«Sono uno scapestrato? Sono solo un po’ sfigato e sono il figlio di un politico mafioso, non il solo però. Mi sento responsabile, ma sappiate che quella trattativa è costata la vita al giudice Borsellino e portava in alto, molto in alto. Talmente tanto che ancora oggi potrebbe avere un effetto dirompente». Lo sfogo di Massimo Ciancimino, il controverso figlio di Don Vito, sindaco mafioso del “sacco” di Palermo, uomo chiave dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia, arriva via Facebook, nel cuore della notte, dopo aver letto un articolo de Il Punto di qualche settimana fa (Palermo Top Secret, ndr) e mentre le trascrizioni delle ansiose telefonate di Nicola Mancino al consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, fanno il giro del mondo. Ciancimino junior lo immaginiamo con un iPad tra le mani, chiuso nella sua casa, nel cuore elegante di Palermo, impegnato a leggere il malloppo di atti giudiziari allegato all’avviso di conclusione delle indagini con cui la Procura del capoluogo siciliano si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per una dozzina di indagati eccellenti. Tra loro c’è anche lui che in quell’aggettivo, «scapestrato» appunto, come lo avevamo definito sulle pagine del nostro settimanale, proprio non riesce a riconoscersi. Carte scottanti, che, secondo i magistrati di Palermo, Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, raccontano come lo Stato, negli anni del tritolo, provò a scendere a patti con la mafia stragista, attraverso la mediazione sotterranea di politici e di alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri. Carte che contengono tutto quello che Ciancimino aveva cominciato a ricostruire con gli inquirenti quattro anni fa, ridando voce, un po’ alla volta, alle parole di suo padre. E che, nell’ambito della stessa inchiesta palermitana, gli sono costati due capi di imputazione: associazione a delinquere di stampo mafioso e calunnia.
LA «MIA» TRATTATIVA
«Sempre lì a mettere in dubbio la mia buona fede, sfido chiunque a essere intercettato per sette anni consecutivi», dice Ciancimino nel corso dell’estenuante e sofferto dialogo con Il Punto. «Non ho molti scheletri nella mia vita, gli ultimi anni sono tutti raccolti nei fascicoli di varie procure. E cosa è emerso di così sconvolgente sul conto di un personaggio con una personalità spesso descritta come criminale, a volte nelle vesti di manovratore e in altre di depistatore? Nessun reato, tolto il fatto di aver provato a cambiare due titoli (assegni, ndr) da chi lo faceva di mestiere (secondo l’accusa un esponente del clan calabrese dei Piromalli, ndr). Sono sfigato, quello sì. Ero intercettato per altri motivi, non lo sapevo, ma nessun reato mi è stato contestato per questa vicenda. Ho chiesto pure di essere ascoltato, non ne hanno sentito il bisogno, non ho mai avuto rapporti con nessun esponente della ‘ndrangheta e sfido chiunque a dimostrare il contrario. Ma quell’intercettazione ha avuto l’effetto dirompente che in tanti auspicavano. Sbattere il mostro in prima pagina». Ciancimino è un fiume in piena: nelle conclusioni dei pm di Palermo, il figlio di Don Vito non può non leggere il riscatto della sua credibilità. Nonostante altre due procure, Caltanissetta e Firenze, alla trattativa Stato-mafia abbiano dato un’impostazione diversa: fu Cosa nostra, con la stagione delle stragi, ad imporre alle istituzioni, vittime dell’intimidazione mafiosa, la logica del negoziato. Mentre, secondo Palermo, la trattativa va invece ricondotta all’iniziativa di alcuni politici e uomini di Stato che, consapevolmente, miravano a fermare le stragi e a salvarsi la vita.
BORSELLINO E IL CASO LIMA
«Avete presente il vecchio detto, quando hai un nemico siediti in riva al fiume e prima o poi vedrai passare il suo cadavere? E’ quello che sta accadendo. Solo che da vent’anni vedo passare sempre e solo i cadaveri del giudice Paolo Borsellino e di tutti gli innocenti che sono morti dopo l’inizio di quella scellerata trattativa. Trattativa di cui in parte, anche se involontariamente, mi sento responsabile. Nessun altro è responsabile? Nessun mandante esterno? Nulla. Solo mezze frasi, qualche ammissione su lontani ricordi e risvegli tardivi. Parlano dopo vent’anni. Perché tanti silenzi? Perché l’omertà ha accompagnato da sempre questa inchiesta? Invece oggi sui quotidiani sono tutti intenti a scandire le parole intercettate del senatore Mancino», continua Ciancimino jr. «Beh io sono uno dei responsabili di quella trattativa, esattamente uno dei promotori, ma non ho mai capito il perché di tanti silenzi. Adesso ho le idee abbastanza chiare, su come mai, per 16 anni (dalle stragi del 1992 alle sue deposizioni del 2008, ndr), nessuno sentì il dovere morale e istituzionale di chiamarmi. Eppure ricorderete bene come Riina, dalla sua gabbia a Firenze durante uno dei suoi pochi sfoghi, gridò il nome di Mancino. Cosa disse? “Chiedete a Mancino e al figlio di Ciancimino, quello confidente dei carabinieri…”. E proprio per questo tutti in questi anni hanno taciuto, erano tutti consapevoli che quella trattativa portava in alto, molto in alto. Tanto in alto che nessuno sapeva realmente dove il marcio potesse arrivare, ma tutti erano coscienti di poter scatenare un effetto domino, ancora oggi dirompente. Io questo l’ho sempre saputo. Lo sapevo quando ho deciso di rilasciare la prima intervista a Gianluigi Nuzzi. Lo sapevo quando per la prima volta mi