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los-roques-mappaIl prossimo 20 febbraio, a quattro anni dalla tragedia di Los Roques, potrebbero finalmente iniziare, in mare, le ricerche del bimotore della compagnia Transaven scomparso nel nulla il 4 gennaio del 2008, insieme ai suoi 14 passeggeri (otto erano italiani), mentre sorvolava l’arcipelago caraibico per raggiungere Gran Roque. Uno staff italiano, coordinato dall’ammiraglio Giovanni Vitaloni del Dipartimento della Protezione civile, grazie a un accordo tra il governo italiano e quello di Caracas, raggiungerà il Venezuela per imbarcarsi su una nave oceanografica di un’impresa di Lafayette, accreditata presso la Us Navy e altamente specializzata in ricerche sottomarine.
LA VICENDA. Quella mattina del 4 gennaio 2008 il bimotore a elica Let-410 decollò proprio dall’aeroporto Maiquetía di Caracas e sarebbe dovuto atterrare, circa mezz’ora dopo, a Gran Roque, l’isola più grande dell’arcipelago caraibico. Il pilota era un venezuelano di 36 anni, Esteban Lahoud Bessil Acosta. L’ultima comunicazione con la torre di controllo avvenne intorno alle 9.28, quando il volo YV-2081 era a 45 miglia (circa 83 chilometri) dal punto d’arrivo, livellato a una quota di 7.500 piedi (circa 2.290 metri). Ai comandi del velivolo, insieme ad Acosta, c’era il copilota, Osmel Alfredo Avila Otamendi, 37 anni, e 12 passeggeri, di cui 8 italiani: Stefano Fragione, 33 anni, sua moglie, Fabiola Napoli di 34, romani in viaggio di nozze. C’era la famiglia di Ponzano Veneto: Paolo Durante, la moglie Bruna Guernieri e le due figlie, Sofia di 6 anni ed Emma di 8; poi Annalisa Montanari di 42 anni e Rita Calanni, di 46, di Bologna. Con loro anche un turista svizzero, Alexander Niermann, e tre cittadini venezuelani: Karina Ruiz, Yza Rodriguez Fernandez e Patricia Estela Alcala Kirschner. Il mayday venne lanciato alle 9.38, quando il bimotore era a circa 30 chilometri da Los Roques, livellato a 3.000 piedi e già in fase d’atterraggio. Il mare, finora, ha restituito solo il corpo del copilota, Osmel Alfredo Avila Otamende, e nient’altro. Alcuni pescatori lo recuperarono dieci giorni dopo la sciagura, a una decina di miglia al largo delle coste della penisola del Paraguay, in un punto che si trova a oltre 300 chilometri da Caracas. E’ stato identificato attraverso le impronte dentarie e un orologio.
LA TRATTATIVA. La ricostruzione ufficiale, fornita dai venezuelani, dirà che l’aereo aveva entrambi i motori in avaria, forse per un problema con il carburante, e che il comandante, prima di tentare l’ammaraggio, fece appena in tempo ad avvisare la torre. Poi il silenzio assoluto, nessun’altra comunicazione radio. Mezz’ora dopo un altro bimotore, gemello di quello scomparso, sorvolò la zona riportando alla torre di Gran Roque la posizione di una vasta macchia d’olio e carburante in corrispondenza delle coordinate dell’ultimo contatto radio lanciato dal volo YV-2081. Il 5 gennaio, 24 ore dopo la scomparsa del volo Transaven, nessuno sa dire cosa sia accaduto, né le autorità locali né i familiari dei 14 dispersi. C’è solo un’ipotesi, la stessa che tiene banco ancora oggi: l’aereo potrebbe aver ammarato ma a causa dell’impatto con l’acqua, e dei danni causati alle strutture, nessuno degli occupanti sarebbe riuscito ad abbandonare l’aeromobile. A quattro anni dalla tragedia di Los Roques, dopo una lunga ed estenuante trattativa tra il governo italiano e quello venezuelano, si riaccende, perciò, la speranza dei familiari dei passeggeri che le ricerche, tanto attese finora, possano finalmente arrivare a individuare la carlinga dell’aereo, e ciò che rimane dei corpi di chi era a bordo. L’operazione, coordinata dalla statunitense “C&C technologies”, costerà 4,6 milioni di dollari, coperti in parti uguali dal governo italiano e da quello venezuelano. A vigilare sulle operazioni di ricerca ci saranno i membri di una speciale commissione, mista Italia-Venezuela, di cui fa parte anche un consulente dei familiari delle vittime, il comandante Mario Pica, ex ufficiale dell’Aeronautica militare esperto in incidenti aerei. A coordinare le operazioni, oltre l’ammiraglio Vitaloni in rappresentanza del governo italiano, ci sarà anche Ugo Marino, il rappresentante della società “Andi Latinoamericana”, associata della “C&C Tecnology” che nel 2010 tentò di avviare le ricerche, impiegando un’altra nave che però rimase bloccata nel Golfo del Messico a causa dell’uragano Earl.
