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raiLa notizia è passata, in sordina, senza la necessaria traduzione, ed è una di quelle che lasciano qualche dubbio e fanno storcere il naso ai più maligni. Ricapitolando: alla Rai, Radio Televisione Italiana, c’è un nucleo di dipendenti, forse in gran parte giornalisti, dotato di un particolare nulla osta di sicurezza (il Nos) rilasciato dai Servizi segreti. L’élite di operatori della tv pubblica avrebbe il compito di vigilare sulle informazioni ritenute vitali per l’integrità dello Stato. Di questo gruppo di dipendenti, tuttavia, se ne sa davvero poco: non si sa quanti sono, forse una cinquantina; non si conoscono i loro nomi; non si sa quanti di essi sono giornalisti e né cosa facciano esattamente all’interno dell’azienda. In Rai esiste un ufficio - questo è certo -, detto “Punto di controllo Nato-Ueo” e la conferma, a qualche anno dalle prime indiscrezioni, l’ha fornita recentemente il Governo, anche se scarna nei contenuti.
Che cos’è il Nos. Il nulla osta di sicurezza autorizza una persona fisica o giuridica a trattare informazioni classificate. Lo rilascia, ed eventualmente lo revoca, l’Ufficio centrale per la segretezza del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis). Il Nos ha più livelli e viene rilasciato “sulla base di un accertamento dell’affidabilità dell’interessato”, in termini di fedeltà alle Istituzioni della Repubblica, alla Costituzione e ai suoi valori, nonché di rigoroso rispetto del segreto. Il nulla osta può essere rilasciato ai dipendenti di amministrazioni o enti pubblici e alle imprese che intendano operare in settori che comportano la trattazione di informazioni classificate o che implicano il ricorso a speciali misure di sicurezza.
L’interrogazione. La circostanza, secondo cui a viale Mazzini esisterebbe un gruppo di dipendenti Rai dotati di Nos, è circolata negli ambienti giornalistici per qualche anno ma nessuna conferma, finora, era mai giunta, anzi erano piovute solo smentite. Dopo l’uscita dei primi articoli, in particolare, l’allora direttore generale della Rai, Felice Cappon, si precipitò a smentire il chiacchiericcio, arrivando, nel luglio del 2007, a negare ufficialmente l’esistenza di tale “nucleo” fin davanti alla commissione di Vigilanza. Poi, un anno dopo, un deputato, il radicale Maurizio Turco, presentò un’interrogazione alla Camera, per capire meglio di cosa si trattava, non contento delle parole, forse poco convincenti, di Cappon. L’interrogazione era diretta al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro delle Comunicazioni. «Da notizie di stampa - interrogava Turco - si apprende quanto segue: (in Rai, ndr) sarebbe attivo un Organo esecutivo di sicurezza, alle dirette dipendenze del Ministero delle comunicazioni, con il compito di “vagliare” le notizie da diffondere; di questa struttura farebbero parte circa 50 giornalisti che avrebbero il potere di autorizzare il nulla osta di sicurezza sulla divulgazione di notizie sulle reti della tv pubblica; la rivelazione dell'esistenza di un organo preposto alla tutela del segreto di Stato in Rai, sarebbe stata fatta la settimana scorsa, durante una riunione dell'Autorità nazionale per la sicurezza, da parte del rappresentante del dicastero delle Comunicazioni (all’epoca era Paolo Gentiloni, ndr) dal cui Organo centrale di sicurezza dipenderebbe la struttura di viale Mazzini».
La conferma. Passano due anni da quell’interrogazione e una conferma, alla fine, arriva ed è pure ufficiale. È vero, il nucleo esiste e si chiama proprio così: “Punto di controllo Nato-Ueo”. Ha comunicarlo alla Camera, per conto del Governo, il 27 aprile scorso, è stato il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito. La notizia, seppur scarna, passa in sordina: esce su un paio di quotidiani e nessuno la approfondisce. Il Governo, parlando della particolare struttura, minimizza ma non smentisce: «Il ministero dello Sviluppo economico, appositamente interpellato dall’Ucse - scrive Palazzo Chigi alla Camera - ha confermato che i compiti del “Punto di controllo Nato-Ueo” istituito in ambito Rai sono esclusivamente quelli di verifica ed attuazione delle misure volte alla tutela delle informazioni classificate. Il nulla osta di sicurezza - prosegue la nota della presidenza del Consiglio - viene rilasciato ai dipendenti Rai in ragione dell’espletamento di incarichi di natura amministrativa e non riguarda, quindi, l’attività di giornalista».
