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«Siamo gelosi custodi della nostra Abbazia, ma il progresso e la civiltà camminano su buone strade e un miglioramento della viabilità è senz’altro positivo». Sono le parole del sindaco di Micigliano, Francesco Nasponi, ed è un peccato che nell’era del digitale i cittadini di Micigliano non abbiamo potuto seguire la puntata di “Buongiorno regione”, andata in onda ieri su Rai 3 in diretta dall’Abbazia dei Santi Quirico e Giulitta. Lo è perché a Micigliano - dove la tv di Stato non si vede ancora - gli abitanti del piccolo comune avrebbero potuto percepire, ascoltando le balbettanti parole del sindaco, quanto la spinosa vicenda del mega svincolo in costruzione ai piedi del paese lo preoccupi ancora. Il servizio della Rai è servito a far conoscere la storia del millenario insediamento benedettino ma anche cosa accadrà in quei storici luoghi quando lo svincolo sarà completato. L’Abbazia, ristruttura nel 2000 con i fondi del Giubileo (oltre 4 miliardi di lire), sarà soffocata dai piloni dell’enorme svincolo e così di quel suggestivo scorcio delle Gole del Velino resterà al massimo una cartolina. La Rai, stavolta, ha fatto il suo dovere riaccendendo i riflettori su una vicenda tutt’altro che chiusa e ricordando che su quel cantiere dell’Anas (appaltato alla Safab Spa per 46 milioni di euro) incombe - tuttora - una diffida con cui il 5 maggio scorso la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Lazio ha ordinato la “sospensione dei lavori” e il “ripristino dello stato dei luoghi”. Detta in due parole: quei lavori sarebbero stati avviati violando i pareri che la stessa Soprintendenza aveva emesso a protezione dell’Abbazia di cui Nasponi dice di essere un “geloso custode”. «Non compete al nostro microcomune - ha poi aggiunto il sindaco ai microfoni della Rai - né al sindaco far rispettare l’ordinanza che noi abbiamo regolarmente affisso, è l’Anas che doveva controllare le procedure e vigilare sull’appalto». Nasponi dimentica che la Soprintendenza, con una nota del 7 aprile 2009, gli intimò di rispettare il suo parere dando avvio a un procedimento di tutela dell’area. Il Comune non mosse un dito e scattarono le norme di salvaguardia previste dal Codice dei beni culturali e del paesaggio: “necessità di sottoporre alla preventiva valutazione da parte di questa Soprintendenza di qualsiasi intervento riguardasse l’area e sono state adottate delle prescrizioni di gestione dell’ambito territoriale, alle quali l’amministrazione comunale era tenuta da quella data ad attenersi”. Dal 5 maggio scorso nessuno ha sospeso i lavori, neanche i carabinieri di Antrodoco e del Nucleo tutela patrimonio culturale di Roma che quella stessa diffida l’hanno da tempo.
di FABRIZIO COLARIETI - Il Messaggero del 19/11/2010

Leggi anche l'inchiesta di Narcomafie sulla Safab.

Chiamatela dietrologia, oppure antiamericanismo. Ma resta un dato di fatto: anche in questa brutta storia i nostri fedeli alleati americani ci sono entrati con le mani e con i piedi. È stata colpa loro? Chi può dirlo. Ma di certo, quella sera, mentre i 140 tra passeggeri e membri dell’equipaggio del Moby Prince andavano a morire contro quella petroliera, gli americani nel porto e alla rada di Livorno c’erano eccome. Così la tragedia di quel traghetto è diventata, nel tempo, la “Ustica del mare”. Troppe coincidenze. Troppi sospetti. Troppe presenze anomale in quel tratto di mare ingolfato come quel pezzo di cielo dove il 27 giugno 1980 si trovò, in altrettanto casuale compagnia, il Dc9 della compagnia Itavia.In quell’occasione le vittime furono 81, ovvero 82 con la verità finita per sempre, insieme a gran parte dei passeggeri di quel volo, in fondo al mare. Due storie diverse, due tragedie distanti tra loro ma unite dallo stesso pauroso sospetto. A tornare indietro con la memoria, di pretesti, volendo, se ne trovano anche altri. Dall’arrivo delle spie americane in Sicilia, subito dopo il secondo conflitto mondiale, la cui attività, secondo molti, fu fortemente legata a quella della mafia, alla Strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947), fino all’uccisione in Iraq dell’agente segreto Nicola Calipari (4 marzo 2005), passando per la strage della funivia del Cermis (3 febbraio 1998). I misteri, quelli che tutti chiamano “misteri d’Italia”, in questo Paese hanno quasi sempre un inquietante risvolto a stelle e strisce, e non è sempre colpa della dietrologia.Gli americani, secondo i complottisti, mettono lo zampino dappertutto, e quindi se là, in quel mare, la sera del rogo del Moby Prince, c’erano anche loro, è accaduto sicuramente qualcosa che nessuno deve sapere. ...continua a leggere "Moby Prince. Spettatori di una sovranità limitata"

