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Che Gheddafi sappia la verità sull’affaire Ustica è un dato incontrovertibile, non fosse altro perché quella notte nei cieli del basso Tirreno – lo ha ripetuto lui stesso decine di volte – il vero obiettivo (degli americani e dei francesi), era proprio lui e non il Dc9 dell’Itavia. E trentuno anni dopo quella tragedia, mentre il regime del Muammar si sgretola su se stesso, riemergono inquietanti particolari sui rapporti tra Italia e Libia, sulla vicenda di quel Mig caduto sulla Sila, forse lo stesso giorno in cui fu abbattuto il Dc9, e sull’atteggiamento, assai sospetto, del Governo italiano, del Sismi e degli allora vertici della Fiat. Cosa c’entra la più grande azienda automobilistica italiana, con Ustica e con Gheddafi, lo spiega oggi Cesare Romiti, l’uomo che guidò i vertici del Lingotto dal ‘74 al ’98. «Gianni Agnelli informò George Bush senior, che allora era alla guida della Cia: ne ricevette una serie di raccomandazioni e il via libera. Poi, insieme, andammo da Carlo Azeglio Ciampi, e ricevemmo la benedizione anche del Governatore della Banca d'Italia». Queste le sue parole, in un'intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso 23 febbraio, con cui racconta le «trattative lunghissime, durate quasi due anni» per l'ingresso della Libia nell'azionariato Fiat. Nei dieci anni della Libia in Fiat, con circa il 10 per cento, dice Romiti, non ci fu «mai un'interferenza, mai una richiesta. Si sono sempre comportati come banchieri svizzeri», gli accordi del resto erano chiari: «Non sarebbero mai entrati nella gestione, non avrebbero mai avuto notizie sensibili». Ma Romiti ricorda al Corriere anche un’altra cosa, che non può passare inosservata: narra di una telefonata ricevuta da Regeb Misellati, uno dei due consiglieri in Fiat della Libyan Arab Foreign Investment Company (Lafico), l'organizzazione pubblica libica, controllato al 100 per centro dal Tesoro, che si occupava degli investimenti internazionali e di gestire i proventi petroliferi. In quella telefonata Misellati, ex impiegato della filiale di Tripoli della Barclays Bank, poi diventato uno dei finanzieri di punta di Gheddafi, chiese a Romiti «una mano per recuperare i resti dell'aereo». Il presidente della Fiat, oltre che con Misellati, parlerà della tragedia del volo Itavia anche con un altro consigliere di Lafico, Abdullah Saudi: «Li avevo sentiti, naturalmente, subito dopo l'incidente di Ustica. Incidente, poi... Temevamo tutti - afferma ancora Romiti - fosse stato un missile. Uno sconfinamento, una battaglia segreta nei cieli, l'arma che parte e colpisce l'aereo civile. Ne parlammo. Mi rassicurarono. So che qualche settimana più tardi si scoprì il "caccia" libico caduto in Calabria. Misellati mi richiamò». ...continua a leggere "La Fiat di Cesare Romiti e il mistero del Mig libico"

«Innanzitutto un buongiorno, che sia un buongiorno per tutti. Mi chiamo Gaspare Spatuzza e intendo rispondere alle vostre domande». Così “u tignusu” (il pelato), il pentito anti-premier, al secolo Gaspare Spatuzza, già stretto collaboratore dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e uomo di fiducia del boss corleonese Leoluca Bagarella, si è presentato lo scorso 3 febbraio nell’aula bunker di Firenze dove si sta celebrando il processo per la stragi del ‘93 (Via dei Georgofili a Firenze, 27 maggio; Via Palestro a Milano, 27 luglio; San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma, 28 luglio).
Spatuzza per la Procura di Firenze - che lo ha chiamato come teste al processo che vede imputato l’uomo d’onore Francesco Tagliavia in qualità di «coautore» della strage che distrusse l’Accademia dei Georgofili e uccise 5 persone ferendone altre 48 - è il testimone chiave. Oggi studia teologia e invoca il perdono, è in carcere dal ’97 per 6 stragi e 40 omicidi, si è autoaccusato di aver rubato la Fiat 126 che il 19 luglio 1992 venne impiegata per far saltare in aria Paolo Borsellino e la sua scorta, di aver partecipato all’omicidio di don Pino Puglisi e di aver rapito il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, sciolto nell’acido dopo oltre due anni di prigionia.
