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soffiantiniE’ il 17 giugno 1997 quando Giuseppe Soffiantini, 62 anni, imprenditore tessile viene sequestrato nella sua villa di Manerbio in provincia di Brescia. Sono le 22:30 circa. I rapitori legano e imbavagliano la moglie, Adele Mosconi, e la chiudono in un sottoscala. La donna riesce a dare l'allarme molte ore dopo, la mattina del 18. Prima di andarsene con l'ostaggio, i banditi dicono alla donna: «Non ti preoccupare, te lo faremo ritrovare». Il pesante silenzio viene rotto il giorno dopo. Il 19 giugno il primo contatto dei rapitori e la richiesta di riscatto: 20 miliardi. I figli chiedono il silenzio stampa per favorire la trattativa e diffondono un appello: «Nostro padre è malato. Ha bisogno ogni giorno di una dose di Sintrom, un farmaco salvavita». La pista battuta dagli inquirenti parla di sequestratori sardi. Il 21 giugno viene ritrovata una Fiat Croma bruciata targata PG741074, risultata rubata il 10 giugno.
Venerdì 17 ottobre una squadra di agenti speciali guidata da Claudio Clemente, capo dei Nocs, è pronta ad entrare in azione. La banda aveva fissato un appuntamento a Riofreddo (Rm) per ricevere il pagamento del riscatto ma, al posto del mediatore della famiglia Soffiantini, si presentarono i Nocs. Inizia un conflitto a fuoco e sul bordo di una statale ai confini tra Lazio e Abruzzo l'ispettore Donatoni rimane ucciso. L'operazione fallisce.
Il 19 ottobre viene arrestato uno dei rapitori, Agostino Mastio, che inizia a collaborare con la polizia. Il giorno dopo, il 20 ottobre, i Nocs speronano e poi bloccano, sull'autostrada Roma-L'Aquila, la “Golf” sulla quale viaggiano quattro sequestratori: Mario Moro, Agostino Mastio, Giorgio Sergio e Osvaldo Broccoli. Uno dei quattro arrestati, Mario Moro, rimane gravemente ferito. Viene fermata anche Silvana Lippi, convivente di Moro, e il basista, Pietro Raimondi, di Manerbio.
Il 27 ottobre si fanno ancora vivi i rapitori. Con un altro messaggio chiedono 11 miliardi, questa volta in dollari. Ventitrè giorni dopo, il 19 novembre la famiglia Soffiantini riceve una lettera con un ultimatum (20 dicembre) per il pagamento del riscatto e, dentro un preservativo, in lembo dell’orecchio sinistro dell’ostaggio.
Il giorno dopo, 20 novembre, Carlo Soffiantini, figlio maggiore dell'industriale bresciano e l'avvocato di famiglia, Giuseppe Frigo, rompendo il silenzio stampa convocano giornali e tv per lanciare un messaggio ai rapitori: «Siamo pronti, abbiamo un canale aperto e i soldi, anche se non tutti quelli che chiedete. Fate presto».
26 novembre «Abbiamo i soldi e le mani libere. Aprite un canale con noi e vi consegneremo quanto abbiamo raccolto, ma prima vogliamo una prova "sicura e attuale" che il rapito sia ancora vivo».
Un altro disperato della famiglia Soffiantini ai sequestratori, letto dall'avvocato Giuseppe Frigo davanti alle telecamere della Rai. Il 12 dicembre la famiglia Soffiantini comunica ai banditi che i soldi sono stati raccolti, nonostante il blocco dei beni: «Abbiamo i soldi e le mani libere. Aprite un canale con noi e vi consegneremo quanto abbiamo raccolto, ma prima vogliamo una prova sicura e attuale che il rapito sia ancora vivo». Il 4 gennaio, durante l’Angelus, il Papa lancia un appello ai sequestratori chiedendo la liberazione di Soffiantini: «A proposito del bisogno di legalità e del rispetto dei diritti di ogni persona - dice Wojtyla - vorrei ricordare, come sono solito fare nella prima domenica di ogni nuovo anno, l'ingiustizia dei sequestri di persona. Rinnovo la mia solidale preghiera per le persone rapite e per i familiari, e faccio appello all' umanità dei colpevoli, perché liberino le vittime dei sequestri e liberino anche se stessi dai lacci del male, convertendosi all'Amore».
