. In stampa fino al dicembre del 2009, il quotidiano del partito di Clemente Mastella, suonava puntuale come un orologio svizzero, ovviamente a colpi di contributi pubblici. Poi la cessione e l’inizio della fine, arrivata a colpi di carte bollate in un’aula di Tribunale su istanza (di fallimento) presentata da un gruppo di ex dipendenti (rappresentati dagli avvocati Raffaele Nardoianni e Giorgia Loreti) della cooperativa editrice Il Campanile Nuovo, nella speranza di recuperare stipendi arretrati e Tfr.
DALLE STAMPE ALLE STALLE. La storia del foglio di largo Arenula inizia dodici anni fa, ed è simile a quella di tanti altri house organ di partito. Quasi invisibile nelle edicole, pochi giornalisti e una testata – almeno fino a quando l’Udeur era in Parlamento – gestita da una cooperativa saldamente ancorata ai contributi statali per l’editoria. La favola cambia decisamente trama il 16 gennaio 2008, quando Clemente Mastella, prima si dimette da ministro della Giustizia, poi ritira la fiducia al governo guidato da Romano Prodi, che cadrà qualche giorno più tardi al Senato al termine della drammatica seduta che lasciò alla storia lo sputo di Tommaso Barbato (rimasto fedele a Mastella) a Nuccio Cusumano (in rotta con l’Udeur decise di sostenere Prodi). L’Udeur pagherà dazio alle successive elezioni salutando il Parlamento. Per il Campanile è l’inizio di una lunga agonia, che terminerà con la sentenza di fallimento.
CONTRIBUTO CLANDESTINO. Orfana del suo partito, ma non ancora del contributo statale, la testata dell’Udeur nel dicembre del 2009 viene ceduta ad una compagine di nuovi soci, che ha il «partner imprenditoriale e finanziario di riferimento» nell’imprenditore Fabio Caso, già celebre alle cronache per il tentativo di acquisto nel 2008 de L’Unità, l’avventura (brevissima) di Dieci e il naufragio de Il Globo nei primi anni 2000. L’operazione va a buon fine e sarà chiusa, guarda caso, proprio in concomitanza dell’accredito del contributo 2009 (relativo al 2008): una somma compresa tra i 600 e i 700 mila euro. “Il Clandestino, un giornale non a Caso”, recitava lo slogan di lancio della nuova testata, già in edicola da qualche mese al momento dell’acquisizione della cooperativa Il Campanile Nuovo. Che dopo l’acquisizione diventerà editrice proprio del Clandestino. Una nuova avventura che, come nel copione di un film già visto, è destinata a durare poco. Fino al 18 marzo 2010, dopo un’escalation di tensioni interne alla redazione che fecero saltare ben quattro direttori: David Parenzo, Pierluigi Diaco e i fratelli Luigi e Ambrogio Crespi. Emblematico, al riguardo, il telegramma inviato - un attimo prima del botto - proprio da Ambrogio Crespi al presidente della cooperativa, e per conoscenza a Fabio Caso. Crespi annuncia le dimissioni dalla carica di consigliere di amministrazione del Campanile, ma i passaggi più significativi di quel telegramma sono altri. La redazione decide di pubblicarlo: lo impagina nella prima dell’edizione del giorno dopo, ma mai arrivata in edicola. Cosa c’è scritto? E’ un’anticipazione di quanto sta per accadere: «Ho appreso - scrive il direttore editoriale, Amin essere da questa cooperativa non consentirebbero una prosecuzione utile agli scopi per la quale ci siamo determinati». Poi i dubbi: «Sono stati effettuati dal conto corrente della cooperativa, dalla Bnl presso il Senato della Repubblica, dei prelievi di importi rilevanti senza alcuna forma di consultazione preventiva, condivisione di strategia e, non ultima, valutazione di opportunità». Prosegue Crespi: «I contratti di lavoro del personale giornalistico sono stati regolarmente trasferiti in data 1° febbraio da Edizioni Clandestine alla Cooperativa Campanile Nuovo ma le buste paga distribuite a marzo riportano ancora le Edizioni Clandestine. Resta chiaro l’errore materiale ma lo stesso suggerisce anche una possibile mancata comunicazione agli organi di gestione delle buste paga anche ai fini previdenziali e contributivi dell’avvenuto trasferimento». Perciò le buste paga erano finte. E’ ancora Crespi a spiegare a tutti che stavolta l’avventura è davvero finita: «Non esisterebbe alcun documento formale che consentirebbe alla Cooperativa Campanile Nuovo l’utilizzo della testa “Il Clandestino” di proprietà delle Edizioni Clandestine Srl. Il pagamento di alcuni fornitori di massima importanza non è stato onorato. Tra questi, il collegio sindacale che rischia di pregiudicare la possibilità di ottenere il contributo pubblico».
TITOLI DI CODA. Il contributo è perso, un mese dopo Fabio Caso e suo padre Gian Gaetano finiscono in manette (e successivamente scarcerati) con l’accusa (relativa ad altre vicende) di abusivismo bancario, false fatturazioni e bancarotta fraudolenta, il Clandestino non tornerà mai più in edicola. Della cooperativa Il Campanile Nuovo resta, invece, solo una scatola vuota.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 26 aprile 2012 [pdf]