Spatuzza, già condannato anche per gli stessi attentati del ‘93, si è presentato in aula completamente vestito di nero, scortato da sette uomini del Gom in “mefisto”, e ha parlato, nascosto da un paravento, per sette ore. Chiede perdono a Firenze e lo aveva già fatto con una lunga lettera inviata nel giugno 2010 all’Associazione dei familiari delle cinque vittime dell’attentato di via dei Georgofili. E “u tignusu” la sua versione la racconta a partire da quei giorni, quelli che precedettero la strage: «Nel maggio 1993 sono arrivato a Firenze da terrorista. Il nostro obiettivo era di colpirla nel cuore e ci siamo riusciti - ha detto il pentito rispondendo alle domande dei pm Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi - oggi dopo 17 anni vengo come collaboratore di giustizia, pentito, e chiedo perdono. Un perdono che può non essere accettato, può essere strumentalizzato, ma dovevo farlo».
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Silvio Berlusconi ha tutti contro. A partire dal Vaticano, i cui house organ cominciano a storcere il naso per le serate nelle sue residenze, alla magistratura, in particolare quella milanese, con il procuratore aggiunto Ilda Boccassini in testa che lo ha spinto in un angolo - con il caso Ruby -, costringendolo a difendersi dalle imbarazzanti accuse di concussione e prostituzione minorile. E su quelle serate ad Arcore, in compagnia di Emilio Fede, Lele Mora e di una dozzina di giovani donne, le fonti di prova, quelle che per la procura di Milano compongono l’ossatura di un’inchiesta a prova di qualunque difesa, sono 23 e in gran parte raccolte attraverso indagini tecniche: intercettazioni, geolocalizzazione dei “bersagli” e correlazione dei contatti. Una mole impressionante di dati che raccontano, un sms e una telefonata dopo l’altra, quanto avvenne a partire dalla sera del 27 maggio 2010, quando un equipaggio del reparto Volanti della questura di Milano identificò l’allora 17enne, Karima El Mahorug, in arte Ruby Rubacuori. E la prima balla, la più grave, se non altro per l’immagine del premier, viene frettolosamente costruita e raccontata lo stesso giorno, qualche ora dopo, quando Berlusconi si troverà nell’imbarazzante condizione di sollevare il telefono per convincere un funzionario di polizia che quella marocchina fermata  è la nipote del premier egiziano Hosni Mubarak. Non è vero, Ruby è una ragazza che Berlusconi conosce bene (tra i due, documentano le indagini, in 77 giorni ci sono 67 contatti telefonici) e che con Mubarak non ha alcun legame di parentela. In questura - su due piedi - la bevono tutta, del resto Palazzo Chigi li ha inondati di telefonate. ...continua a leggere "Soldi e successo, è l’Italia del bunga bunga"

«Perché sono stato condannato? Perché ci deve essere una seconda vittima? Tutto questo è ingiusto». Raniero Busco, 46 anni, ha pronunciato queste parole prima di crollare sulle sue gambe, il 26 gennaio scorso, dopo che il presidente della terza Corte d’Assise di Roma, Evelina Canale, aveva letto il dispositivo della sentenza di primo grado con cui lo ha condannato a 24 anni. Venti anni dopo la giustizia - anche se è pur vero che si è innocenti fino a sentenza definitiva - ha trovato l’assassino che il 7 agosto 1990, in quell’appartamento di via Poma a Roma, accoltellò per 29 volte la giovane Simonetta Cesaroni. Per i giudici quel mostro è lui: il suo ex fidanzato, quel giovane biondino di 26 anni che l’amava perdutamente, “uno di casa”, l’ultimo degli indagati dopo diciassette anni di indagini che avevano detto tutto e il contrario di tutto. Raniero non se l'aspettava proprio. Nel corso del processo, durato appena un anno, si era sempre professato innocente e alla fine credeva che anche chi lo stava giudicando, sulla base di prove che per la sua difesa erano poco credibili, si sarebbe convinto della sua innocenza. Le sue gambe non hanno retto e alla fine, mentre in un’aula gremita di gente c’era chi piangeva per lui (gli amici) e chi accoglieva il verdetto con soddisfazione (i familiari della vittima), suo fratello e sua moglie Roberta lo hanno portato via di peso. «Questa sentenza - ha affermato a caldo la sorella di Simonetta, Paola - è la conferma della fiducia che non abbiamo mai perso nella giustizia, nelle istituzioni e nell'impegno dei pm in venti anni di lavoro. Siamo stati premiati perché abbiamo sempre creduto nel lavoro degli inquirenti in qualsiasi direzione andasse. Anche se - ammette Paola Cesaroni - il nostro dolore rimane e non sarà mai cancellato». ...continua a leggere "Via Poma, vent’anni dopo"