Vai al contenuto

ciampoliE' in magistratura da quarantasette anni, ha lottato contro la mafia e il terrorismo di destra e di sinistra, ora siede nello scranno più alto dalla giustizia laziale, la procura generale presso la Corte d’Appello di Roma. Luigi Ciampoli, per la prima volta da quando indossa la toga, si concede a Il Punto in un’intervista a tutto tondo. Dalla mattanza in corso a Roma, fino ai temi caldi della giustizia, passando per Mani pulite e i rapporti tra magistratura e politica, e tra toghe e giornalisti.
Dottor Ciampoli, partiamo dall’ondata di sangue che ha investito la Capitale, cosa sta accadendo?
«Roma non è differente dalle altre città. Ci sono dei fenomeni criminali che fanno parte dell’essere della società d’oggi. E’ il riscontro di una situazione nuova, certamente non condivisa. Oggi ci meravigliamo di tante situazioni e ci sorprendiamo di come sia stato possibile concepire questa violenza, ma, tutto sommato, se facciamo un confronto con il passato, ci accorgiamo che purtroppo l’uomo è sempre stato così com’è, nel bene e nel male. Non è una situazione che determina un nuovo allarme, è una situazione che va, come sempre, tenuta sotto controllo e che sollecita attenzione. Oggi in molti insistono col dire che sono tornati i tempi della Banda della Magliana. Non occorre rispolverare vecchi fantasmi, spettri o spauracchi. La situazione è, come ho detto, figlia del suo tempo».
Sono cambiati i tempi, lei recentemente ha parlato della crisi come una delle cause scatenanti di tanta violenza.
«Ci scontriamo con una realtà politicosociale diversa, abbiamo una polietnia molto più accentuata rispetto a trent’anni fa. Dobbiamo fare i conti e tenere conto, senza ovviamente voler colpevolizzare o stigmatizzare determinati comportamenti, di culture e di estrazione diverse, che pure servono anche all’Italia, ma certamente non determinano allarme solo perché esistono. Siamo di fronte a una situazione diversa che rispolvera un concetto antico, cioè la necessità di amalgamare la società con la cultura giuridica. Non serve cercare patologie, ma rinnovare l’esistenza di determinati valori sì».
C’è molta attesa per l’arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone, vi siete già consultati?
«Sì, ci siamo sentiti. Ho espresso la mia soddisfazione e gli ho già fatto gli auguri. E’ un collega molto serio, preparato e con una grande esperienza e capacità professionale, e questo credo porti a una visione del futuro degli uffici romani favorevole. C’è molto lavoro da fare e Pignatone, ne sono certo, è la persona giusta».
Parliamo di corruzione. Sono passati vent’anni da Tangentopoli e non è cambiato un granché, anzi...
«Siamo di fronte a uno scadimento di valori. Man mano che si abbassa la soglia della differenza tra lecito e illecito aumenta la corruzione. Le faccio un esempio: offrire del denaro a un pubblico ufficiale per ottenere un favore, è un tentativo di corruzione, anche grave, ma è anche l’indice di un valore che non porta soltanto a individuare il livello di corruttibilità del pubblico ufficiale ma anche a sminuire il valore stesso della partecipazione del corruttore alla democrazia. Anche l’evasione fiscale è una forma di corruzione dei valori democratici. Se accetto di evadere, o di concorrere all’evasione non pretendendo lo scontrino fiscale o la fattura, non faccio altro che sminuire, in funzione di una valutazione di un’utilità peraltro molto limitata, il mio valore di partecipazione alla comunità. Il livello di corruzione aumenta perché è salita la valutazione di ciò che è lecito rispetto all’illecito. L’aumento della corruzione è anche frutto dei tempi, delle esigenze e di come concepiamo la vita moderna. Da mani pulite a oggi è aumentata la sfrontatezza e sono diminuiti senso di onestà e percezione del lecito, il tutto favorito da una economia evidentemente più debole. L’esplosione del fenomeno tangentopoli purtroppo non è stato un deterrente».
Giustizia e riforme. Cosa pensa della separazione delle carriere tra giudici e pm?
