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genova01GNei corridoi del Viminale lo chiamano “effetto Diaz”. E’ la spada di Damocle che incombe sulla polizia di Stato e che, da qui a qualche mese, potrebbe condizionare ogni decisione, comprese nomine e avvicendamenti ai vertici (anche dei servizi segreti). E’ tutto legato agli esiti dell’ultimo processo, quello per la brutta storia dell’irruzione alla scuola Diaz di Genova durante il G8 del 2001, che vede imputati alcuni dirigenti della polizia di primissimo livello. Dovrebbe concludersi a metà giugno, in Cassazione (le udienze sono fissate dal giorno 11 al 15), ma su di esso incombe la prescrizione dei reati (quello di calunnia lo è già, mentre per il falso scatterà a 12 anni e mezzo dal fatto). In Appello, nel maggio 2010, ribaltando la sentenza di primo grado del tribunale di Genova, i giudici avevano condannato i 25 imputati a complessivi 98 anni e tre mesi di reclusione con l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Tra questi spiccavano - e spiccano ancora oggi in attesa del verdetto della corte suprema - i nomi di Francesco Gratteri, ex capo del Servizio centrale operativo (attuale direttore centrale della polizia criminale, assolto in primo grado e condannato a 4 anni), Gilberto Caldarozzi, ex vicecapo dello Sco (attuale capo dello Sco, assolto e poi condannato a 3 anni e 8 mesi), Vincenzo Canterini, ex comandante del primo Reparto mobile di Roma (oggi ufficiale di collegamento dell’Interpol a Bucarest, assolto e condannato a 5 anni) e Giovanni Luperi, ex vicedirettore dell’Ucigos (oggi capo Dipartimento analisi dell’Aisi, assolto e condannato a 4 anni). Erano tutti presenti a Genova la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 e secondo le motivazioni della sentenza d’appello, in base all’articolo 40 del codice penale, avevano l’obbligo di impedire le violenze che si consumarono durante la sanguinosa irruzione nella scuola Diaz (93 arresti e 82 feriti). Il blitz, ordinato dagli allora vertici della polizia, fu definito da uno degli imputati, Michelangelo Fournier, all’epoca vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma (in appello prosciolto per intervenuta prescrizione), «una macelleria messicana». Odissea terminata per altri due imputati eccellenti: l’ex capo della polizia e attuale direttore del Dis, Gianni De Gennaro, e l’allora capo della Digos di Genova, oggi dirigente della Polfer a Torino, Spartaco Mortola, assolti in via definitiva nel novembre scorso, perché il fatto non sussiste. Quest’ultimi erano accusati (sempre per i fatti della Diaz) di aver istigato alla falsa testimonianza l’ex questore del capoluogo ligure, Francesco Colucci. L’impatto del prossimo verdetto della Cassazione potrebbe condizionare, e non di poco, il valzer di nomine riguardanti i vertici di tutti gli uffici centrali della polizia, compreso lo Sco e la poltrona più alta, quella del capo, al momento occupata dal prefetto Antonio Manganelli. I nomi in corsa - come già anticipato da Il Punto - sono diversi. Tra i più quotati ci sono quelli di due prefetti-poliziotti: Giuseppe Caruso, già questore a Roma e Palermo, di cui è stato anche prefetto e attuale direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati alla criminalità organizzata, e Giuseppe Pecoraro, attuale prefetto di Roma la cui candidatura sarebbe fortemente caldeggiata dal Pdl. Ma in corsa per occupare il posto di Manganelli ci sarebbero anche due investigatori di lungo corso: Nicola Cavaliere, oggi vicedirettore operativo dell’Aisi, e l’attuale capo del Dipartimento della protezione civile, già direttore del Sisde e prefetto de L’Aquila dopo il sisma del 6 aprile 2009, Franco Gabrielli. L’“effetto Diaz” potrebbe condizionare anche la carriera dell’attuale direttore dello Sco, Gilberto Caldarozzi, e quella di Francesco Gratteri, attuale direttore centrale del Dipartimento anticrimine. Il governo, sentito il Viminale, tra maggio e giugno potrebbe mettere mano alle nomine, in concomitanza sia con la sentenza della Diaz sia con la scadenza dei mandati dei direttori di Aisi e Aise, Giorgio Piccirillo e Adriano Santini.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 29 marzo 2012 [pdf]

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Quattordici anni lontani, distanti uno dall’altro. Le morti di Aldo Moro e di Paolo Borsellino sembrano essere legate dal tradimento. Di quella parte di Stato che entrambi, con ruoli diversi difendevano. E per il quale hanno, alla fine, dato la vita. Le lettere scritte da Moro durante i 55 giorni della prigionia sono un potente e implacabile atto d’accusa per la politica italiana. Le ultime rivelazioni che giungono da Caltanissetta sugli ultimi giorni di Borsellino rappresentano un colpo micidiale per la credibilità della lotta alla mafia.
