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pier-paolo-pasolini«Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno gli indizi». Trentacinque anni dopo la morte di Pier Paolo Pasolini, parafrasando il suo celebre “Romanzo delle stragi”, una nuova inchiesta giudiziaria potrebbe spingere la Procura di Roma a cercare nuove prove e nuovi indizi e a rimettere tutto in discussione. Per la giustizia, quella notte tra l’1 e il 2 novembre ’75 all’Idroscalo di Ostia, l’intellettuale fu ucciso da Giuseppe Pelosi, detto “Pino la Rana”, reo confesso, condannato in via definitiva nel ’79, per omicidio volontario in concorso con ignoti, a 9 anni e 7 mesi. Per molti dietro l’uccisione di Pasolini ci sarebbe, invece, tutta un’altra verità e una lunga serie di interrogativi a cui la scienza, oggi, potrebbe addirittura dare delle inedite risposte.
I mille misteri. Un filo rosso legherebbe il delitto dello scrittore con le misteriose sorti del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, morto nell'incidente aereo di Bascapè il 27 ottobre ’62, e del giornalista Mauro De Mauro, assassinato dalla mafia a Palermo, il 16 settembre ’70, reo di indagare proprio sulla fine di Mattei. Questa è una delle tesi più accreditate che, tra l’altro, è fortemente legata ai contenuti di un capitolo del romanzo “Petrolio”, ancora inedito, mai concluso da Pasolini e mai pubblicato nelle varie edizioni postume, che sarebbe ricomparso, recentemente, nelle mani del senatore Dell’Utri. Prove e indizi sarebbero ancora da ricercare, anche con l’aiuto della scienza che in questi trent’anni ha fatto passi da gigante sulla scena del crimine e che - come nel caso della recente svolta nelle indagini sul delitto di via Poma - potrebbe clamorosamente rimettere tutto in discussione. Tutto da rivedere, daccapo, quindi, con un occhio al microscopio e l’altro anche alle indagine del pm Vincenzo Calia della Procura di Pavia sul sabotaggio dell’aereo di Mattei e l’uccisione di De Mauro.
Il ruolo di “Pino la rana”. Da rivedere, fin dall’inizio, poi, il ruolo di Pelosi che nel 2005 ritrattò tutto ai microfoni di “Ombre sul giallo” affermando, senza mezzi termini, che lui quella sera non partecipò in prima persona all'aggressione di Pasolini, ma che questa fu compiuta da tre persone a lui sconosciute. Pelosi, che all’epoca del delitto aveva 17 anni, si rimangia tutto eppure, quella notte, prima di finire in galera, raccontò agli inquirenti un’altra storia. Ripercorse quei terribili momenti, descrivendo minuziosamente come lui e il famoso regista - che fino ad allora non conosceva neanche per sentito dire - si erano incontrati vicino la stazione Termini. Raccontò come erano arrivati a Ostia, a bordo dell’Alfa 2000 GT di Pasolini, e come, poco dopo, Pino lo aveva massacrato, a bastonate, travolgendo con la sua stessa auto. “Interrogato - dice la Cassazione - Pelosi confessò di aver ucciso Pasolini, sostenendo di aver agito per legittima difesa, dopo essere stato aggredito per essersi rifiutato di sottostare a una prestazione sessuale”. Ma, di fatto, il primo a non vederci chiaro fu il giudice Alfredo Carlo Moro, fratello del presidente della Dc Aldo, che condannando in primo grado Pelosi, nel ’76, sottolineò che dalle indagini era emersa, in modo imponente, la prova che quella notte Pelosi non era solo. “Esistono infatti sia prove positive che dimostrano in modo inequivocabile - scrive il collegio Moro - che quanto meno un'altra persona era presente al fatto, sia elementi indiziari univoci e concordanti, desumibili dalle risultanze probatorie e peritali, che confortano tale tesi”.