«La separazione delle carriere la considero inutile e pericolosa. E’ l’individuo che va corretto, non intaccando un principio costituzionale che è uno dei fulcri fondamentali della democrazia. Il pubblico ministero, che ha il coraggio e il dovere di richiedere l’assoluzione dell’imputato se questi è innocente o se non ha le prove per dimostrare la sua colpevolezza, trova in questa norma morale e giuridica la forza di sentirsi autonomo da altri, libero da condizionamenti. Non certamente da una separazione che rimane sulla carta. Partendo dal principio Costituzionale secondo cui i magistrati sono giudici e pubblici ministeri. Non ritengo infatti che il giudizio nei miei confronti possa cambiare solo se il mio ascensore si ferma al piano dei giudici o a quello dei pubblici ministeri, ma solo se faccio il mio lavoro in tutta serenità e obiettività. Ritengo di essere stato uno dei primi, quale pubblico ministero a proporre ricorso per Cassazione a favore di un imputato, superando così l’idea che il pubblico ministero possa solo ed unicamente sostenere l’accusa e la colpevolezza dell’imputato. Effetto che invece sarebbe fatalmente consequenziale alla separazione delle carriere. La severità non è la prevaricazione di norme. Gli errori ovviamente si fanno in tutte le categorie, esistono medici bravi e altri che purtroppo commettono errori fatali, noi pure dobbiamo tenere alto il valore delle nostre responsabilità in considerazione del fatto che anche dal nostro agire può dipendere la vita di un uomo».
E sulla responsabilità civile dei magistrati?
«Sono d’accordo. Tra l’altro esiste già. E’ una legge che può essere migliorata, sensibilizzando i magistrati a non prestare il fianco a giudizi risarcitori. Può essere migliorata anche per quanto riguarda i poteri d’intervento, che dovrebbero essere più incisivi, da parte dei capi degli uffici pur salvaguardando il rispetto della decisione dei colleghi. Sono d’accordo a migliorare il potere di controllo. Perché dare responsabilità alle persone presuppone soprattutto affidamento».
E’ forse arrivato il momento di rimettere mano anche alla geografia giudiziaria?
«Parlerei di rivisitazione della distribuzione degli uffici. Non ci possono essere uffici giudiziari, come la Procura di Roma, dove un solo collega ha tremila processi assegnati e un altro ufficio che ne ha al massimo trecento in un anno. Le risorse sono scarse, indubbiamente, e questo non è un problema solo delle procure, penso alle forze dell’ordine che devono fare i conti con la benzina che scarseggia. E’ una situazione che va avanti da tempo. Da oltre quindici anni non ci sono concorsi pubblici per assumere personale amministrativo per gli uffici giudiziari. Ed è dimostrato, invece, che lavora più un ufficio con un magistrato e cinque collaboratori, che viceversa ».
E sulla lentezza della giustizia?
«Sul discorso dell’efficienza, un processo è un processo. Che sia celere, quando non deve esserlo, è un non processo, cioè nega la giustizia. Se la velocità è una caratteristica essenziale di espletamento di ogni pratica, è un giusto espletamento, ma il processo deve essere privo d’inutilità, più che breve o veloce. Ad esempio in tema di notifiche, a seconda delle varie fasi processuali, dovremmo intervenire per snellirlo. Nel sistema anglosassone, a cui si fa spesso riferimento, c’è una sola notifica iniziale. L’individuo è portato a conoscenza di determinati fatti e da quel momento è suo interesse informarsi, non servono ulteriori comunicazioni».
E’ necessario porre dei freni anche nei rapporti con gli organi d’informazione?
«Non mi piace affidare la conoscenza dell’andamento delle mie procure agli organi di stampa. Lo dico amaramente, ma purtroppo spesso vengo a conoscenza di tante situazioni o di tanti processi aprendo i quotidiani o ascoltando i telegiornali. I magistrati parlano troppo. In tanti anni di magistratura credo sia la mia prima vera intervista, perché ho sempre preferito parlare con gli atti delle mie requisitorie,ed è il modo migliore con cui un magistrato può rispondere alle notizie di stampa. Il magistrato non dovrebbe apparire, quello che deve interessare all’opinione pubblica è che una determinata indagine si sia conclusa felicemente, punto. Perciò meno spettacolarizzazione. Se le affido una notizia, o faccio in modo che lei abbia una notizia, io mi scontro con il suo diritto-dovere di pubblicarla questa è la democrazia. Il discorso è a monte: sono io che non devo farle avere le notizie. E’ un falso problema, bisogna intervenire normativamente facendo in modo che la riservatezza a monte sia tutelata al massimo. Non serve abolire le intercettazioni per evitare che finiscano sui giornali».