La nota della Rai. Il successivo 7 maggio le agenzie battono la nota della direzione generale della Rai, sollecitata anche dall’Usigrai a fornire spiegazioni in merito “ad alcune illazioni sulla presenza dei servizi segreti” tra le mura di Saxa Rubra. «In Rai opera dagli anni '60 un “Punto controllo Nato/Ueo” - precisa anche la Direzione risorse umane e organizzazione di viale Mazzini - in quanto l'azienda è titolare di servizio pubblico. Il "Punto" opera in attuazione di provvedimenti legislativi per la sicurezza nazionale. La Rai è impegnata a garantire la funzionalità delle sue capacità trasmissive e il suo possibile uso da parte dello Stato in casi di emergenza civile e militare. Per questi motivi attraverso il punto controllo Nato/Ueo è previsto il rilascio della qualifica Nos ad alcuni direttori per le loro funzioni gestionali e operative. Tale attività è strettamente limitata ai compiti istituzionali previsti dalle normative e non ha mai riguardato - conclude la nota - l'informazione e le notizie da diffondere da Telegiornali, Giornali Radio e Reti della Rai».
La legge e il caso “betulla”. Detto questo, vale la pena rileggersi alcuni articoli della legge 124 del 3 agosto 2007 con cui è stato riformato il sistema dei Servizi segreti italiani e dai cui sono nati il Dis e le due nuove agenzie di Intelligence: l’Aisi (ex Sisde) e l’Aise (ex Sismi). In particolare gli articoli che riguardano la categoria dei giornalisti sono due: l’articolo 17 comma 5, che specifica che i Servizi non possono operare attività d’indagine e analisi “nei confronti di giornalisti professionisti iscritti all'albo”. E l’articolo 21 comma 11 che specifica che in nessun caso “il Dis e i servizi di informazione per la sicurezza possono, nemmeno saltuariamente, avere alle loro dipendenze o impiegare in qualità di collaboratori o di consulenti giornalisti professionisti o pubblicisti”. In sintesi i Servizi non possono né condurre attività d’indagine sui giornalisti né arruolarli. La cronaca recente, tuttavia, - oltre a raccontare dell’esistenza in Rai di un “nucleo” di dipendenti che proprio dal Dis ha ottenuto uno specifico nulla osta di sicurezza - narra anche di cronisti che hanno avuto rapporti con l’Intelligence e di altri che si sono ritrovati, invece, spiati. Stiamo parlando - per esempio - del caso di Renato Farina, meglio conosciuto come la fonte “betulla”. L’ormai ex giornalista, oggi deputato del Pdl, ha ammesso di aver collaborato, quando era vicedirettore di Libero, con il Sismi, fornendo informazioni e pubblicando notizie false in cambio di denaro. Per questo episodio - che si è intrecciato sia con lo scandalo dei dossier Telecom che con il sequestro dell’imam Abu Omar - Farina fu radiato dall'Ordine, perché, come abbiamo visto, un giornalista non può lavorare per i Servizi segreti. Il caso “betulla” è altra cosa, ovviamente. Ma alla luce di quanto è emerso tra le mura della Rai è legittimo chiedersi se sia legale o meno che alcuni giornalisti abbiamo ottenuto un Nos quando una legge vieta a questa categoria di maneggiare notizie segrete e avere rapporti, di ogni tipo, con gli apparati di sicurezza.