maniero“Felice Maniero (Campolongo Maggiore, 1954) è un criminale italiano, ex-boss della nota Mala del Brenta. Soprannominato "Faccia d'angelo", è stato la mente di feroci rapine, sanguinosi assalti a portavalori, colpi in banche e in uffici postali, accusato di almeno sette omicidi, traffico di armi e droga e associazione mafiosa.” Wikipedia - la popolare enciclopedia on-line dalla risposta sempre pronta - racconta così, nelle prime quattro righe della biografia a lui dedicata, la storia di Felice Maniero. Il re della malavita veneta tornato libero lo scorso 23 agosto, a 56 anni, dopo aver saldato il conto la giustizia. Libero a tutti gli effetti. Di circolare in Europa, senza vincoli, con un nome e un cognome nuovi di zecca. Libero di portare avanti, in una località segreta, il suo progetto imprenditoriale nel ramo dei casalinghi. Per lui, di fatto, sono terminati, a saldo di una condanna definitiva a 17 anni di reclusione, gli effetti dell’ultima misura a cui era sottoposto (il soggiorno obbligato). Restano, quindi, solo un brutto ricordo - almeno per l’ex boss - i processi per quella lunga lista di omicidi e rapine che per un ventennio hanno terrorizzato il Nordest rendendo la sua figura famigerata e, allo stesso tempo, pericolosamente affascinante.
Chi è. Felice Maniero finisce in manette per la prima volta nel 1980 in seguito a una sparatoria. Entra ed esce dal carcere per trentacinque anni. Sette anni dopo, siamo nel 1987, la prima evasione, una delle tre che lo vedranno protagonista. Ma la più eclatante la compie nel giugno del 1994 quando, insieme al suo braccio destro e ad alcuni fedelissimi, evade dal supercarcere di Padova. Cinque mesi dopo viene riacciuffato, a Torino, e condannato a 33 anni di reclusione. Le accuse che gli venivano mosse andavano dall’associazione a delinquere di stampo mafioso, con rapine, traffico di droga e sequestri, all’omicidio, per aver compiuto sette delitti, anche se di questi il boss della riviera del Brenta ne riconoscerà solo cinque. Nel 1995, ormai stanco, braccato, e con decine di processi a suo carico, si pente e contribuisce a smantellare la sua banda con centinaia di arresti. Nel maggio 1998, due anni dopo il processo d’appello, viene arrestato di nuovo, per scontare una pena residua di quattro anni. Cambia nome, sconta la condanna in una località segreta e dallo Stato, in linea con il suo stravagante e sregolato stile di vita, “Faccia d’angelo” riceve un trattamento economico di tutto rispetto e la possibilità di risiedere con la famiglia in una lussuosa villa. Ma lo status di collaboratore di giustizia gli va stretto e così Maniero nel marzo del 2000, dopo essere stato sorpreso in pubblico al volante di lussuosa auto sportiva, perde i benefici del programma di protezione. Intanto, tra cumoli e sconti legati alla scelta di collaborare, gli anni da scontare in carcere diventano 17. Passa qualche anno, dentro e fuori, e arrivano per lui altri benefici e permessi speciali che lo avvicinano alla nuova vita. Nel febbraio 2006 il suo nome torna alla ribalta per il suicidio della figlia Elena di 31 anni. Per il boss è un colpo durissimo. Sa ormai di essere diventato “Maniero l’infame” e a caldo non crede che sua figlia si sia uccisa gettandosi da un terrazzo: «Volevano ammazzarmi - dichiarerà in quei giorni - ma non ci sono riusciti e se la sono presa con lei».
La carriera. Nel suo curriculum criminale spuntano decine di colpi, alcuni storici per le modalità con cui furono portati a termine, come la rapina miliardaria ai danni del Casinò del lido di Venezia nel 1984 e quella compiuta all'aeroporto “Marco Polo” di Tessera, dove Maniero e i suoi riuscirono a impadronirsi di un carico di 170 chili d'oro. Ma anche la rapina al treno Milano-Padova, a Vigonza nel 1990, nel corso della quale morì una giovane di Conegliano, e quella della reliquia del mento di Sant'Antonio nella basilica di Padova del 1991. In Veneto, lui e la sua banda di 142 affiliati strutturata come una vera e propria organizzazione verticistica, lasceranno dietro di loro anche una lunga scia di sangue: 17 omicidi compiuti tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. La sua figura ha ispirato libri, sceneggiature e siti internet che ne narrano, ancora oggi, le gesta e i crimini. Un personaggio stravagante, basti ricordare quanto accadde nel 1994, nel corso del processo d’appello a Venezia, quando gli fu servito, nella gabbia dove assisteva alle udienze, un piatto di spaghetti all'astice e un bicchiere di prosecco. Come tutti i boss mafiosi anche Felice Maniero nella sua città natale, Campolongo, diecimila abitanti in provincia di Venezia, aveva fatto costruire una faraonica e lussuosa villa con piscina - oggi non più simbolo della sua potenza ma incubatoio per giovani imprenditori e giardino della legalità - e amava trascorrere le vacanze sul suo yacht “Lucy” a bordo del quale nel 1993 fu anche arrestato mentre era a Capri.
L’avvocato. «Forse non è un uomo nuovo, ma di sicuro è una persona che ha riflettuto con intelligenza sugli ultimi 35 anni trascorsi tra carcere, latitanze, soggiorni obbligati e restrizioni». Ha affermato lo scorso 22 agosto, all’Ansa, il legale di “Faccia d’angelo”, Gian Mario Balduin: «Maniero è una persona molto provata. Si è pentito per quello che ha fatto? - prosegue il legale - dobbiamo capire cosa si intende con la parola pentito. Dal punto di vista giuridico certamente sì, da quello pratico lo sa solo lui. Di sicuro è una persona molto intelligente che avrà avuto modo di riflettere sul proprio passato. Nulla cambierà in concreto nella vita di Maniero, nessun futuro diverso da quello costruito in questi lunghi anni sembra attenderlo - ha concluso l’avvocato Balduin - oltre la porta virtuale della fine dei suoi conti con la giustizia».
L’investigatore. «Sensibile e nello stesso tempo cinico, apparentemente autonomo nelle decisioni ma fortemente condizionato dalle figure femminili della sua vita, in particolare dalla madre». Lo ricorda così, invece, il sostituto commissario Michele Festa, oggi investigatore della squadra mobile di Verona che nel 1994, quando era alla Criminalpol di Venezia, arrestò Maniero a Torino dopo la rocambolesca evasione dal carcere di Padova. Il boss quella volta, trovandosi davanti il poliziotto che lo stava per arrestare, se ne uscì dicendo: “Ancora tu? Non dovevamo vederci più?”. «Una persona complessa - ricorda Festa - tutto quello che Maniero ha fatto nel suo passato non è mai stata una sua decisione autonoma, ma sulla spinta di altri, le donne soprattutto. Lo conobbi nel 1992 quando da Avellino fui trasferito alla questura di Venezia e il mio battesimo investigativo l'ho avuto con lui. Non ricordo abbia mai manifestato alcun rancore nei miei confronti e mai lo fece con altri, a parte due investigatori – conclude il sostituto commissario - che riteneva corrotti».
L’intervista. «Facevo crescere i miei crimini nello stesso modo in cui gli industriali facevano crescere le loro fabbriche. 
Avevo fatto per tutta la vita l’imprenditore del male». Nel 1997, a pentimento avvenuto, “Faccia d’angelo” aveva risposto così all’ultima domanda che Luciano Scalettari di Famiglia Cristiana gli aveva posto nel corso di una lunga intervista. Oggi Felice Maniero ha cambiato vita e - si spera - anche ramo d'affari.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 12 settembre 2010 [pdf]