Cosa pensa di molti suoi ex colleghi transitati dalla toga alla politica?
«Sono assolutamente contrario. Il magistrato non può e non deve fare politica. Nel senso che a un magistrato nel momento in cui sceglie di candidarsi, e come tutti i cittadini può farlo, deve essere vietato, riesca o non riesca, il rientro in magistratura. Si eviterebbero molte strumentalizzazioni cui abbiamo già assistito. Chi accetta una candidatura o partecipa a una competizione elettorale deve rinunciare alla toga. Nel nuovo ordinamento giudiziario, tra l’altro, esiste il divieto, sancito disciplinarmente, di appartenere a una forza politica ».
Si sente anche lei un partigiano della Costituzione come Ingroia?
«Sono affermazioni d’effetto, mirano solo a quello. Perché l’essere convinto di determinate cose non comporta la necessità di estrinsecarle e non ne vedo la sostanziale utilità. Le rispondo con una frase del Vangelo: non chi entra in Chiesa e si batte il petto davanti a tutti fa la volontà del Padre, ma solo chi nel suo intimo risponde alla sua volontà. Quindi mi posso sentire benissimo partigiano, ma non occorre che lo dica. Dà la stura a sensazioni che possono essere positive e negative. Capisco invece quello che il collega ha voluto dire, cioè di sentirsi veramente impegnato. La Costituzione non ha partigiani, grazie a Dio. Ha un valore democratico che per sua definizione non può essere di una parte, è universale. Ma sentire intimamente il desiderio di fare giustizia, questa è una cosa bellissima».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 15 marzo 2012 [pdf]

euro falsiNell’ultimo anno un cittadino italiano su 649 si è ritrovato tra le mani almeno una banconota falsa. Nel secondo semestre del 2011, secondo i dati diffusi dalla Banca d’Italia, ne sono state riconosciute e ritirate dalla circolazione oltre 145mila, il 5 per cento in più rispetto al 2010. Il taglio da 20 euro risulta ancora il più “taroccato”: con oltre 120mila pezzi ritirati rappresenta, infatti, il 61 per cento del totale dei falsi individuati (215mila), seguito dal taglio da 100 e da 50. In tutta l’Eurozona, riferisce la Banca centrale europea, nello stesso periodo sono state tolte dalla circolazione 310mila banconote false, oltre 5,5 milioni dalla nascita dell’euro. Tuttavia, sempre secondo la Bce, dal 2005, dopo un primo periodo di crescita “fisiologica” delle falsificazioni, il totale delle banconote contraffatte si è stabilizzato tra i 600 e i 700mila esemplari l’anno, salvo un picco di oltre 800mila banconote ritirate nel 2009. Il 98 per cento delle banconote false e stato ritirato nei Paesi dell’area dell’euro, l’1,5 per cento in altri Paesi dell’Unione e la quota rimanente al di fuori dell’Ue. Se si considera, poi, che il volume medio di banconote in circolazione nel primo semestre del 2011 e  stato pari a 13,8 miliardi di pezzi, il fenomeno della falsificazione dell’euro, a parere degli esperti, può essere considerato tuttora piuttosto contenuto. Non va meglio con le monete in metallo: oltre 45mila quelle false sequestrate nel 2011, di queste oltre 20mila esemplari erano da 1 euro, 12mila da 2, 11mila da 50 centesimi e 686 da 20 centesimi.
TRUCCHI DEL MESTIERE. I falsari preferiscono produrre tagli maggiormente spendibili (20, 50 e 100), molto meno quelli da 200 e 500, perché possono essere facilmente utilizzati in transazioni al dettaglio, talvolta anche tramite distributori automatici di beni o servizi. L’analisi delle tecniche di falsificazione monetaria mostra un deciso orientamento verso il metodo tradizionale della stampa offset (il 93 per cento dei casi), un processo planografico che utilizza matrici piane tipiche della fototipia e della litografia e che, a differenza dei sistemi digitali, richiede attrezzature e tecnologie ampiamente disponibili nelle tipografie. Ed è una tecnica molto utilizzata anche dai falsari made in Italy. Tuttavia una delle falsificazioni più diffuse, grazie anche alla maggiore disponibilità sul mercato di tecnologie di stampa a basso costo, è quella delle banconote da 20 euro prodotte in digitale. Il mercato del falso, secondo uno studio della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale, è dominato da un esiguo numero di “classi”, 7 in tutto, prodotte e distribuite in larga scala. Sulla base delle caratteristiche tecniche, i biglietti “tarocchi” appartengono alle classi “local” e “common”. Le prime, realizzate con tecniche di riproduzione digitale, hanno una produzione presumibilmente limitata e sono verosimilmente destinate a circolare in ambito nazionale. Le seconde, realizzate in offset su vasta scala, sono tendenzialmente diffuse in più Paesi.
