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roma criminaleIl primo delitto dell’anno nella Capitale è l’uccisione, ieri sera, poco prima delle 22, di un cittadino cinese e di sua figlia, durante un tentativo di rapina a mano armata in via Giovannoli, nel quartiere periferico di Tor Pignattara, in zona Casilina. Torna ad allungarsi, dunque, la scia di violenza che aveva chiuso il 2011 con l’ennesimo agguato criminale del 29 dicembre nel quartiere San Lorenzo, dove il catanese Carmelo Fichera, 45 anni con precedenti per droga, era stato ferito con alcuni colpi di pistola sparati alle gambe. Ormai succede ovunque in città, anche senza collegamenti con regolamenti di conti o divisioni territoriali – proprio Fichera aveva detto agli inquirenti di essersi limitato a sgridare alcuni extracomunitari che stavano danneggiando le auto in sosta – dal quartiere universitario più movimentato adiacente alla stazione Termini o a Piazza Nicosia, pochi metri più in là rispetto a Piazza di Spagna. L’elemento che sta sempre più insinuandosi fra i sampietrini del centro e i volti attoniti di romani e turisti che passeggiano è quello dell’abitudine. Al momento destano ancora scalpore quegli spari repentini e ravvicinati che sorprendono i passanti in un centro che ha sostituito gli avvenimenti culturali, spesso di alta levatura, con incontri di boxe all’aperto e discoteche open all’ombra del Vittoriano (l’ultima quella del 31 dicembre, per la festa di fine anno).
È una Roma un po’ deturpata, strillona e aggressiva, quella che ha attraversato questi 34 fatti di sangue tra morti ammazzati e ferimenti. Non c’è un effettivo collegamento tra il caotico ma violento andazzo criminale senza più batterie connesse e operanti all’ombra delle borgate e l’evidente mancanza di un piano sociale e culturale che permea questa città. Tuttavia se cammini per le strade del centro e ti avventuri per le vie affollate di un quartiere limitrofo alla Tuscolana, non lontano dalla vecchia stazione cimelio, le differenze si assottigliano. Casermoni moderni e attrezzati che costeggiano strade senza illuminazione e fermate di autobus. Una periferia lontana e vestita a nuovo, dove gli unici punti di ritrovo sono le pizzerie a taglio sotto i palazzi e sparute panchine per attendere il turno alla teglia.
La Roma del 1978, quella di Franco Giuseppucci, Maurizio Abbatino e Antonio Mancini ha cambiato volto e di quella Banda, quella della Magliana anni Settanta, resta solo il brand. Il 2011 si è chiuso a colpi di pistola, come a Palermo, negli anni della guerra di mafia, o nella Chicago degli anni Venti. Il luogo non conta, conta solo il messaggio, la lezione. Niente lame, niente pestaggi, solo piombo. L’aria è cambiata, ed è più pesante di un tempo, perché tanta violenza, così spietata, per le strade della Capitale non si era mai vista.
E per capire come si muore a Roma, basta raccontare le storie di Marco Attini, Simone Colaneri e Flavio Simmi. Tre delitti efferati che hanno segnato il 2011. Attini è un disoccupato di 38 anni, il 16 dicembre due sicari a bordo di uno scooter lo hanno freddato mentre era dentro la sua auto insieme alla fidanzata, in via Ferruccio Ulivi, quartiere di Tor Vergata. Attini ha fatto la stessa fine di Simone Colaneri, detto er teppista, 30 anni, ucciso il 27 luglio da una raffica di colpi sparati da una Magnum 44 in pieno giorno, in via Bembo a Torrevecchia. Stessa lezione per Flavio Simmi, 33 anni, il 5 luglio davanti agli occhi della sua compagna, a Prati, sette colpi di pistola sparati da due killer in moto mentre usciva da un parcheggio hanno bucato la sua vita. Simmi a febbraio era stato gambizzato davanti alla gioielleria di famiglia nelle vicinanze di Campo de’ Fiori. Per il momento all’orizzonte si scorge solo che in atto c’è una guerra tra delinquenti, piccoli e grandi, che sgomitano e gambizzano i loro nemici per controllare il territorio e scalare le gerarchie criminali. E mentre un pool di inquirenti, stile Falcone-Borsellino, guidato dal procuratore Giancarlo Capaldo cerca di inserirsi in un piano della sicurezza con poca convinzione, l’unico errore da non ripetere è quello di sottovalutare una situazione già sfuggita di mano che rischia di trasformare le strade e i quartieri della Capitale in un Far West.

di Fabrizio Colarieti per Avanti! [link originale]