chiamarono a Caltanissetta, nel febbraio del 2008, quando ancora nessun pentito, nessun convertito alla fede, nessun illuminato, parlava di quei 57 giorni (quelli trascorsi tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, ndr) di scellerata trattativa che lentamente uccisero Paolo Borsellino». Come prima di lui Falcone, ma per motivi diversi? «Sissignore, l’hanno ucciso perché era considerato un ostacolo alla trattativa e perché la sua morte, e il modo dirompente della sua esecuzione, faceva capire alle istituzioni che questa volta non era in gioco solo una vendetta o i semplici interessi mafiosi. Qualsiasi mafioso, anche il più scemo, avrebbe intuito che per la mafia ammazzare Borsellino, dopo così poco tempo (da Capaci, ndr), sarebbe stato un danno che avrebbe generato leggi e decreti repressivi. Mio padre me lo disse: il gioco questa volta è a grandi livelli, solo quel deficiente di Riina poteva pensare di esserne il principale protagonista. Era uno strumento, come lo è stato mio padre. Altri hanno continuato il lavoro, altri ancora lo continueranno a tenere in piedi ». Poi c’è un’altra vicenda. Quella del delitto Lima: pochi giorni dopo l’assassinio del parlamentare Dc (avvenuto il 12 marzo 1992, ndr), Giulio Andreotti incontra a Roma la figlia Susanna e le chiede: «Secondo te c’entra Vito Ciancimino?». Lo ha riferito lei stessa, dopo un silenzio durato vent’anni, ai pm di Palermo. Il Punto ha provato a contattarla, il marito ci ha spiegato che non intende rilasciare dichiarazioni oltre a quanto già detto ai pm, ma tuttavia ha chiarito: «Come mai dopo tutto questo tempo? Nessuno prima le aveva chiesto nulla». E alla domanda che secondo Susanna Lima, Andreotti le avrebbe posto, Massimo Ciancimino risponde così: «Cosa c’entra mio padre con l’omicidio di Salvo Lima? Io quel giorno c’ero, ricordo tutto, vidi negli occhi di mio padre la paura, il terrore e il dolore per quanto era accaduto. Ma ricordo anche un’altra cosa: le sue parole. Mi disse: “Ho visto Salvo di recente e non era preoccupato…”. Il resto lo lascio valutare alla magistratura, certo vorrei sapere perché parlano solo ora, vent’anni dopo».
MANCINO CHIAMA IL COLLE
E mentre l’inchiesta di Palermo è arrivata al capolinea, il giallo dei ripetuti contatti tra l’ex presidente del Senato, Nicola Mancino (indagato nell’ambito dell’inchiesta di Palermo sulla trattativa per falsa testimonianza, ndr), e il consigliere giuridico del Presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, continua ad alimentare accese polemiche. Nulla di penalmente rilevante, come anche la stessa Procura di Palermo ha ribadito, ma certamente uno scenario significativo, quello emerso dalle intercettazioni sull’utenza dello stesso Mancino. Che teme il confronto disposto dai pm con l’ex Guardasigilli, Claudio Martelli («Non vorrei che dal confronto viene fuori che io ho fatto una dichiarazione fasulla e quello ha detto la verità, perché a questo punto chi processano? Non lo so», dice a D’Ambrosio). Il confronto si terrà regolarmente. Mancino lamenta anche assenza di coordinamento tra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, doglianze che, il 4 aprile 2012, il segretario generale della Presidenza della Repubblica, gira con una lettera al Procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito nella fase di passaggio delle consegne con Gianfranco Ciani. L’iniziativa del Quirinale ha un seguito: il 19 aprile si tiene in Cassazione una riunione cui partecipano, tra gli altri, lo stesso Pg Ciani e il Pna Piero Grasso. E’ proprio Grasso, dopo aver evidenziato «la diversità dei vari filoni d’indagine» tra Caltanissetta, Firenze e Palermo e «la loro complessità», a far mettere a verbale «di non avere registrato violazioni del protocollo del 28 aprile 2011 tali da poter fondare un intervento di avocazione». Sia il procuratore capo di Palermo, Messineo, che l’aggiunto Ingroia escludono qualunque forma di interferenza. Ma nulla tolgono alle manovre (rimaste prive di effetti) innescate dalle pressioni sul Colle di Mancino (contattato da Il Punto, il suo portavoce ha chiarito che, in questa fase, l’ex ministro non intende rilasciare dichiarazioni alla stampa, ndr). «Cosa viene fuori quando intercetti, seppur per un breve periodo, un ex vicepresidente del Csm, un ex presidente del Senato, un ex ministro dell’Interno e altre cariche più o meno rappresentative? Tentativi di influenzare inchieste in corso, contatti con le più alte cariche dello Stato, accordi basati sul silenzio delle istituzioni e ricatti. Sembra un film», commenta Massimo Ciancimino. «Un film che nessuno spettatore lucido, e con un minimo di senso civico, avrebbe mai voluto vedere. Qual è la tristezza? Io questo film l’ho visto per anni, sempre lo stesso, a volte cambiava il regista o lo sceneggiatore, ma era sempre il solito triste copione – aggiunge –. Un film che paghi dopo tanti anni per averlo visto. Un film che non puoi raccontare, perché nessuno ti crederebbe. Spettatore privilegiato? No, semplicemente il figlio di un mafioso. Di un politico mafioso».
di Fabrizio Colarieti per Il Punto, 5 luglio 2012 [pdf]
Sarebbe il caso di far sapere a Massimetto che forse ormai non gli crede neanche Travaglio, che pure si è spesso davvero tanto per lui.
Interesante il ragazzotto, nessuno lo crede più e chi gli resta da citare? Totò Riina, un personaggino affidabile, l'avesse appena definito un imbecille. Ripassa più spesso, Massimetto.