LE CONTROMISURE. Le tecniche investigative sul fronte dell’antifalsificazione monetaria, dall’introduzione dell’euro, hanno fatto passi da gigante. Dal 2004 le forze di polizia hanno smantellato in Italia 11 stamperie clandestine, otto delle quali utilizzavano sistemi di stampa offset. Al loro fianco c’è un sistema d’indagine gestito dalla Banca centrale europea molto evoluto, il “Counterfeit Monitoring System”, che aiuta a individuare i falsi archiviando le perizie compiute dagli esperti della Banca d’Italia e dell’Istituto poligrafico e zecca dello Stato. Dalle indagini è emerso che il monopolio delle banconote false in Italia, ma anche nell’Eurozona, è nelle mani del “Napoli group”, così gli investigatori del Comando antifalsificazione monetaria dell’Arma hanno ribattezzato la filiera clandestina che smercia il maggior numero di banconote false. L’84 per cento di quelle in circolazione nel Belpaese (il 62 altrove) sono prodotte e smerciate da loro, e gli introiti derivanti sono ovviamente appannaggio esclusivo della Camorra. A Napoli, al dettaglio, i biglietti “verdi” da 100 euro falsi costano 35 euro, quelli “rossi” da 50, 25 euro, e quelli “celesti” da 20, 12 euro. Nell’elenco delle banconote most wanted ce ne sono due prodotte a Napoli e sequestrate, sempre più spesso, in tutta Italia: quella da 20 euro, serie V25590030352, e quella da 50, serie S20175422632, segnalata dalla Banca d’Italia in 41 città diverse. L’ultima indagine, conclusa la scorsa settimana dai carabinieri del Reparto operativo di Rieti in collaborazione con gli esperti della sezione operativa del Comando antifalsificazione monetaria di Roma, nell’arco di due anni ha portato all’arresto di 11 persone, identificate come manovalanza del “Napoli Group”, e al sequestro di oltre 700 banconote false, in gran parte da 20 euro.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 8 marzo 2012 [pdf]

Qui radio Viminale: movimenti in vista ai vertici dei servizi segreti, e forse anche della polizia. Mentre nella Capitale arrivano da Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, nominato dal Csm procuratore capo a Roma, e il super-poliziotto che arrestò il boss Bernardo Provenzano, Renato Cortese, che da capo della Squadra Mobile reggina approda al Servizio centrale operativo. Tuttavia la notizia che in queste settimane sta facendo discutere è un’altra, e riguarda un altro super-investigatore: il prefetto, già capo della polizia, Gianni De Gennaro. Il capo del Dis, il potente Dipartimento per le informazioni e la sicurezza che sovrintende l’attività dei due Servizi segreti, potrebbe lasciare il suo incarico in cambio di una nomina ministeriale a delegato per la sicurezza, oppure, ipotesi meno probabile e già vecchia, per approdare ai vertici del gruppo Finmeccanica. La notizia è tornata ad affacciarsi nei giorni scorsi, e a quanto pare sarebbe stato proprio lo stesso De Gennaro, in vista della scadenza del suo mandato iniziato nel maggio del 2008, a comunicare a Palazzo Chigi la scelta di abbandonare il vertice dei Servizi.