C’è un luogo ben preciso e ricco di significati dove lo Stato e l’anti Stato si incontrano. È il Cafè de Paris, da simbolo della Dolce Vita romana negli Anni Sessanta a emblema dell’infiltrazione criminale nella Capitale nei nostri giorni. A pochi giorni di distanza dal 16 marzo 1978, giorno del sequestro di Aldo Moro, Francesco Fonti – oggi meglio conosciuto come il pentito che ha raccontato le vicende delle navi dei veleni - viene convocato dalla sua cosca, Romeo, a San Luca e gli viene detto di andare a Roma. Dalla Dc calabrese erano venute pressanti richieste alle cosche per attivarsi al fine della liberazione di Moro. Pressioni – ricorda Fonti - erano venute anche dalla segreteria nazionale e dal segretario Benigno Zaccagnini, morto a Ravenna il 5 novembre 1989. Fu proprio nel locale di via Veneto, che Fonti incontrò l’esponente democristiano: «E’ un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico – disse il politico - e non avrei mai potuto pensare che oggi potessi essere seduto davanti a lei in qualità di petulante, ma è così». Fonti ricorda come Zaccagnini non facesse nulla per nascondere il proprio “schifo”: «Non sono mai sceso a compromessi - riprese - ma se sono venuto ad incontrarla significa che il sistema sta cambiando, faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva, ci dia una mano e la Dc di cui mi faccio garante saprà sdebitarsi». Prima di andarsene, disse: «Non ci siamo mai incontrati se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona lo dica all’agente Pino». Quello che Zaccagnini non sapeva era che Fonti, uomo organico all’organizzazione criminale, da nove anni frequentava con profitto le stanze di Forte Braschi. E che già conosceva l’agente Pino. Moro non venne salvato. Certo non per colpa di Fonti che, anzi, tornato in Calabria, riferì delle ricerche avviate. Ma venne bruscamente stoppato: «La vicenda non interessa più», gli fu detto. ...continua a leggere "Da via Fani a via D’Amelio, il filo rosso che unisce le morti di Moro e Borsellino"

ciampoliE' in magistratura da quarantasette anni, ha lottato contro la mafia e il terrorismo di destra e di sinistra, ora siede nello scranno più alto dalla giustizia laziale, la procura generale presso la Corte d’Appello di Roma. Luigi Ciampoli, per la prima volta da quando indossa la toga, si concede a Il Punto in un’intervista a tutto tondo. Dalla mattanza in corso a Roma, fino ai temi caldi della giustizia, passando per Mani pulite e i rapporti tra magistratura e politica, e tra toghe e giornalisti.
Dottor Ciampoli, partiamo dall’ondata di sangue che ha investito la Capitale, cosa sta accadendo?
«Roma non è differente dalle altre città. Ci sono dei fenomeni criminali che fanno parte dell’essere della società d’oggi. E’ il riscontro di una situazione nuova, certamente non condivisa. Oggi ci meravigliamo di tante situazioni e ci sorprendiamo di come sia stato possibile concepire questa violenza, ma, tutto sommato, se facciamo un confronto con il passato, ci accorgiamo che purtroppo l’uomo è sempre stato così com’è, nel bene e nel male. Non è una situazione che determina un nuovo allarme, è una situazione che va, come sempre, tenuta sotto controllo e che sollecita attenzione. Oggi in molti insistono col dire che sono tornati i tempi della Banda della Magliana. Non occorre rispolverare vecchi fantasmi, spettri o spauracchi. La situazione è, come ho detto, figlia del suo tempo».
Sono cambiati i tempi, lei recentemente ha parlato della crisi come una delle cause scatenanti di tanta violenza.
«Ci scontriamo con una realtà politicosociale diversa, abbiamo una polietnia molto più accentuata rispetto a trent’anni fa. Dobbiamo fare i conti e tenere conto, senza ovviamente voler colpevolizzare o stigmatizzare determinati comportamenti, di culture e di estrazione diverse, che pure servono anche all’Italia, ma certamente non determinano allarme solo perché esistono. Siamo di fronte a una situazione diversa che rispolvera un concetto antico, cioè la necessità di amalgamare la società con la cultura giuridica. Non serve cercare patologie, ma rinnovare l’esistenza di determinati valori sì».