Il caso Ilaria Alpi. Torna alla memoria, poi, una brutta storia, che riguarda direttamente l’attività della Rai e lo zampino delle “barbefinte”. In questa storia c’era e c’è il forte sospetto che gli apparati dell’Intelligence, e non solo, abbiano giocato sporco, ficcando pesantemente il naso nell’attività giornalistica. Il 19 marzo 1994 la giornalista, inviata del Tg3, Ilaria Alpi e il suo operatore, Miran Hrovatin, sono in Somalia, dove opposte fazioni combattono per il controllo dei traffici illegali e del territorio. Il contingente italiano sta ormai abbandonando Mogadiscio e la missione Onu e in questo scenario, di guerra, i due inviati del servizio pubblico stanno facendo il loro lavoro. Ilaria e Miran partono da Bosaso in aereo verso Mogadiscio, hanno raccolto interviste, testimonianze, in particolare quella del sultano Abdullahy Moussa Bogor, e immagini, tante. Lavorano da tempo a una pista molto delicata: le navi regalate dalla Cooperazione internazionale alla Somalia sospettate di trasportare, con coperture anche nell’intelligence, armi e rifiuti tossico nocivi. Alle 15,10 scatta l'agguato. L'auto con a bordo la Alpi e il suo operatore viene bloccata da una jeep. Un proiettile sparato a distanza ravvicinata da un killer sfonda il parabrezza e colpisce Miran alla testa. Un altro raggiunge la parte superiore della nuca di Ilaria. È un'esecuzione. Qualche ora dopo, tra gli effetti personali riconsegnati alla famiglia di Alpi, risulteranno mancanti 3 dei 5 taccuini trovati nella stanza dove la giornalista alloggiava a Mogadiscio, la sua macchina fotografica e alcune videocassette betacam. Un giornalista e un operatore della televisione svizzera italiana filmeranno le operazioni di preparazione dei bagagli di Ilaria Alpi, per lasciarne traccia, e testimonieranno di aver visto, in quella stanza d’albergo, una ventina di cassette, non le sei che giungeranno a Roma. Poche, ma importanti tracce di quanto la Alpi aveva scoperto, restano solo negli appunti trovati sulla sua scrivania nella redazione del Tg3, a Saxa Rubra, tra questi uno: “1400 miliardi di lire: dove è finita questa impressionante mole di denaro?”. La storia di Ilaria Alpi racconta anche una lunga serie di depistaggi, che non hanno ancora permesso alla magistratura di scoprire la verità. Racconta anche del ruolo, assai discutibile, che ebbe il Sismi in questa vicenda e di quanto accadde sul volo che riportava la salma della giornalista a Roma. È lì, su quell’aereo, che secondo gli inquirenti una “manina” avrebbe sottratto da quei bagagli le videocassette e i taccuini della giornalista. Di certo si sa solo che i due giornalisti svizzeri portarono tutti gli oggetti dall’albergo alla nave Garibaldi dove i militari fecero l'inventario. Nella lista compaiono anche i 5 block notes della Alpi, ma in Italia ne arriveranno soltanto 2, senza appunti. I bagagli, prima di essere spediti in aereo insieme alle salme, furono sigillati e piombati. L’aereo fece scalo a Luxor, dove ad aspettare le bare c'era una delegazione della Rai e le immagini di quella breve cerimonia raccontano che i bagagli arrivarono lì ancora piombati, ma a Roma la piombatura non c'era più. Se ne occuparono direttamente i Servizi o chi altro? Le informazioni che Ilaria Alpi aveva raccolto in Somalia e le immagini filmate da Miran Hrovatin - per dirla tutta - erano per caso ritenute lesive per l’integrità dello Stato?

 di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 27 maggio 2010 [pdf]

Ormai a Palermo i magistrati dell’antimafia sono abituati a convivere con i pezzi mancanti e le prove misteriosamente scomparse. Ogni inchiesta ricorda almeno un caso del genere e recentemente anche un cronista di Repubblica, Salvo Palazzolo, ha provato a elencarli in un libro. Ma a quelli finora noti se ne è aggiunto un altro, meno conosciuto, rispetto, per esempio, all’agenda rossa sottratta dalla borsa del giudice Paolo Borsellino il giorno che saltò in aria in via d’Amelio.

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martelli«Avemmo la sensazione che tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino ci fossero rapporti stretti ma se avessi avuto sentore che c'era una trattativa in corso tra pezzi dello Stato e la mafia, avrei fatto l'inferno». Claudio Martelli nell’estate del '92, a cavallo tra gli eccidi di Capaci e di via D’Amelio, era a conoscenza che c'erano in corso contatti “anomali” per fermare le stragi tra alcuni ufficiali del Ros e l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino.