LE RICERCHE. Dal prossimo 20 febbraio sarà la nave Northern Resolution a scandagliare i fondali per diciotto giorni con un sofisticato sonar. Le ricerche si concentreranno a nord di Los Roques, intorno all’ultima posizione del volo registrata dai radar, in un’area di circa 94 miglia quadrate, dove il mare raggiunge una profondità anche di 1500 metri. Sarà anche la stessa commissione a dare il via libera allo sblocco dei fondi, a garanzia che le ricerche verranno condotte seriamente, e non come avvenne nei giorni successivi alla tragedia quando i venezuelani si dimostrarono inadeguati e poco interessati a fare luce sull’incidente che si era appena consumato nei loro mari. Della vicenda del volo Transaven se n’era occupato direttamente anche il presidente venezuelano, Hugo Chavez, che s’impegnò, incontrando l’allora presidente del Senato Fausto Bertinotti, a fare tutto il possibile affinché riprendessero le ricerche. «L’unità navale Northern Resolution, dopo aver fatto sosta a Trinidad per il rifornimento e il controllo delle apparecchiature, si trasferirà a Los Roques», ha confermato nelle scorse settimane all’Ansa Romolo Guernieri, padre di Bruna e nonno di Emma e Sofia, le due bimbe che, con la madre e il padre, sono scomparse assieme all’aereo. «Le operazioni di ricerca dell’aereo verranno condotte con apparecchiature tecnologicamente avanzate e particolarmente adatte ad operare in questo tipo di fondale. Si tratta di piccoli veicoli subacquei con guida autonoma dotati di apparati per la scoperta di oggetti in fondali anche superiori a mille metri. A compiere le ricerche sarà la società Andi Latinoamerica, che in Venezuela rappresenta la C&C Technology».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 23 febbraio 2012 [pdf]

La-Rettondini-sul-Costa-Concordia-per-il-reality-Professional-Lookmaker-638x425Per la Capitaneria non sarebbe stato possibile, con gli strumenti a disposizione, prevedere il naufragio della Costa Concordia». Ne è convinto il comandante generale del Corpo delle capitanerie, l’ammiraglio Marco Brusco. Per il vertice della Guardia Costiera nulla e nessuno, tranne chi era al timone della Concordia, avrebbe potuto evitare quanto è accaduto la sera del 13 gennaio all’Isola del Giglio. Neanche se la Capitaneria di porto di Livorno avesse interrogato l’Ais, il sistema di geolocalizzazione delle navi, prima delle 22.12, cioè ben mezz’ora dopo la collisione tra la nave Costa e lo scoglio de Le Scole. «L’Ais non è un sistema preventivo - ha spiegato Brusco alla Commissione Lavori pubblici del Senato - ma fa parte di una rete di monitoraggio ben più complessa che è collegata al Vts, ma la zona in cui si è verificato l’incidente, non è area Vts. L’Ais - ha aggiunto l’ammiraglio - è come una videocamera davanti a una banca o in autostrada: si va a verificare dopo quello che è successo, se serve».
