Vai al contenuto

2

Accordi, trattative, tavoli di accomodamento e “barbe finte” che si muovono nell’ombra. Dentro ogni mistero, giù a Palermo, ce n’è nascosto un altro e poi un altro ancora. Sono come le scatole cinesi. C’è la trattativa tra lo Stato e la Mafia, e quel signor Franco, che gioca su più tavoli e che Massimo Ciancimino, il figlio scapestrato di Don Vito, ha tirato in ballo, ma che nessuno ha finora identificato. E quindi, chissà se esiste davvero. C’è l’arresto del Capo dei capi, Totò Riina, e la mancata perquisizione della sua villa in via Bernini, un altro rompicapo infinito. E poi la mancata cattura da parte del Ros di Binnu Provenzano, nelle campagne di Mezzojuso nel ’95, e il suo arresto, compiuto undici anni dopo dalla polizia. E, ancora, la storia di «Svetonio», la fonte che porta l’Aisi a un passo dalla cattura di Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande latitante, il nuovo capo della Cupola siciliana, imprendibile da diciannove anni.
LA RESA DI BINNU
In Sicilia nulla è come appare, le storie di mafia non hanno mai un the end, neanche dopo i processi e le sentenze. Mancano sempre dei pezzi e nell’ombra si muovono sempre i soliti faccendieri, messaggeri, informatori ed emissari. L’ultima vicenda, che chiama in causa lo Stato e Cosa nostra, e chi nel mezzo trattava con entrambi, riguarda proprio Bernardo Provenzano. Non è una trattativa, non ci sono né pizzini né papelli, ma condizioni  - anzi “tavoli di accomodamento” - e tanti danari. E anche qui c’è uno strano personaggio che si muove nell’ombra, a libro paga della guardia di finanza e del Servizio segreto militare. Si spaccia per commercialista esperto in flussi finanziari, parla romano stretto ai microfoni di «Servizio pubblico», e racconta di quando Provenzano, tramite un altro misterioso contatto, provò a mediare la sua resa. Il tutto si consumò tra il 2003 e il 2005. Una vera e propria trattativa con un emissario che detta le regole e le condizioni di resa. ...continua a leggere "Palermo top secret"

Gianluigi NuzziL’hanno ribattezzata Vatileaks, è la nuova bufera di segreti e veleni che parte dalle pagine di un libro, appena finito sugli scaffali, e che si sta già abbattendo come un uragano sulla Santa Sede. L’autore di questo saggio - che farà molto discutere - è il giornalista di Libero, Gianluigi Nuzzi, che torna in libreria con Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI (Chiarelettere, 326 pagine 16 euro) a tre anni, e sedici edizioni, dal fortunato Vaticano S.p.a. E qualcosa così non era mai accaduto, anzi a dire il vero solo la penna di Antonio Socci, qualche mese fa, aveva immaginato una storia simile, però tra le pagine di un romanzo. Perché nessuno, prima di Nuzzi, era riuscito ad accedere nelle stanze di un Papa in carica, a leggere e fotocopiare le sue carte più riservate e raccontarne il loro contenuto in un libro. Centinaia di documenti, usciti dalle mura leonine con una discovery che assomiglia tanto a quelle sull’amministrazione statunitense che hanno reso famoso, e temibile, Julian Assange e la sua organizzazione Wikileaks. Carte che svelano la quotidiana precarietà della Chiesa, tra affari, assai poco trasparenti, segreti inconfessabili, congiure di palazzo e guerre clandestine. Gianluigi Nuzzi, dopo il saggio sullo scandalo dello Ior, questa volta racconta i personaggi e i travagli che dividono la Chiesa nei giorni nostri e che coinvolgono e condizionano anche l’Italia e la sua politica. Dietro il meticoloso lavoro di Nuzzi c’è una fonte anonima e segreta, di cui si conosce solo lo pseudonimo, “Maria”. Una gola profonda alla quale la Santa Sede ha già dichiarato guerra, giudicando il libro come un «atto criminoso» e annunciando azioni legali, perché probabilmente dentro quelle carte ci sono verità e segreti che imbarazzano molto il Vaticano. Il presunto “corvo” sarebbe un aiutante di camera della famiglia pontificia, in sostanza il maggiordomo del Papa, identificato e fermato dalla gendarmeria il 25 maggio, su ordine del promotore di giustizia vaticano, Nicola Picardi. Per esempio ci sono le lettere di Dino Boffo, l’ex direttore del quotidiano della Cei Avvenire, bruciato da veline di palazzo perché ostile al governo Berlusconi. Missive talmente riservate da suscitare la sorpresa del diretto interessato, nel momento in cui Nuzzi lo informa di essere entrato in possesso della corrispondenza intercorsa tra lui, il Papa e il cardinale Angelo Bagnasco. «Non le ho fatte leggere a nessuno, come fai ad averle?», la risposta