L’ex ministro socialista lo ha confermato l’8 aprile, diciotto anni dopo quella stagione di sangue in un’aula di tribunale, incalzato dalle domande dei pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. Ha parlato per due ore, in qualità di testimone, al processo in corso a Palermo contro il generale del Ros, Mario Mori, e il colonnello Mauro Obinu, entrambi accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano, nell'ottobre del ’95, a Mezzojuso. L'ex Guardasigilli conferma che venne a conoscenza che gli ufficiali dell’Arma erano in contatto con Ciancimino, già a fine di giugno del '92, quando l'allora direttore degli Affari penali, Liliana Ferraro, gli riferì quello che aveva appreso parlando con il capitano del Ros, Giuseppe De Donno.
«La Ferraro - ha aggiunto Martelli deponendo al processo - mi raccontò di avere invitato De Donno a rivolgersi a Borsellino. Praticamente la Ferraro mi fece capire che il Ros voleva il supporto politico del ministero a questa iniziativa. Io mi adirai - ha aggiunto Martelli - perché trovavo una sorta di volontà di insubordinazione della condotta dei carabinieri. Avevamo appena creato la Dia, che doveva coordinare il lavoro di tutte le forze di polizia e quindi non capivo perché il Ros agisse per conto proprio». Martelli, rispondendo alle domande dei pm palermitani, si infuria ancora oggi e tira in ballo anche l’allora ministro dell’Interno (Nicola Mancino, che però nega) da lui stesso informato di quanto aveva appreso dalla Ferraro. «Nell'ottobre del 1992 - prosegue il racconto di Martelli - Ferraro mi disse di avere visto De Donno e che questi le aveva chiesto di agevolare alcuni colloqui investigativi tra mafiosi detenuti e il Ros e se c'erano impedimenti a che la procura generale rilasciasse il passaporto a Vito Ciancimino. Dare credibilità a Ciancimino - ha aggiunto - per cercare di catturare latitanti era un delirio. Per questo chiamai l'allora procuratore generale di Palermo Bruno Siclari esprimendogli la mia contrarietà alla storia del passaporto». In soldoni il Ros, secondo Martelli, agiva di testa propria e senza l’avallo della procura per mera presunzione: «Non ho mai pensato che Mori e De Donno fossero dei felloni, ma che agissero di testa loro. Che avessero una sorta di presunzione o orgoglio esagerato. Sono convinto che lo scopo del Ros, fermare le stragi, fosse virtuoso ma che il metodo usato - ha aggiunto Martelli -, contattare Ciancimino senza informare l'autorità giudiziaria, fosse inaccettabile».
Tuttavia Nicola Mancino, attuale vice presidente del Csm, pochi minuti dopo la fine dell’udienza in cui ha testimoniato Martelli, nega all’Ansa di essere stato informato dall’ex Guardasigilli dei contatti tra Ros e Ciancimino: «Né Martelli né altri mi parlò mai di contatti con Ciancimino - afferma Mancino. Ho sempre escluso, e coerentemente escludo anche oggi, che qualcuno, e perciò neppure il ministro Martelli, mi abbia mai parlato della iniziativa del colonnello Mori del Ros di volere avviare contatti con Vito Ciancimino. Ribadisco che, per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell'Interno, nessuno mi parlò mai di possibili trattative con la mafia». Le parole di Mancino non sono una novità. In diverse occasioni ha detto che lo Stato non trattò ma, di quella torbida stagione, nega anche un’altra circostanza: l’incontro con il giudice Paolo Borsellino che ci sarebbe stato proprio il giorno del suo insediamento al Viminale (il 1 luglio ’92). Il giudice quella mattina, mentre negli uffici romani della Dia stava raccogliendo le confessioni del pentito Gaspare Mutolo, ricevette una telefonata e sospese l’interrogatorio per recarsi, pare, proprio al Viminale a incontrare Macino. Quando tornò da quell’incontro, come confermò anche Mutolo, Borsellino era visibilmente agitato tanto da mettersi in bocca due sigarette contemporaneamente. Mancino, fino a oggi, non ha negato la possibilità che l’incontro sia potuto avvenire ma ha sempre ribadito di non ricordare se “tra gli altri giudici che venivano a omaggiarlo per la sua nomina” ci fosse stato anche Paolo Borsellino. Strano o, quantomeno, anomalo.