Il 13 gennaio 1998 muore Mario Moro. Di cinque giorni dopo invece, il 18 gennaio, l’ennesimo appello del Papa ai rapitori. Il 25 gennaio a ricevere un messaggio ed un altro brandello di orecchio di Soffiantini è il direttore del TG5, Enrico Mentana: «La legge non esclude la possibilità che il magistrato che conduce l'inchiesta, qualora ne veda l'esigenza, conceda l'autorizzazione al pagamento del riscatto».
Aveva scritto Soffiantini nella lettera resa pubblica durante il Tg5 della sera: «Io chiedo ai miei figli che paghino la mia salvezza». Aveva aggiunto: «Non lo chiedo al governo italiano e tantomeno ai giudici».
«Se uscirò vivo da questa esperienza citerò per danni e per causata mutilazione chi con irresponsabili atteggiamenti ha messo la mia vita in continuo pericolo di morte». 5 febbraio Roberto Spanò, Gip del tribunale di Brescia, autorizza il pagamento “controllato” a fini investigativi di 5 miliardi, per favorire l' individuazione e la cattura dei rapitori. Il giorno dopo, 6 febbraio i figli di Soffiantini lanciano un disperato messaggio agli organi di informazione «Silenzio o papà morirà».
Sono circa le nove di sera quando dopo 237 giorni Adele Mosconi sente al telefono la voce del marito: «Sono libero, venitemi a prendere».
E’ il 9 febbraio Giuseppe Soffiantini viene liberato a Impruneta, vicino Firenze.
Il 19 marzo vengono arrestati Maurizio Cecile e Roberto Sever, davanti banco Ambroveneto di Mareno di Piave dove avevano tentato di ripulire i soldi del riscatto. I due collaborano con la giustizia e si prestano ad una trappola dove, gli agenti, arrestano Puggioni e Sirigu. Due giorni dopo, il 21 marzo viene arrestato Giovanni Zizi, fratello di Francesco, il vivandiere della prigione di Montalcino.
Le accuse, secondo la procura di Brescia, sono di concorso in sequestro di persona e detenzione di arma da guerra clandestina. Ad intrappolare Zizi, infatti, è una pistola calibro 7.65 trovata in Calvana, nell’ultimo covo di Farina e Cubeddu.

di Fabrizio Colarieti e Marina Angelo per Notte Criminale (18 dicembre 2011)

E’ Roma, non la Chicago degli anni Venti. Trentatré omicidi in undici mesi, con il pesante sospetto che dietro tanto piombo e morte ci sia una guerra tra delinquenti, piccoli e grandi, che sgomitano per controllare il territorio e scalare le gerarchie criminali. Una lunga scia di sangue che, secondo alcuni, sta disegnando uno scenario identico a quello che caratterizzò gli anni Settanta, mentre, secondo altri, tanta violenza sarebbe il segnale più evidente che la criminalità organizzata, tutta, si sia definitivamente insediata nella Capitale. A lanciare l’allarme, che nel ventre di Roma c’è qualcosa che sta cambiando, con cui prima o poi bisognerà fare i conti, è il giudice Otello Lupacchini, colui che disarticolò la più potente organizzazione criminale autoctona che abbia mai operato nella Capitale: la Banda della Magliana. «Non v’è dubbio che trentatré morti, siano effettivamente molti - commenta il giudice rispondendo alle domande de Il Punto - ma il dato interessante, in questi ultimi giorni, è comunque un altro: sembra sia finito il tempo degli esorcismi o, se si preferisce, del negazionismo. Così il sindaco Alemanno come pure il responsabile della Direzione distrettuale antimafia, Capaldo, sebbene con toni e accenti diversi, segnalano finalmente il “rischio mafia” nella capitale. Il primo, infatti, ha esternato il timore che “ci sia un contatto tra le bande territoriali e la grande criminalità organizzata, che ha già comprato pezzi di economia romana e che si è limitata finora a investire”; il secondo, più prudente, di fronte ai due ultimi assassinati a Ostia, per altro già coinvolti, ma anche usciti pressoché indenni da indagini di criminalità organizzata, che descrive, tuttavia, come “due personaggi profondamente inseriti nel contesto della criminalità organizzata di un certo significato, non marginale, insediata anche a Roma nel traffico di droga e usura, già coinvolti in fatti di sangue e conflitti tra bande”, ha rilevato invece come sia in atto uno “scontro evidente tra due gruppi criminali molto forti”, quantunque non specifichi a quali gruppi si riferisca». ...continua a leggere "Romanzo criminale"

Nessun passo indietro, anzi. Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, intende rimanere un “partigiano della Costituzione”, con tanto di tessera dell’Anpi in tasca. Dopo la sua provocazione al congresso del Pdci di Rimini e le polemiche che lo hanno investito, facendo irritare anche l’Anm e spingendo il Consiglio superiore della magistratura ad aprire un fascicolo, al Punto il procuratore aggiunto di Palermo racconta che ne è valsa la pena. A chi, poi, lo vorrebbe in politica, magari come sindaco del capoluogo siciliano, risponde «no grazie», e al nuovo governo chiede ascolto e dialogo per continuare a lottare contro Cosa Nostra.