dell’ex direttore di Avvenire, che, tuttavia, bolla il lavoro di Nuzzi come «selvaggio» e «lesivo dell’immagine dell’Italia». In una di quelle missive, e il destinatario è direttamente il Santo Padre, c’è un retroscena che Boffo definisce fondamentale, e cioè che a trasmettere a Vittorio Feltri il documento falso sul suo conto «è stato il direttore de L’Osservatore Romano, prof. Gian Maria Vian». Poi ci sono le lettere dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex segretario del Governatorato, l’ente che gestisce tutti gli acquisti e gli appalti della Santa Sede, che dopo aver fatto risparmiare milioni di euro al Vaticano, e scoperto gravi irregolarità spulciando nei bilanci, è costretto alle dimissioni. E ancora: le donazioni private al Papa (anche quelle di Bruno Vespa) e le raccomandazioni del Vaticano all’allora sottosegretario Gianni Letta, per far assumere un giornalista all’agenzia Ansa. Ma nelle carte finite dentro Sua Santità c’è anche il problema dell’Ici e una lettera, datata settembre 2011, con cui il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, trasmette al cardinale Tarcisio Bertone un rapporto «suggeritomi riservatamente dal ministro del Tesoro Giulio Tremonti». Tra quelle righe ci sono le tre strade percorribili per risolvere il problema della tassa sugli immobili della Chiesa: «abolire le agevolazioni Ici (Tremonti non lo farà mai); difendere la normativa passata limitandosi a fare verifiche sulle reali attività commerciali e calcolare il valore “dell’aiuto di Stato” dato (non è sostenibile); modificare la vecchia norma che viene contestata dalla Ce che si applicava ad attività che avessero “esclusivamente” natura commerciale». Ci sono anche il caso Ruby e Berlusconi «vittima di una magistratura politicizzata», gli incredibili pedinamenti degli 007 vaticani in territorio italiano, le verità sui Legionari di Cristo e lo scandalo pedofilia in una testimonianza mai resa pubblica. E poi, ancora altro, come le intemperanze di molti vescovi in ogni parte del mondo e persino i particolari di un incontro segreto tra Giorgio Napolitano e Benedetto XVI di cui nessuno, finora, era venuto mai a conoscenza. Tra le pagine del libro di Nuzzi c’è anche un passaggio su don Julián Carrón, il leader di Comunione e liberazione, che accusa la diocesi di Milano di simpatie politiche, e anche l’imbarazzo del Vaticano nel dare conto di ciò che evidentemente non può rivelare sul mistero della scomparsa di Emanuela Orlandi. «Per quanto riguarda la menzione del caso Orlandi, dopo aver sentito padre Lombardi e nuovamente mons. Balestrero, si è giunti alla conclusione che non è opportuno un cenno al caso». Scrive monsignor Giampiero Gloder, ghostwriter del Papa in vista dell’Angelus del 18 dicembre 2011. Nuzzi annoda i fili delle storie che insieme si leggono come se fossero capitoli di un thriller, ma nelle prime pagine del suo libro ammette anche di aver percepito, entrando in possesso di quelle scottanti carte, di essersi infilato in una storia più grande di lui. «La volontà di chi ha reso disponibili queste carte, rompendo vincoli di segretezza e quindi rischiando di persona, - si legge nell’introduzione di Sua Santità - è quella di dare fiato e coraggio a tutti coloro che dentro la Chiesa non si riconoscono in un’istituzione tesa soprattutto a gestire beneficenze, affari e potere e si battono perché essa sia più vicina al cuore degli uomini e ritrovi l’abbraccio solidale di tutti i fedeli sparsi nel mondo». 

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 7 giugno 2012 [pdf]

roberto adinolfiAnche le pistole possono rivendicare un’azione. E quella che il 7 maggio ha gambizzato a Genova l’amministratore delegato dell’Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, non è una pistola qualunque. A terra, in via Montello, nel cuore del quartiere Marassi, i carabinieri hanno trovato un bossolo calibro 7,62 dal fondello inciso con caratteri cirillici. Potrebbe essere uscito dalla canna di una semi-automatica di fabbricazione sovietica, una TT-33 Tokarev. Un’arma da guerra, molto affidabile, che in passato ha firmato numerose azioni e che fa pensare a una sola matrice, quella eversiva. E non a caso, chi indaga sull’attentato ad Adinolfi si appresta a contestare l’aggravante della finalità di terrorismo, sempre se si riuscirà a dare un volto ai due individui che hanno portato a termine l’azione con tecniche brigatiste, avvicinando il dirigente in sella a una moto Yamaha XMax, poi abbandonata a poca distanza dal luogo dell’agguato.