Dalla deposizione di Martelli emerge, poi, un’altra misteriosa circostanza, legata alla cattura del boss Totò Riina: «Il generale dei carabinieri Francesco Delfino, nell'estate del '92, vedendomi preoccupato, - ha aggiunto l’ex ministro della Giustizia rispondendo ancora alle domande dei pm Ingroia e Di Matteo - mi disse che dovevo stare tranquillo perché mi avrebbero fatto un bel regalo di Natale e aggiunse che Riina me lo avrebbero portato loro». Il generale Delfino, di fatto, diede a Martelli una notizia vera perché il capo dei capi fu catturato dal Ros dopo Natale, il 15 gennaio ’93, grazie alle confidenze, raccolte dallo stesso alto ufficiale, di Balduccio Di Maggio. «Per quanto riguarda la vicenda dell’arresto di Riina - dice a Il Punto Claudio Martelli - ricordo perfettamente di aver ricevuto una telefonata da parte dell’allora sindaco di Milano, Aldo Aniasi, in cui mi chiedeva di incontrare un suo amico generale dei carabinieri che a suo dire doveva riferirmi delle cose importanti. Così, qualche tempo dopo, incontrai Delfino e in quella circostanza mi informò che Riina stava per essere arrestato. Queste cose - aggiunge l’ex ministro della Giustizia - le ho raccontate solo ora perché solo ora sono stato chiamato a deporre in un processo. Nell’estate del ’92, lo ripeto, segnalai a chi di competenza che a mio avviso il Ros stava tenendo un comportamento anomalo, ma in quel momento non potevo sapere che fosse il preludio di una trattativa. Con Mancino - aggiunge Martelli - non parlai della trattativa, non avevo elementi per pensare questo, lo informai solo degli “anomali” contatti che c’erano in corso tra alcuni ufficiali del Ros e l’ex sindaco Ciancimino. Mi sembrava assurdo che i carabinieri agissero di propria iniziativa, senza informare né la magistratura né la Dia, che era stata appena creata per coordinare l’attività investigativa. Non parlai con lui di una possibile trattativa tra Stato e mafia, su questo aspetto ha ragione, ma lo informai certamente di quanto avevo appreso dalla Ferraro, così come informai il capo della Dia e quello della polizia. Il colloquio avvenne tra la fine di giugno e i primi di luglio, quindi subito dopo la sua nomina a ministro dell’Interno e - chiosa l’ex Guardasigilli socialista - certamente prima della strage di via D’Amelio».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 22 aprile 2010 [pdf]

denise pipitoneOgni ora ne scompare uno, per scelta o perché è vittima di un reato, ma nell’ottanta per cento dei casi nessuno sa dire che fine ha fatto e perché se n’è andato. Dal 1° gennaio ‘74 al 31 ottobre dello scorso anno le persone scomparse in Italia, ancora da rintracciare, sono 25.871. Di questi: 10.755 sono cittadini italiani; 15.103 quelli maggiorenni; 60 (di cui 11 minorenni) le possibili vittime di reato. I minori scomparsi sono 10.768, di cui 1.994 di nazionalità italiana. Le regioni dove il fenomeno continua ad assumere particolare rilievo sono il Lazio (6.479 casi), la Lombardia (3.490), la Campania (3.198), la Sicilia (2.382) e il Piemonte (1.859).
È un fenomeno in preoccupante crescita, quello degli scomparsi, e confrontando le statistiche c’è da segnalare anche un incremento, poco confortante, tra il 2008 e il 2009, di oltre 1.300 casi. È il primo dato che salta all’occhio leggendo la quarta relazione semestrale redatta dal prefetto Michele Penta, Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse. Nell’ottanta per cento dei casi (20.677) non si conosce la motivazione che li ha spinti ad allontanarsi da casa e dai propri affetti. I casi accertati, per fuga volontaria, sono 2.631; 1.775 per allontanamento da istituto o comunità; 134 sottrazioni da parte di un coniuge o di un altro congiunto. Solo nel due per cento dei casi (594) - dice il Commissario nell’ultima relazione trasmessa al Viminale - è stata accertata l'esistenza di possibili disturbi psicologici.