I PUNTI DA CHIARIRE. Quindi Livorno, pur avendo la facoltà di seguire in diretta la rotta della Concordia, perché a questo serve l’Ais (lo può fare chiunque anche consultando il sito marinetraffic.com), non era a conoscenza degli “inchini”, né, tantomeno, che quella sera la nave della Costa crociere, ai comandi di Francesco Schettino, era finita sugli scogli del Giglio. Se ne accorgono alle 22.06 quando alla sala operativa della Capitaneria arriva una telefonata dei carabinieri di Prato, contattati dai familiari della signora Concetta Robi che dalla Concordia aveva chiamato sua figlia dicendogli che a bordo c’era qualcosa che non andava. Solo sei minuti dopo Livorno interroga l’Ais e individua la nave. «Non sapevamo assolutamente nulla degli “inchini” - ribadisce Brusco -, ma neanche in altre occasione la Capitaneria è stata avvertita, perché è una manovra che rientra nell’ambito della responsabilità del comandante, che nella sua navigazione, purché rispetti le regole e non condizioni la sicurezza di coloro che stanno a bordo, può fare la sua manovra». Certo, Schettino ha le sue responsabilità, quelle che del resto ha già ammesso rispondendo alle domande dei magistrati della procura di Grosseto, ma, “inchini” a parte, perché la Capitaneria di porto di Livorno abbia perso così tanto tempo, prima di individuare una nave lunga 300 metri che stava affondando con a bordo 4.200 passeggeri, resta un mistero. Che l’Ais serva anche a questo è la stessa azienda che l’ha progettato e venduto alle Capitanerie di Porto, la Elman di Pomezia, ad affermarlo dopo la tragedia: «Se fosse stato utilizzato come si doveva, facendo scattare l’allarme con l’avvicinamento all’isola - hanno dichiarato i suoi tecnici a Repubblica e la Stampa - forse l’incidente della Concordia non sarebbe accaduto». Dalla Capitaneria di Livorno affermano che gli operatori in servizio nella sala operativa eseguono controlli al terminale Ais ogni mezz’ora, e così facendo, per esempio, la notte del 18 gennaio scorso hanno notato un cargo battente bandiera della Tanzania fermo, con i motori in avaria, tra l’isola del Giglio e quella di Montecristo. Quel cargo è stato poi soccorso e trainato fino al porto di Piombino. Perciò, almeno in questo caso, interrogando prontamente l’Ais si è scoperto che una nave era nei guai e si è intervenuti nel giro di pochi minuti. La notte del 13 gennaio, se la regola vale sempre, la sala operativa di Livorno annotò sul brogliaccio che alle 22 in punto il «traffico marittimo era regolare». Così non era, perché da almeno un quarto d’ora la Concordia aveva impattato sugli scogli e cambiato rotta di 180 gradi. ...continua a leggere "I buchi neri della Concordia"

«Se qualcuno avesse interrogato il sistema Ais, forse non ci sarebbe stato bisogno di quella telefonata ai carabinieri di Prato, perché a Livorno si accorgessero che la Costa Concordia era già troppo vicina all’Isola del Giglio e addirittura con la prua rivolta verso sud, e non nella direzione del porto di arrivo. Quel sistema serve a dedurre in tempo reale, come avviene per gli aerei, l’esatta posizione delle navi attraverso un transponder installato a bordo». A parlare è un esperto di sicurezza marittima che conosce bene le caratteristiche dell’Ais, acronimo di Automatic Identification System. Si tratta di un sistema internazionale obbligatoriamente installato sulle navi di stazza superiore alle trecento tonnellate, come la Concordia affondata il 13 gennaio di fronte all’Isola del Giglio, e in grado di trasmettere le informazioni necessarie a identificare e localizzare il mezzo navale: il nome dell'unità, il codice Mmsi (Maritime Mobile Service Identification), latitudine e longitudine, velocità e rotta. Per ottenerle, nell’arco di pochi istanti, basta puntare il mouse sul triangolo che rappresenta la nave geolocalizzata su una mappa.