Solo lui conosceva quanti e quali erano gli indicibili segreti di Stato che, alla fine, si è portato fin dentro la tomba. Francesco Cossiga, l’ex tutto, che non a caso in Senato sedeva nello scranno numero 007, se n’è andato a modo suo, il 17 agosto, quasi sbattendo la porta in faccia a tutti e lasciando, all’Iddio, il compito di proteggere l’Italia. Del resto in quale altro modo interpretare la scelta di tenere fuori dal suo funerale tutte le cariche dello Stato, nessuna esclusa. Tranne pochi altri, come loro, quelli senza volto e senza nome: i suoi fedeli figliocci dei corpi speciali.

E i segreti? I segreti - cioè tutto quello che ancora non sappiamo su più o meno mezzo secolo di storia repubblicana - se li è portati via con sé. Forse, visto il soggetto, quelli non li ha rivelati proprio a nessuno: perché un segreto di Stato è tale, è tale deve rimane. O magari, come amano pensare in rete gli amanti della dietrologia, quelle quattro lettere indirizzate alle più alte cariche dello Stato contenevano anche quelli. Oppure i suoi fedeli “apparati” dell’intelligence, un attimo dopo, su sua precisa indicazione, hanno raccolto il suo archivio e se lo sono portato via. Perché, spie e segreti, erano sì la sua passione, ma anche la sua ossessione. ...continua a leggere "Storia di un picconatore"