Fino a qualche giorno fa, in questo interminabile elenco, c’era anche il nome di Elisa Claps, 16 anni, scomparsa nel nulla da Potenza la mattina del 12 settembre '93. Stava passeggiando in centro con una sua amica, a cui aveva detto di doversi allontanare qualche minuto per incontrare Danilo Restivo, un ragazzo, poco più grande di lei, che la sera prima gli aveva dato appuntamento vicino la chiesa della Santissima Trinità. Da quel momento - come racconta la scheda dedicata a questo caso da “Chi l’ha visto?” - nessuno ha avuto più notizie di Elisa. Anni di indagini, colpi di scena, segnalazioni che giungevano da ogni angolo del mondo, anche da Argirocastro, un villaggio sperduto sulle montagne del sud dell'Albania. Gli inquirenti non credono al racconto di Restivo, troppe cose non combaciano, lo arrestato nel ’94, quattro anni dopo la Corte d’Appello lo condanna anche per false dichiarazioni al pm. Nel ’99 c’è un altro colpo di scena che, però, non porta da nessuna parte, l’ultimo prima che questa storia finisca nel peggiore dei modi: nella casella postale del sito dedicato alla scomparsa della ragazza giunge un messaggio nel quale si afferma che Elisa sta bene, si trova in Brasile, non vuole tornare in Italia e non vuole rivedere i suoi familiari. Ma quell’e-mail, accerteranno gli inquirenti, partì da un pc installato in un bar di Potenza. La svolta sul caso è recentissima: Elisa Claps è stata uccisa, non si è mai mossa da Potenza. Il suo corpo è rimasto per diciassette anni nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, a due passi da dove era scomparsa, e a trovarlo lì, il 17 marzo scorso, sono stati alcuni operai che in seguito ad un'infiltrazione d’acqua stavano effettuando dei lavori. Ora le indagini dovranno chiarire chi l’ha uccisa dopo averla violentata.
Un altro mistero irrisolto, un altro nome che compare nell’elenco dei 25.871 missing, è quello della piccola Angela Celentano, 3 anni, scomparsa nel nulla il 10 agosto ’96 mentre, insieme ai suoi genitori, partecipava alla gita annuale della Comunità Evangelica di Vico Equense, sul Monte Faito in provincia di Napoli. Intorno alle 11 il padre si accorge che la piccola Angela non è più lì intorno a giocare, un bambino racconta di essere sceso insieme a lei, poco prima, per il sentiero che porta al parcheggio, per posare in macchina il suo pallone. Ma lei non torna indietro e scompare, proprio tra quei sentieri. Il caso Celentano, così come tanti altri, a distanza di quattordici anni è tuttora irrisolto.
È il 1° settembre 2004, siamo a in provincia di Trapani, a Mazara Del Vallo. Una bambina di 4 anni, Denise Pipitone, sta giocando sul marciapiede davanti alla porta di casa e intorno a mezzogiorno anche lei scompare nel nulla. Denise la cercano in tutto il mondo, prima di arrivare a una terribile conclusione: per gli inquirenti è stata rapita da Jessica Pulizzi, oggi sotto processo davanti al Tribunale di Marsala, con l’accusa di concorso in sequestro di minore, insieme all'ex fidanzato, il tunisino Gaspare Ghaleb. La ragazza avrebbe rapito la sorellastra per vendetta e gelosia, perché la sua nascita sarebbe frutto di una relazione extraconiugale del padre.