Dottor Ingroia, le sue parole al congresso del Pdci le sono costate l’apertura di un’inchiesta da parte del Csm. Ne è valsa la pena definirsi un “partigiano della Costituzione”?
«Per ora si parla dell’apertura di un fascicolo del Csm per una presunta incompatibilità ambientale, anche se non ho ancora capito con chi. Comunque sì, ne è valsa la pena, ne sono assolutamente convinto. Credo ne valga la pena in ogni occasione nella quale c’è modo di esprimere la propria posizione di difesa della costituzione, dei suoi principi e del diritto di ogni cittadino, magistrati compresi, di svolgere un ruolo di difesa della Carta costituzionale. In qualunque sede e a qualunque costo. Ho giurato sulla costituzione e la difenderò sempre, anche a costo di essere investito dalle polemiche ogni qualvolta che mi trovo a difenderla. Come ho già detto sono abbastanza sereno, sono convinto di aver esercitato un mio diritto e perciò non ho nulla da temere».
Ma non crede che iniziative di questo tipo rischino di dare troppi argomenti a quanti puntano il dito contro le toghe politicizzate?
«Sì, sono consapevole che c’è questo rischio. Tuttavia non mi rassegno che di fronte al rischio di accuse strumentali e pretestuose debbano innescarsi meccanismi di autocensura, e quindi, di fatto, un arretramento rispetto ai nostri sacrosanti diritti. Non solo come magistrato, ma non intendo rassegnarmi anche come cittadino. Non posso e non devo rinunciare ai miei diritti soltanto perché c’è qualcun altro che, in modo pretestuoso e strumentale, afferma che ogni volta che esercito questo diritto sto commettendo un abuso. Essendo il mio un diritto, e non un abuso, rivendico, perdoni il gioco di parole, il diritto di esercitare ogni mio diritto». ...continua a leggere "In trincea col partigiano Ingroia"

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Roma, via della Grande Muraglia Cinese 46, 16 luglio 1995. È domenica e a Roma è una giornata molto calda. Il tenente colonnello dell’Esercito, Mario Ferraro, 46 anni, calabrese, distaccato al Sismi, esperto in informatica, traffici di armi e terrorismo internazionale, è in casa insieme alla sua compagna, Maria Antonietta Viali, per gli amici Antonella. Sono al quinto piano, in un attico nel quartiere Torrino, accanto all’Eur. La coppia è in assoluto relax dopo aver trascorso una giornata serena e scandita da poche e semplici azioni, ignari che quella sia la loro ultima domenica insieme. La mattina si sono alzati tardi, intorno alle undici, hanno fatto colazione e poi sono andati sul terrazzo, portando con loro riviste, bibite e gli amati Toscani, a prendere il sole fino alle quattordici. Sono riscesi nell’appartamento per pranzare e hanno trascorso gran parte del pomeriggio in casa a ridere, scambiarsi baci, carezze e fare programmi per il futuro. Verso le 19, quando il caldo è meno insopportabile, sono ritornati in terrazzo dove il ponentino, la brezza che arriva dal mare, comincia a rinfrescare l’aria e hanno giocato a scalaquaranta fin verso le venti quando Mario ha deciso di uscire a fare quattro passi. Mario ha infatti finito i suoi sigari, passione che ha in comune con la sua compagna e ha voglia di mangiare un gelato, per cui propone a Maria Antonietta di andare in tabaccheria e poi alla gelateria Giolitti, in viale Oceania. Lei vuole rimanere in casa per cui, dopo aver insistito un po', decide di uscire lo stesso, da solo. Fa la doccia, si veste sportivo con una polo e un paio di jeans e torna di nuovo in terrazzo per vedere se per caso Maria Antonietta ha cambiato idea. Lei è decisa a rimanere in casa a preparare la cena e poco prima che lui esca fa in tempo solo a chiedergli cosa vuole mangiare. ...continua a leggere "La strana morte di Mario Ferraro, agente del Sismi"