Al suo posto potrebbe arrivare Antonio Manganelli, attuale capo della polizia e anch’egli in procinto di lasciare la poltrona. Nessuna novità né avvicendamenti in vista, per quanto riguarda, invece, le direzioni delle due agenzie di spionaggio. A capo dell’ex Sisde, oggi Aisi, dovrebbe rimanere il generale dei carabinieri, Giorgio Piccirillo, in carica dal 2009. Mentre alla guida dell’ex Sismi, oggi Aise, resta il generale dell’Esercito, Adriano Santini, nominato da Palazzo Chigi nel febbraio del 2010. L’altra novità, come accennato, potrebbe riguardare direttamente la polizia di Stato. Antonio Manganelli, in carica dal giugno del 2007, secondo indiscrezioni, sarebbe in procinto di lasciare il proprio incarico per prendere il posto di De Gennaro al Dis. E in lizza verso la direzione generale del Dipartimento della pubblica sicurezza ci sarebbero già diversi nomi. Innanzitutto i più quotati, due prefetti-poliziotti: Giuseppe Caruso, già questore a Roma e Palermo, di cui è stato anche prefetto e attuale direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati alla criminalità organizzata, e Giuseppe Pecoraro, attuale prefetto di Roma la cui candidatura sarebbe fortemente caldeggiata dal Pdl. Ma in corsa ci sarebbe anche l’attuale questore di Roma, Francesco Tagliente. Tra i papabili capi della polizia ci sono, inoltre, altri due prefetti, anche loro già investigatori di lungo corso: Nicola Cavaliere, oggi vicedirettore operativo dell’Aisi, e l’attuale capo del Dipartimento della protezione civile, già direttore del Sisde e prefetto de L’Aquila dopo il sisma del 6 aprile 2009, Franco Gabrielli. Il nome di Gabrielli, nel 2003 promosso sul campo al grado di Dirigente superiore della polizia per il contributo dato alle indagini sulle Nuove Brigate Rosse, è in pole position dopo lo scontro con il sindaco di Roma Alemanno sull’emergenza neve. Nel Pdl in molti scommettono che il numero uno della protezione civile sia in corsa per succedere a Manganelli, un sospetto che lo stesso Alemanno ha sollevato nel corso di una recente puntata di “In onda”, quando, rispondendo alle domande di Telese e Porro, ha detto che «anche Gabrielli deve prendere i voti». ...continua a leggere "Rimpasto di polizia"

los-roques-mappaIl prossimo 20 febbraio, a quattro anni dalla tragedia di Los Roques, potrebbero finalmente iniziare, in mare, le ricerche del bimotore della compagnia Transaven scomparso nel nulla il 4 gennaio del 2008, insieme ai suoi 14 passeggeri (otto erano italiani), mentre sorvolava l’arcipelago caraibico per raggiungere Gran Roque. Uno staff italiano, coordinato dall’ammiraglio Giovanni Vitaloni del Dipartimento della Protezione civile, grazie a un accordo tra il governo italiano e quello di Caracas, raggiungerà il Venezuela per imbarcarsi su una nave oceanografica di un’impresa di Lafayette, accreditata presso la Us Navy e altamente specializzata in ricerche sottomarine.
LA VICENDA. Quella mattina del 4 gennaio 2008 il bimotore a elica Let-410 decollò proprio dall’aeroporto Maiquetía di Caracas e sarebbe dovuto atterrare, circa mezz’ora dopo, a Gran Roque, l’isola più grande dell’arcipelago caraibico. Il pilota era un venezuelano di 36 anni, Esteban Lahoud Bessil Acosta. L’ultima comunicazione con la torre di controllo avvenne intorno alle 9.28, quando il volo YV-2081 era a 45 miglia (circa 83 chilometri) dal punto d’arrivo, livellato a una quota di 7.500 piedi (circa 2.290 metri). Ai comandi del velivolo, insieme ad Acosta, c’era il copilota, Osmel Alfredo Avila Otamendi, 37 anni, e 12 passeggeri, di cui 8 italiani: Stefano Fragione, 33 anni, sua moglie, Fabiola Napoli di 34, romani in viaggio di nozze. C’era la famiglia di Ponzano Veneto: Paolo Durante, la moglie Bruna Guernieri e le due figlie, Sofia di 6 anni ed Emma di 8; poi Annalisa Montanari di 42 anni e Rita Calanni, di 46, di Bologna. Con loro anche un turista svizzero, Alexander Niermann, e tre cittadini venezuelani: Karina Ruiz, Yza Rodriguez Fernandez e Patricia Estela Alcala Kirschner. Il mayday venne lanciato alle 9.38, quando il bimotore era a circa 30 chilometri da Los Roques, livellato a 3.000 piedi e già in fase d’atterraggio. Il mare, finora, ha restituito solo il corpo del copilota, Osmel Alfredo Avila Otamende, e nient’altro. Alcuni pescatori lo recuperarono dieci giorni dopo la sciagura, a una decina di miglia al largo delle coste della penisola del Paraguay, in un punto che si trova a oltre 300 chilometri da Caracas. E’ stato identificato attraverso le impronte dentarie e un orologio.