C’è molta attesa per l’arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone, vi siete già consultati?
«Sì, ci siamo sentiti. Ho espresso la mia soddisfazione e gli ho già fatto gli auguri. E’ un collega molto serio, preparato e con una grande esperienza e capacità professionale, e questo credo porti a una visione del futuro degli uffici romani favorevole. C’è molto lavoro da fare e Pignatone, ne sono certo, è la persona giusta».
Parliamo di corruzione. Sono passati vent’anni da Tangentopoli e non è cambiato un granché, anzi...
«Siamo di fronte a uno scadimento di valori. Man mano che si abbassa la soglia della differenza tra lecito e illecito aumenta la corruzione. Le faccio un esempio: offrire del denaro a un pubblico ufficiale per ottenere un favore, è un tentativo di corruzione, anche grave, ma è anche l’indice di un valore che non porta soltanto a individuare il livello di corruttibilità del pubblico ufficiale ma anche a sminuire il valore stesso della partecipazione del corruttore alla democrazia. Anche l’evasione fiscale è una forma di corruzione dei valori democratici. Se accetto di evadere, o di concorrere all’evasione non pretendendo lo scontrino fiscale o la fattura, non faccio altro che sminuire, in funzione di una valutazione di un’utilità peraltro molto limitata, il mio valore di partecipazione alla comunità. Il livello di corruzione aumenta perché è salita la valutazione di ciò che è lecito rispetto all’illecito. L’aumento della corruzione è anche frutto dei tempi, delle esigenze e di come concepiamo la vita moderna. Da mani pulite a oggi è aumentata la sfrontatezza e sono diminuiti senso di onestà e percezione del lecito, il tutto favorito da una economia evidentemente più debole. L’esplosione del fenomeno tangentopoli purtroppo non è stato un deterrente».
Giustizia e riforme. Cosa pensa della separazione delle carriere tra giudici e pm?
«La separazione delle carriere la considero inutile e pericolosa. E’ l’individuo che va corretto, non intaccando un principio costituzionale che è uno dei fulcri fondamentali della democrazia. Il pubblico ministero, che ha il coraggio e il dovere di richiedere l’assoluzione dell’imputato se questi è innocente o se non ha le prove per dimostrare la sua colpevolezza, trova in questa norma morale e giuridica la forza di sentirsi autonomo da altri, libero da condizionamenti. Non certamente da una separazione che rimane sulla carta. Partendo dal principio Costituzionale secondo cui i magistrati sono giudici e pubblici ministeri. Non ritengo infatti che il giudizio nei miei confronti possa cambiare solo se il mio ascensore si ferma al piano dei giudici o a quello dei pubblici ministeri, ma solo se faccio il mio lavoro in tutta serenità e obiettività. Ritengo di essere stato uno dei primi, quale pubblico ministero a proporre ricorso per Cassazione a favore di un imputato, superando così l’idea che il pubblico ministero possa solo ed unicamente sostenere l’accusa e la colpevolezza dell’imputato. Effetto che invece sarebbe fatalmente consequenziale alla separazione delle carriere. La severità non è la prevaricazione di norme. Gli errori ovviamente si fanno in tutte le categorie, esistono medici bravi e altri che purtroppo commettono errori fatali, noi pure dobbiamo tenere alto il valore delle nostre responsabilità in considerazione del fatto che anche dal nostro agire può dipendere la vita di un uomo».
E sulla responsabilità civile dei magistrati?
«Sono d’accordo. Tra l’altro esiste già. E’ una legge che può essere migliorata, sensibilizzando i magistrati a non prestare il fianco a giudizi risarcitori. Può essere migliorata anche per quanto riguarda i poteri d’intervento, che dovrebbero essere più incisivi, da parte dei capi degli uffici pur salvaguardando il rispetto della decisione dei colleghi. Sono d’accordo a migliorare il potere di controllo. Perché dare responsabilità alle persone presuppone soprattutto affidamento».
E’ forse arrivato il momento di rimettere mano anche alla geografia giudiziaria?
«Parlerei di rivisitazione della distribuzione degli uffici. Non ci possono essere uffici giudiziari, come la Procura di Roma, dove un solo collega ha tremila processi assegnati e un altro ufficio che ne ha al massimo trecento in un anno. Le risorse sono scarse, indubbiamente, e questo non è un problema solo delle procure, penso alle forze dell’ordine che devono fare i conti con la benzina che scarseggia. E’ una situazione che va avanti da tempo. Da oltre quindici anni non ci sono concorsi pubblici per assumere personale amministrativo per gli uffici giudiziari. Ed è dimostrato, invece, che lavora più un ufficio con un magistrato e cinque collaboratori, che viceversa ».