Samuele Donatoni
Samuele Donatoni

La verità sulla morte dell’ispettore del Nocs Samuele Donatoni dovrà emergere dai nuovi accertamenti disposti dal gip Massimo Battistini che il 7 dicembre scorso ha respinto la richiesta di archiviazione dell’inchiesta avviata dalla Procura di Roma sul conto di sette poliziotti che la notte del 17 ottobre 1997 parteciparono, a Riofreddo, all’operazione che doveva portare alla cattura dei sequestratori di Giuseppe Soffiantini.
Il procuratore aggiunto Pietro Saviotti ha sei mesi di tempo per fare piena luce su quanto avvenne quella notte di quattordici anni fa, e per farlo dovrà rimettere in discussione ogni cosa, a partire proprio da ciò che i colleghi di Donatoni raccontarono nell’immediatezza dei fatti.
E in questa brutta storia c’è un’unica certezza: Donatoni, lo dice una perizia e una sentenza passata in giudicato (quella di assoluzione del bandito Giovanni Farina), quella notte non fu colpito da una delle armi imbracciate dai sequestratori, bensì da una pistola in dotazione alla polizia, e il suo corpo fu spostato subito dopo quello scontro a fuoco.
Che le cose andarono così, e che Donatoni fu vittima del fuoco amico, ne è certo il giudice Mario Almerighi, che nel 2005, assolvendo Farina, insinuò per la prima volta il dubbio che la ricostruzione fornita dai vertici della polizia non era credibile. Almerighi, che a questo caso ha dedicato anche un libro (“Mistero di Stato” per Aliberti Editore), rispondendo alle domande di Notte Criminale torna a indicare l’unica strada percorribile per giungere alla verità: indagare sulla polizia.
Dottor Almerighi, quale potrebbe essere il motivo che spinse la Polizia di Stato a coprire una vicenda così grave con una serie di omissioni e inquinamenti delle prove ancora oggi poco spiegabili?
«E’ una domanda che può trovare risposta solo attraverso una nuova indagine. La Sezione della Corte d’Assise da me presieduta aveva il compito di accertare la colpevolezza o l’innocenza di Giovanni Farina nell’omicidio del povero Donatoni. Nel corso del processo sono emersi elementi delittuosi tesi all’inquinamento delle prove. Doverosamente tali elementi sono stati portati a conoscenza della Procura di Roma. La Corte d’Assise giudica. Il pubblico ministero fa le indagini. A ciascuno il suo per il rispetto delle regole».
Quasi al termine del dibattimento lei ordinò la riesumazione del corpo dell’ispettore Donatoni e una nuova perizia, cosa non la convinceva nella ricostruzione fornita dalla polizia e sostenuta anche dalla Procura?
«Già nel precedente processo il medico legale aveva sottolineato che il colpo d’arma da fuoco che attinse Donatoni era stato sparato dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra e da breve distanza. Invece, secondo la ricostruzione del primo processo, Donatoni si sarebbe trovato di fronte a Moro e a una distanza di circa 20 metri. Ma ciò che mi spinse a disporre una perizia furono soprattutto le fotografie delle oltre 50 macchie di sangue la cui origine si trovava a notevole distanza da dove la precedente sentenza aveva stabilito si trovasse Donatoni nel momento in cui fu colpito».
Fu l’agente Stefano Miscali, oggi l’unico a essere indagato per omicidio colposo, a sparare accidentalmente a Donatoni?
«Quello che è emerso dal mio processo in modo inequivocabile, grazie ad una perizia basata su dati scientifici, è che lo sparo che attinse Donatoni non fu sparato da Mario Moro né dagli altri imputati che furono condannati nel precedente giudizio».
E’ ragionevole pensare, vista la posizione delle tracce di sangue, che il corpo dell’ispettore fu spostato rispetto al punto dove avvenne lo scontro a fuoco?
«Come testimoniato da Nicola Calipari gli spari non avvennero soltanto in quel punto e le macchie di sangue, insieme ad altre emergenze processuali, hanno dimostrato che il corpo di Donatoni venne spostato. Ciò non solo è ragionevole, ma è provato com’è detto chiaramente nella sentenza che ha assolto Farina».
Fu un incidente, o ha avuto il sentore che ci fosse altro dietro la morte dell’ispettore Donatoni?
«Le sensazioni di un giudice non hanno alcuna rilevanza processuale. La ricostruzione della verità e le sentenze devono basarsi sulle prove e non certo su supposte dietrologie. Se non fu un mero incidente lo accerteranno le nuove indagini».