L’INCUBO EVERSIONE. In Italia torna così l’incubo della violenza politica, dopo che il piombo aveva smesso di parlare quell’assurdo e incomprensibile linguaggio, retaggio degli Anni ’70. L’ultima vittima della lotta armata, firmata Brigate rosse, fu il giuslavorista Marco Biagi, assassinato dalle Br guidate da Nadia Desdemona Lioce, a Bologna il 19 marzo 2002. Prima di lui, il 20 maggio 1999, la stessa sorte era toccata al consulente del ministero del Lavoro, Massimo D’Antona, freddato dalle stesse Br a Roma, in via Salaria. Sembrava finita. Anche le relazioni semestrali dei Servizi segreti avevano smesso di segnalare, tra le minacce interne, quella vetero-brigatista, lasciando quello spazio agli anarchici della Fai (Federazione anarchica informale), o a quelli insurrezionalisti specializzati in pacchi bomba. Invece no, l’attentato ad Adinolfi ha tutte le caratteristiche di un’azione brigatista, studiata nei minimi particolari, a partire proprio dalla scelta dell’obiettivo, della città, simbolo della lotta politica, e dall’arma impiegata. Mancava solo la rivendicazione. Prima alcuni post di “appoggio”, diffusi su Indymedia, a firma dei Gruppi armati proletari, poi un documento di quattro pagine inviato al Corriere della Sera da un sedicente Nucleo “Olga” della Fai, in onore di Olga Ikonomidou, anarchica greca in carcere dallo scorso anno. Nel documento, ritenuto attendibile dagli inquirenti, Adinolfi viene definito uno dei tanti «stregoni dell’atomo», responsabile, insieme al’ex ministro Claudio Scajola, «del rientro del nucleare in Italia». Secondo gli investigatori dell’antiterrorismo l’assenza di una rivendicazione era un’anomalia, ma anche la sua ritardata diffusione è fisiologica, perché, spiegano, «per poter rivendicare un’azione è necessario assicurarsi che chi l’ha compiuta sia al sicuro».
LE INDAGINI. Il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, parlando dell’attentato ad Adinolfi, ha riferito che si stanno battendo tre piste: quella vetero-brigatista, quella anarcoinsurrezionalista e quella legata agli interessi dell’Ansaldo Nucleare nell’Est europeo. A quella che potrebbe associare l’attentato alla matrice brigatista, ha aggiunto la Cancellieri, possono ascriversi «le modalità con le quali è avvenuto l’agguato, in particolare l’uso di un’arma da fuoco e la preparazione che lo ha preceduto, che sembra dimostrare una certa capacità organizzativa». D’altra parte, ha ricordato il titolare del Viminale, «non sono mancati in passato episodi intimidatori, ascrivibili a soggetti dell’area marxista-leninista, in cui ricorrono elementi di affinità e analogia operativa con questo attentato, come ad esempio il ricorso a pallottole calibro 7.62 Tokarev». Quanto alla pista anarchica la Cancellieri ha ricordato che nel marzo del 2009 fu diffuso sul web «un documento in cui, pur in completa assenza di minacce specifiche, erano stati indicati numerosi manager di diverse società impegnate nel settore dell’energia nucleare, fra i quali anche Roberto Adinolfi». Anche se va aggiunto che gli anarchici, come noto, difficilmente compiono azioni utilizzando armi da fuoco. Per quanto riguarda invece la pista commerciale, il ministro dell’Interno ha riferito che l’Ansaldo ha recentemente sviluppato la propria attività nell’Est europeo, con particolare riferimento alla Romania, all’Ucraina e alla Russia, attraverso la costruzione di nuove centrali nucleari e la gestione dei rifiuti radioattivi, e tutto ciò potrebbe aver prodotto «reazioni di natura violenta indirizzate verso l’amministratore delegato». Peraltro, ha osservato la Cancellieri, «tale eventualità potrebbe trovare riscontro nell’uso della pistola Tokarev, diffusa negli ambienti criminali dell’Est Europa». Gli investigatori del Ros dei carabinieri stanno analizzando il proiettile usato per l’agguato, per capire se l’arma che l’ha esploso era stata già utilizzata in precedenti azioni. Proiettili simili, compatibili con la Tokarev, e un manuale d’uso di questa pistola, vennero sequestrati proprio a Genova. E sempre nel capoluogo ligure, nel giugno del 2009, la Digos, perquisendo l’abitazione di Riccardo Massimo Porcile, poi condannato a Roma per terrorismo, trovò una scheda tecnica di due modelli di pistole Tokarev (la TT30 e la TT33). La perquisizione a Porcile, attualmente detenuto a Catanzaro, fu disposta nell’ambito dell’inchiesta su un gruppo accusato di aver progettato la ricostituzione del “Partito armato” sulla falsariga delle Brigate rosse. Ha parlato di pista anarchica anche il capo della polizia, Antonio Manganelli, confermando che gli investigatori guardano «all’area antagonista armata, dove sfumano i confini tra gruppi marxisti-leninisti e anarco-insurrezionalisti».