E sulla lentezza della giustizia?
«Sul discorso dell’efficienza, un processo è un processo. Che sia celere, quando non deve esserlo, è un non processo, cioè nega la giustizia. Se la velocità è una caratteristica essenziale di espletamento di ogni pratica, è un giusto espletamento, ma il processo deve essere privo d’inutilità, più che breve o veloce. Ad esempio in tema di notifiche, a seconda delle varie fasi processuali, dovremmo intervenire per snellirlo. Nel sistema anglosassone, a cui si fa spesso riferimento, c’è una sola notifica iniziale. L’individuo è portato a conoscenza di determinati fatti e da quel momento è suo interesse informarsi, non servono ulteriori comunicazioni».
E’ necessario porre dei freni anche nei rapporti con gli organi d’informazione?
«Non mi piace affidare la conoscenza dell’andamento delle mie procure agli organi di stampa. Lo dico amaramente, ma purtroppo spesso vengo a conoscenza di tante situazioni o di tanti processi aprendo i quotidiani o ascoltando i telegiornali. I magistrati parlano troppo. In tanti anni di magistratura credo sia la mia prima vera intervista, perché ho sempre preferito parlare con gli atti delle mie requisitorie,ed è il modo migliore con cui un magistrato può rispondere alle notizie di stampa. Il magistrato non dovrebbe apparire, quello che deve interessare all’opinione pubblica è che una determinata indagine si sia conclusa felicemente, punto. Perciò meno spettacolarizzazione. Se le affido una notizia, o faccio in modo che lei abbia una notizia, io mi scontro con il suo diritto-dovere di pubblicarla questa è la democrazia. Il discorso è a monte: sono io che non devo farle avere le notizie. E’ un falso problema, bisogna intervenire normativamente facendo in modo che la riservatezza a monte sia tutelata al massimo. Non serve abolire le intercettazioni per evitare che finiscano sui giornali».
Cosa pensa di molti suoi ex colleghi transitati dalla toga alla politica?
«Sono assolutamente contrario. Il magistrato non può e non deve fare politica. Nel senso che a un magistrato nel momento in cui sceglie di candidarsi, e come tutti i cittadini può farlo, deve essere vietato, riesca o non riesca, il rientro in magistratura. Si eviterebbero molte strumentalizzazioni cui abbiamo già assistito. Chi accetta una candidatura o partecipa a una competizione elettorale deve rinunciare alla toga. Nel nuovo ordinamento giudiziario, tra l’altro, esiste il divieto, sancito disciplinarmente, di appartenere a una forza politica ».
Si sente anche lei un partigiano della Costituzione come Ingroia?
«Sono affermazioni d’effetto, mirano solo a quello. Perché l’essere convinto di determinate cose non comporta la necessità di estrinsecarle e non ne vedo la sostanziale utilità. Le rispondo con una frase del Vangelo: non chi entra in Chiesa e si batte il petto davanti a tutti fa la volontà del Padre, ma solo chi nel suo intimo risponde alla sua volontà. Quindi mi posso sentire benissimo partigiano, ma non occorre che lo dica. Dà la stura a sensazioni che possono essere positive e negative. Capisco invece quello che il collega ha voluto dire, cioè di sentirsi veramente impegnato. La Costituzione non ha partigiani, grazie a Dio. Ha un valore democratico che per sua definizione non può essere di una parte, è universale. Ma sentire intimamente il desiderio di fare giustizia, questa è una cosa bellissima».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 15 marzo 2012 [pdf]

euro falsiNell’ultimo anno un cittadino italiano su 649 si è ritrovato tra le mani almeno una banconota falsa. Nel secondo semestre del 2011, secondo i dati diffusi dalla Banca d’Italia, ne sono state riconosciute e ritirate dalla circolazione oltre 145mila, il 5 per cento in più rispetto al 2010. Il taglio da 20 euro risulta ancora il più “taroccato”: con oltre 120mila pezzi ritirati rappresenta, infatti, il 61 per cento del totale dei falsi individuati (215mila), seguito dal taglio da 100 e da 50. In tutta l’Eurozona, riferisce la Banca centrale europea, nello stesso periodo sono state tolte dalla circolazione 310mila banconote false, oltre 5,5 milioni dalla nascita dell’euro. Tuttavia, sempre secondo la Bce, dal 2005, dopo un primo periodo di crescita “fisiologica” delle falsificazioni, il totale delle banconote contraffatte si è stabilizzato tra i 600 e i 700mila esemplari l’anno, salvo un picco di oltre 800mila banconote ritirate nel 2009. Il 98 per cento delle banconote false e stato ritirato nei Paesi dell’area dell’euro, l’1,5 per cento in altri Paesi dell’Unione e la quota rimanente al di fuori dell’Ue. Se si considera, poi, che il volume medio di banconote in circolazione nel primo semestre del 2011 e  stato pari a 13,8 miliardi di pezzi, il fenomeno della falsificazione dell’euro, a parere degli esperti, può essere considerato tuttora piuttosto contenuto. Non va meglio con le monete in metallo: oltre 45mila quelle false sequestrate nel 2011, di queste oltre 20mila esemplari erano da 1 euro, 12mila da 2, 11mila da 50 centesimi e 686 da 20 centesimi.