La prova che nessuno - prima di quella telefonata dei carabinieri di Prato, avvisati da un familiare di un passeggero che a bordo della nave c’era qualcosa che non andava - abbia scrutato lo schermo dell’Ais è nella prima pagina del brogliaccio della sala operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Alle 22 in punto, quando la Costa Concordia era già nei guai da circa mezzora, l’operatore Ais scrive: «Traffico marittimo regolare». Sei minuti dopo arriva la chiamata dei carabinieri, e ne dovranno passare altri 6 prima che l’operatore della Capitaneria annoti sul registro: «Da verifica Ais individuiamo la M/N Costa Concordia in prossimità dell’Isola del Giglio in psn 42°22’.11N - 010°55.32E in località Punta Lazzaretto». Perciò solo alle 22.12 Livorno si accorge che la Concordia è fuori rotta, di diverse miglia, inclinata su un fianco e con la prua rivolta verso Civitavecchia e non Savona. L’Ais viene interrogato solo in quel momento, e addirittura dopo aver chiamato il porto di Savona, la telefonata nel brogliaccio è annotata alle 22.10, e aver appreso «che nella giornata odierna non sono partite navi della Costa Crociare». Perché? Ais serve a evitare tragedie come queste, e nei suoi ricordi - pubblici accedendo al sito marinetraffic.com - è possibile rintracciare la prova che la Concordia aveva già effettuato ben 52 “inchini”, troppo vicini alla costa come nel caso dell’Isola del Giglio. Nessuno li ha denunciati, perché nessuno, prima della sera maledetta del 13 gennaio, era andato a cercare la prova di queste violazioni sui tracciati satellitari. ...continua a leggere "Doppio giallo per un MayDay"

JFK AssassinationLa storia di questo libro è già di per sé un mistero. Fu pubblicato in Italia nel 1968, da una piccola casa editrice torinese specializzata in testi scolastici, la Albra edizioni, che pochi mesi più tardi scomparve nel nulla. Un misterioso committente avvicinò il traduttore Luca Bernardelli, gli consegnò il manoscritto in inglese e lo pagò in contanti, pregandolo di fare in fretta. Il libro finì sugli scaffali a novembre dello stesso anno, con il titolo “L’America brucia”, poi, anch’esso, scomparve nel nulla. Oggi, a distanza di 44 anni, il saggio-inchiesta torna in libreria grazie a Nutrimenti, con il titolo “Il Complotto. La controinchiesta segreta dei Kennedy sull’omicidio di JFK” (pp. 272 euro 14,50), e alla giornalista Stefania Limiti che ne ha curato la nuova edizione. In quelle pagine c’era la controinchiesta promossa dalla famiglia Kennedy sull’assassino del presidente John Fitzgerald Kennedy, avvenuto a Dallas il 22 novembre 1963. L’autore era James Hepburn, uno pseudonimo scelto dai Kennedy per mandare in stampa il loro dossier confezionato con l’aiuto dei Servizi segreti francesi e russi. L’assassinio di JFK ha avuto fin dagli anni Sessanta una troppo facile verità ufficiale, quella stabilita dalla commissione Warren, che identificò in Lee Harvey Oswald colui che sparò al presidente Kennedy, imbracciando un fucile di precisione Mannlicher-Carcano di produzione italiana. Ma la dinamica dell’attentato di Dallas, in particolare il numero di colpi sparati verso il corteo presidenziale e la loro traiettoria, le innumerevoli lacune nelle indagini, i poteri coinvolti, spinsero i Kennedy a cercare un’altra verità. Per questo vollero una loro controinchiesta che, incredibilmente, fu sostenuta sia dal generale De Gaulle, sia dai servizi segreti sovietici: ne nacque un dossier in forma di libro, intitolato “The Plot”, da cui emergeva, con nomi e cognomi, il quadro di una cospirazione ai danni del presidente americano. In Italia la Albra, dopo averlo tradotto, ne mandò in stampa solo poche copie, e in breve tempo si persero le tracce del saggio. Si arrivò a ipotizzare che la misteriosa pubblicazione fosse stata sollecitata addirittura dall’avvocato Gianni Agnelli e che l’uscita del libro fosse anche la causa del fallimento del piccolo editore torinese che, fino ad allora, si era occupato solo di libri scolastici. Questa edizione, a cura di Stefania Limiti, ripropone l’inchiesta segreta dei Kennedy con una dettagliata introduzione e un’intervista inedita a uno dei protagonisti della vicenda, William Turner, l’ex investigatore del Federal bureau of investigation, che lavorò con il procuratore distrettuale di New Orleans, Jim Garrison, passato alla storia per aver incriminato l’uomo d’affari e agente della Cia, Clay Shaw, con l’accusa di aver cospirato contro Kennedy. Nella postfazione del libro il giornalista dell’Ansa Paolo Cucchiarelli mette a confronto l’attentato di Dallas con una tragedia italiana: la strage di piazza Fontana.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 2 febbraio 2012 [pdf]