L’INTELLIGENCE. Nell’ultima relazione al governo l’intelligence interna fa riferimento a uno scenario di rischio multiforme, «con un’accresciuta capacità d’impatto sulla sicurezza nazionale in correlazione con l’acuirsi della congiuntura di crisi». L’Aisi conferma che tra le minacce ci sono gli sviluppi delle «progettualità antagoniste e i fermenti dell’area eversiva». Secondo gli elementi raccolti dagli 007, «l’aggravarsi della crisi economica e le misure adottate per fronteggiarla sono ritenute dal circuito antagonista una favorevole opportunità per riproporre schemi “movimentisti” tesi a catalizzare e radicalizzare il disagio sociale». La “galassia del dissenso”, secondo i Servizi, e  frammentata e caratterizzata da divergenze che marcano i differenti percorsi ideologici e tattici delle sue varie componenti. Si parla di «residui circuiti di matrice marxista-leninista ispirati all’esperienza brigatista», numericamente esigui, ma comunque convinti che la crisi economica, e l’inasprirsi delle condizioni di vita, siano «condizioni favorevoli per alimentare l’insanabile contrapposizione proletariato/borghesia». Per gli analisti dell’Aisi, quindi, è concreta la possibilità che tali circuiti, anche su input filtrati dalle carceri, «intensifichino gli sforzi nei confronti di “nuove leve” sensibili al richiamo di forme di lotta radicale» e ipotizzano «che nel breve/medio periodo individualità d’ispirazione rivoluzionaria, suggestionate dall’impatto della “rabbia” sociale, tentino di aggregarsi per eseguire e rivendicare attacchi – anche di non elevato spessore – contro simboli e obiettivi del “potere costituito”, allo scopo di mantenere alta la tensione e verificare l’eventuale “risposta” o “chiamata” di altre componenti propense a intraprendere un percorso di lotta armata». Alto anche il rischio – e potrebbe essere il caso della gambizzazione di Adinolfi – di azioni emulative compiute da soggetti che intendono accreditarsi, anche rispolverando vecchie sigle.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 24 maggio 2012 [pdf]

RIETI - «Don Vergari non lo abbiamo visto, ma tornerà qui a dormire, nell’ex convento delle suore del Sacro Cuore». A Turania, piccolo comune dell’area del Turano, sono tutti sulle tracce di monsignor Piero Vergari. Ora che la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati, per concorso nel sequestro della 15enne Emanuela Orlandi, è ufficiale, la sua presenza è diventata ancora più ingombrante. «Non l’ho visto», conferma il sindaco, Antonio Di Maggio. «Va e viene, ma oggi la sua auto in piazza non c’è. Si chiude in casa, frequenta poco la nostra comunità, arriva quasi sempre di sera, da Roma». Dello stesso parere anche alcuni vicini, come il signor Lorenzo, suo dirimpettaio in piazza Umberto I: «Oggi qui non c’è e, che io sappia, non era qui neanche ieri. Forse, potrebbe rientrare in serata, ma non conosciamo i suoi spostamenti, anche perché con noi è molto schivo».
La vicenda. Prima che il nome del prelato, ex rettore della basilica romana di Sant’Apollinare, finisse suoi giornali - per la brutta storia del sequestro della 15enne, cittadina vaticana, Emanuela Orlandi (nel giugno 1983) e per la sepoltura, in una cripta di quella stessa basilica, del boss della Banda della Magliana, Enrico De Pedis - a Turania, don Vergari, era un’istituzione. Amato e stimato da tutti, a partire dalle suore del Sacro Cuore, che fin dal ’94, quando Vergari diventò parroco nell’alto Turano, gli avevano dato in uso l’ex asilo, una ventina di stanze, dove tuttora l’anziano sacerdote abita. Poi anche i rapporti con la comunità di Turania si sono raffreddati, nel 2000 è arrivato un altro parroco e le brutte notizie sul suo conto, e i paesani hanno iniziato a mostrargli molta indifferenza. «Se è vero quello che ha fatto - dice uno di loro a Il Messaggero - non lo vogliamo più vedere qui». ...continua a leggere "Scomparsa di Emanuela Orlandi, Turania s’interroga su don Vergari"