TRUCCHI DEL MESTIERE. I falsari preferiscono produrre tagli maggiormente spendibili (20, 50 e 100), molto meno quelli da 200 e 500, perché possono essere facilmente utilizzati in transazioni al dettaglio, talvolta anche tramite distributori automatici di beni o servizi. L’analisi delle tecniche di falsificazione monetaria mostra un deciso orientamento verso il metodo tradizionale della stampa offset (il 93 per cento dei casi), un processo planografico che utilizza matrici piane tipiche della fototipia e della litografia e che, a differenza dei sistemi digitali, richiede attrezzature e tecnologie ampiamente disponibili nelle tipografie. Ed è una tecnica molto utilizzata anche dai falsari made in Italy. Tuttavia una delle falsificazioni più diffuse, grazie anche alla maggiore disponibilità sul mercato di tecnologie di stampa a basso costo, è quella delle banconote da 20 euro prodotte in digitale. Il mercato del falso, secondo uno studio della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale, è dominato da un esiguo numero di “classi”, 7 in tutto, prodotte e distribuite in larga scala. Sulla base delle caratteristiche tecniche, i biglietti “tarocchi” appartengono alle classi “local” e “common”. Le prime, realizzate con tecniche di riproduzione digitale, hanno una produzione presumibilmente limitata e sono verosimilmente destinate a circolare in ambito nazionale. Le seconde, realizzate in offset su vasta scala, sono tendenzialmente diffuse in più Paesi.
LE CONTROMISURE. Le tecniche investigative sul fronte dell’antifalsificazione monetaria, dall’introduzione dell’euro, hanno fatto passi da gigante. Dal 2004 le forze di polizia hanno smantellato in Italia 11 stamperie clandestine, otto delle quali utilizzavano sistemi di stampa offset. Al loro fianco c’è un sistema d’indagine gestito dalla Banca centrale europea molto evoluto, il “Counterfeit Monitoring System”, che aiuta a individuare i falsi archiviando le perizie compiute dagli esperti della Banca d’Italia e dell’Istituto poligrafico e zecca dello Stato. Dalle indagini è emerso che il monopolio delle banconote false in Italia, ma anche nell’Eurozona, è nelle mani del “Napoli group”, così gli investigatori del Comando antifalsificazione monetaria dell’Arma hanno ribattezzato la filiera clandestina che smercia il maggior numero di banconote false. L’84 per cento di quelle in circolazione nel Belpaese (il 62 altrove) sono prodotte e smerciate da loro, e gli introiti derivanti sono ovviamente appannaggio esclusivo della Camorra. A Napoli, al dettaglio, i biglietti “verdi” da 100 euro falsi costano 35 euro, quelli “rossi” da 50, 25 euro, e quelli “celesti” da 20, 12 euro. Nell’elenco delle banconote most wanted ce ne sono due prodotte a Napoli e sequestrate, sempre più spesso, in tutta Italia: quella da 20 euro, serie V25590030352, e quella da 50, serie S20175422632, segnalata dalla Banca d’Italia in 41 città diverse. L’ultima indagine, conclusa la scorsa settimana dai carabinieri del Reparto operativo di Rieti in collaborazione con gli esperti della sezione operativa del Comando antifalsificazione monetaria di Roma, nell’arco di due anni ha portato all’arresto di 11 persone, identificate come manovalanza del “Napoli Group”, e al sequestro di oltre 700 banconote false, in gran parte da 20 euro.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 8 marzo 2012 [pdf]