LA TRATTATIVA. La ricostruzione ufficiale, fornita dai venezuelani, dirà che l’aereo aveva entrambi i motori in avaria, forse per un problema con il carburante, e che il comandante, prima di tentare l’ammaraggio, fece appena in tempo ad avvisare la torre. Poi il silenzio assoluto, nessun’altra comunicazione radio. Mezz’ora dopo un altro bimotore, gemello di quello scomparso, sorvolò la zona riportando alla torre di Gran Roque la posizione di una vasta macchia d’olio e carburante in corrispondenza delle coordinate dell’ultimo contatto radio lanciato dal volo YV-2081. Il 5 gennaio, 24 ore dopo la scomparsa del volo Transaven, nessuno sa dire cosa sia accaduto, né le autorità locali né i familiari dei 14 dispersi. C’è solo un’ipotesi, la stessa che tiene banco ancora oggi: l’aereo potrebbe aver ammarato ma a causa dell’impatto con l’acqua, e dei danni causati alle strutture, nessuno degli occupanti sarebbe riuscito ad abbandonare l’aeromobile. A quattro anni dalla tragedia di Los Roques, dopo una lunga ed estenuante trattativa tra il governo italiano e quello venezuelano, si riaccende, perciò, la speranza dei familiari dei passeggeri che le ricerche, tanto attese finora, possano finalmente arrivare a individuare la carlinga dell’aereo, e ciò che rimane dei corpi di chi era a bordo. L’operazione, coordinata dalla statunitense “C&C technologies”, costerà 4,6 milioni di dollari, coperti in parti uguali dal governo italiano e da quello venezuelano. A vigilare sulle operazioni di ricerca ci saranno i membri di una speciale commissione, mista Italia-Venezuela, di cui fa parte anche un consulente dei familiari delle vittime, il comandante Mario Pica, ex ufficiale dell’Aeronautica militare esperto in incidenti aerei. A coordinare le operazioni, oltre l’ammiraglio Vitaloni in rappresentanza del governo italiano, ci sarà anche Ugo Marino, il rappresentante della società “Andi Latinoamericana”, associata della “C&C Tecnology” che nel 2010 tentò di avviare le ricerche, impiegando un’altra nave che però rimase bloccata nel Golfo del Messico a causa dell’uragano Earl.
LE RICERCHE. Dal prossimo 20 febbraio sarà la nave Northern Resolution a scandagliare i fondali per diciotto giorni con un sofisticato sonar. Le ricerche si concentreranno a nord di Los Roques, intorno all’ultima posizione del volo registrata dai radar, in un’area di circa 94 miglia quadrate, dove il mare raggiunge una profondità anche di 1500 metri. Sarà anche la stessa commissione a dare il via libera allo sblocco dei fondi, a garanzia che le ricerche verranno condotte seriamente, e non come avvenne nei giorni successivi alla tragedia quando i venezuelani si dimostrarono inadeguati e poco interessati a fare luce sull’incidente che si era appena consumato nei loro mari. Della vicenda del volo Transaven se n’era occupato direttamente anche il presidente venezuelano, Hugo Chavez, che s’impegnò, incontrando l’allora presidente del Senato Fausto Bertinotti, a fare tutto il possibile affinché riprendessero le ricerche. «L’unità navale Northern Resolution, dopo aver fatto sosta a Trinidad per il rifornimento e il controllo delle apparecchiature, si trasferirà a Los Roques», ha confermato nelle scorse settimane all’Ansa Romolo Guernieri, padre di Bruna e nonno di Emma e Sofia, le due bimbe che, con la madre e il padre, sono scomparse assieme all’aereo. «Le operazioni di ricerca dell’aereo verranno condotte con apparecchiature tecnologicamente avanzate e particolarmente adatte ad operare in questo tipo di fondale. Si tratta di piccoli veicoli subacquei con guida autonoma dotati di apparati per la scoperta di oggetti in fondali anche superiori a mille metri. A compiere le ricerche sarà la società Andi Latinoamerica, che in Venezuela rappresenta la C&C Technology».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 23 febbraio 2012 [pdf]