di Fabrizio Colarieti per Nottecriminale.it

piergiorgio morosiniAAA cercasi magistrati pronti a morire, anche di lavoro. A Santa Maria Capua Vetere, provincia di Gomorra, regno dei Casalesi, è stato pubblicato per due volte consecutive in un anno un bando per coprire 21 posti da magistrato, ma nessuno ha risposto. La pianta organica del Tribunale meno ambito d’Italia parla chiaro: in trincea dovrebbero esserci 94 toghe, ma ce sono solo 72, più il presidente. Negli ultimi sei anni 71 magistrati hanno chiesto di andare via, per l’eccessivo carico di lavoro, e ora il Csm pensa di tamponare l’emorragia – che rischia di paralizzare l’attività di sei sezioni penali in una terra dove si combatte la Camorra ogni giorno - inviando magistrati tirocinanti. Intanto 6 giudici e 2 sostituti procuratori hanno chiesto di essere trasferiti a Napoli, ma non ci stanno ad essere additati come fuggiaschi. Santa Maria Capua Vetere è l’emblema della “geografia giudiziaria”, classe 1861, che mette sullo stesso piano tribunali ormai inutili, ma a organico pieno, e altri sull’orlo del collasso, senza né mezzi né uomini e in prima linea in territori ad altissima densità criminale. Rispondendo alle domande de Il Punto, il giudice palermitano, Piergiorgio Morosini, segretario generale di Magistratura Democratica, la corrente progressista dell’Anm, lancia un appello: «Mettiamo attorno allo stesso tavolo i rappresentanti di politica, magistratura, avvocatura e pubblico impiego, per individuare le priorità alle quali dobbiamo dare necessariamente una risposta immediata».
Dottor Morosini, a Santa Maria Capua Vetere mancano all’appello 21 magistrati, il Csm sta provando a tamponare l’emorragia inviato “giudici ragazzini” per sostenere l’enorme carico di lavoro, siamo di fronte al collasso della giustizia che denunciate da anni?
«Direi che siamo di fronte a temi atavici della giustizia italiana, legati al fatto che la pianta organica dei tribunali e delle procure non è aggiornata rispetto alle esigenze che abbiamo in questo momento. Santa Maria Capua Vetere è una sede che si occupa di criminalità organizzata di stampo camorristico concepita in un’epoca in cui l’azione di contrasto nei confronti dei clan non era così incisiva, quindi, rispetto a questo problema, ci sono responsabilità anche da parte della politica». ...continua a leggere "Giustizia a costo zero"

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Samuele Donatoni
Samuele Donatoni

Settembre 1997. Giuseppe Soffiantini, imprenditore tessile bresciano, è nelle mani di un gruppo di banditi sardi da tre mesi, in tre lo hanno rapito nella sua villa di Manerbio il 17 giugno. I suoi figli lanciano un primo appello ai sequestratori, sono disponibili a pagare il riscatto e loro dettano le condizioni. Gli inquirenti decidono di effettuare un pagamento simulato e l’appuntamento è fissato per le ore 23 del 25 settembre in provincia di Savona. L’emissario, seguendo le indicazioni dei sequestratori, deve raggiungere il punto convenuto a bordo di un fuoristrada e, una volta nei pressi di Mortara (PV), attendere un segnale luminoso e poi un altro. La delicata operazione è affidata al Nucleo operativo centrale di sicurezza, il Nocs della polizia di Stato. L’emissario è uno di loro, il capo: Claudio Clemente. Il fuoristrada raggiunge la piazzola di sosta. Clemente e i suoi uomini sono pronti a consegnare la borsa e a far scattare la cattura. Il primo segnale arriva, il secondo no, l’operazione fallisce. Il 7 ottobre è lo stesso Soffiantini, in una drammatica lettera, a chiedere ai suoi familiari di pagare i 20 miliardi del riscatto: «Fate tutto il possibile e l’impossibile per pagare, diversamente non ci vedremo mai più». I rapitori tornano a farsi vivi. Il nuovo appuntamento è fissato per il 17 ottobre lungo la statale Tiburtina, all’altezza del bivio di Riofreddo, ai confini tra il Lazio e l’Abruzzo. Le modalità sono le stesse: l’emissario deve raggiungere il luogo stabilito, attendere un segnale luminoso, fermarsi in una piazzola e depositare le due borse contenenti il denaro. A condurre l’operazione è ancora il Nocs, l’emissario è di nuovo Clemente.
Riofreddo. Alle 21 il capo dei Nocs e una decina di suoi uomini sono quasi all’appuntamento. Clemente è a bordo di una Golf bianca, alla guida c’è un altro agente e altri due sono nascosti sul retro della vettura. L’intera operazione è registrata via radio e nella sala operativa della questura di Avezzano i vertici della Criminalpol seguono la consegna in diretta, tra loro c’è anche Nicola Calipari, il funzionario di polizia che sarà ucciso nel 2005 a Baghdad durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. ...continua a leggere "Caso Donatoni: ecco le voci della notte di Riofreddo"