L’elenco dei minori scomparsi è lungo e le storie, tutte tristemente simili, non sempre finiscono in prima pagina. Ci sono quelle delle due quindicenni cittadine vaticane, scomparse a Roma nella primavera del ’83: Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi. Ma anche altre decine di nomi di bambini che nessuno ricorda più: Santina Renda (6 anni, scomparsa a Palermo il 23 marzo ‘90); Pasqualino Porfidia (8 anni, Marcianise, 7 maggio ‘90); Adriana Benedetta Roccia (2 anni, Cetraro, 10 giugno ‘90); Mariano Farina e Salvatore Colletta (12 anni entrambi, scomparsi da Casteldaccia il 31 marzo ‘92); Simona Floridia (17 anni, Caltagirone, 16 settembre ‘92); Angela Ponte (14 anni, Siracusa, 2 gennaio ‘93); Domenico Nicitra (10 anni, Roma, 21 giugno ‘93).
Un altro dato, molto significativo, è riferito al numero di cadaveri non ancora identificati. Al 30 novembre - afferma la stessa relazione del Commissario del Governo - sono 785 i corpi senza un nome conservati nelle celle frigorifere degli istituti di medicina legale italiani, di questi 126 sono stati recuperati in mare e nessuno, finora, è riuscito ad attribuirgli un’identità. Dal ‘95 un pool di esperti del Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia dell'Istituto di Medicina legale dell'Università di Milano) tenta di dare un’identità a questi corpi. Mettono insieme decine di indizi, studiano ogni singolo caso dall'epoca della morte, comparano le differenza fra lesività perimortali e post-deposizionali, ricostruiscono il profilo biologico di resti umani tramite la diagnosi di sesso, età, statura, razza, patologie e segni occupazionali. Un vero e proprio rompicapo, che passa anche per la ricostruzione cranio-facciale e l'identificazione dei resti con tecniche di ricostruzione dattiloscopica e di sovrapposizione computerizzata. Un lavoro necessario, perché proprio da un sondaggio compiuto dal Labanof in dodici istituti di medicina legale è risultato che negli ultimi cinque anni su 366 soggetti “sconosciuti” negli obitori ne rimangono ancora 130 senza un nome.
Sono quattro (due alla Camera e due al Senato) le proposte legislative avanzate dai vari gruppi parlamentari per fare fronte al fenomeno degli scomparsi e dei cadaveri senza nome. L'iter avanza, da due legislature, assai lentamente, come nel caso della proposta al vaglio della Commissione Affari costituzionali del Senato che prevede la costituzione di una banca dati centrale del Dna degli scomparsi, di un’anagrafe degli obitori, di numeri verdi per fornire notizie e, soprattutto, l’avvio immediato delle indagini dopo una sparizione. Il Partito democratico, sull’onda del caso Claps, ha chiesto che il testo unico messo a punto dal relatore Filippo Saltamartini (Pdl) venga approvato a Palazzo Madama subito dopo Pasqua con la corsia preferenziale della commissione deliberante. Quattro articoli in tutto. Il primo riguarda la denuncia di persone scomparse e prevede che chiunque ne abbia notizia possa informare la polizia giudiziaria per l'avvio delle ricerche. La segnalazione viene trasmessa immediatamente alla questura o al comando dei carabinieri oltre che al Prefetto. Per coordinare l'attività di ricerca viene istituito al ministero dell'Interno il Comitato per il coordinamento delle iniziative di ricerca delle persone scomparse presieduto da un commissario nominato dal Consiglio dei ministri. Il commissario assicura il monitoraggio dei casi e la valutazione dello stato delle ricerche e riferisce annualmente al Viminale, come fa attualmente il Commissario straordinario. La proposta prevede anche l’attivazione di un sistema informativo integrato per la ricerca degli scomparsi (il Risc), in parte già avviato presso il Dipartimento della pubblica sicurezza, in grado di catalogare anche i cadaveri non identificati. Il testo messo a punto da Saltamartini prevede, infine, anche permessi retribuiti per i familiari che sono costretti ad allontanarsi dal posto di lavoro (sia pubblico che privato) perché un loro congiunto è scomparso. Un’altra proposta, presentata dal senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, prevede l'istituzione della banca dati nazionale dei campioni di Dna. Delle proposte depositate alla Camera, ce n’è anche una bipartisan, prima firmataria di Rosa Villecco Calipari (Pd), sottoscritta anche da Idv, Udc e Pdl. Il testo prevede, tra l'altro, l'istituzione di un numero verde ma anche quella di un ufficio centrale degli obitori per favorire la rapida identificazione di cadaveri.

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