Il pressing di Veltroni. «Sull'omicidio di Pier Paolo Pasolini, come per altri fatti della orribile stagione del terrore, si deve continuare a cercare la verità». Scrive l'ex segretario del Pd Walter Veltroni in una lettera aperta, diretta al ministro della Giustizia Angelino Alfano, pubblicata dal Corriere il 22 marzo scorso. L’esponente democratico sollecita la riapertura dell’inchiesta quattro giorni dopo aver presentato un’interpellanza alla Camera in cui chiedeva al ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi, di accertare un altro aspetto, altrettanto oscuro, che riguarda proprio la misteriosa esistenza dell’ultimo capitolo del romanzo “Petrolio”. Il titolo era “Lampi su Eni” e Pasolini pare l’abbia scritto, ma non ultimato, poco prima di essere assassinato, ma la bozza non si è mai trovata, forse fu addirittura trafugata dall’abitazione dello scrittore. Veltroni fa riferimento alle dichiarazioni rilasciate qualche giorno prima dal senatore Marcello Dell'Utri che, tuttavia, dice di aver letto quel capitolo a ridosso dell’inaugurazione (il 2 marzo) della Mostra del libro antico alla Permanente di Milano. Bondi conferma: «Dell'Utri ha avuto tra le mani e letto le 70 pagine del capitolo scomparso». Il ministro assicura anche che ci saranno accertamenti perché, va da sé, quel capitolo potrebbe fare chiarezza su temi rilevanti della storia recente. Ma a infittire il mistero sono le parole di Dell’Utri: «Ho sfogliato quel capitolo, - dice il senatore del Pdl all’Ansa - scritto su carta velina. Mi è stato mostrato; non l'ho potuto leggere. Aveva anche un titolo “Lampi su Eni”. Me lo ha portato una persona che non conosco. Credo che questa persona, visto il clamore, probabilmente eccessivo che il mio annuncio ha suscitato, si sia messo in allarme». Secondo alcuni studiosi quel manoscritto conterrebbe elementi inediti sulla morte di Mattei e De Mauro e perciò anche dello stesso Pasolini. Una tesi, quella che tra i tre fatti ci sia un legame, fortemente sostenuta anche nel libro inchiesta dei giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, “Profondo nero” (Chiarelettere, 2009).
Le nuove indagini. Restando ai dati di fatto, a quanto avvenne quella notte all’Idroscalo, una nuova indagine potrebbe ricostruire la scena del delitto, magari anche tornando ad analizzare il paletto con cui fu ripetutamente percosso Pasolini, i suoi vestiti, il plantare per scarpa destra ritrovato nell’auto del poeta, ma che a lui non apparteneva, così come un vecchio pullover verde. L’indagine si può riaprire, è una scommessa. Anche il penalista Nino Marazzita, avvocato della famiglia Pasolini insieme a Guido Calvi, ne è convinto: «Riaprire l'inchiesta - ha detto all’Ansa - sarebbe un primo passo, ma serve la volontà di accertare la verità. I dubbi e le ombre c'erano già al momento del processo a Pelosi. Era evidente già all'epoca la presenza di complici. Nel tempo le ombre sono aumentate e le richieste di riapertura del caso sono state tante. Alla luce ora delle nuove tecnologie disponibili, dall'esame del dna e a quello dei reperti, mi chiedo - chiosa Marazzita - perché non utilizzarle?». Eppure qualcuno, lo scorso anno, aveva già chiesto alla Procura di riaprire il caso Pasolini, in concomitanza con l’uscita del libro “Profondo nero”, e un fascicolo, di cui non se ne sa più nulla, alla fine fu aperto dalla pm Diana De Martino. Erano stati la criminologa Simona Ruffini e l'avvocato Stefano Maccioni a depositare la richiesta a piazzale Clodio. «Dobbiamo rilevare - dice Maccioni a Il Punto - che la nostra richiesta di riapertura delle indagini è stata condivisa dall'onorevole Veltroni anche sul piano dei contenuti. Ci auguriamo che le nuove notizie riguardanti il ritrovamento del capitolo di Petrolio, a opera del senatore Dell'Utri, possano finalmente portare gli inquirenti a effettuare i necessari riscontri sui reperti conservati al Museo criminologico di Roma».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 8 aprile 2010 [pdf]

Palermo, via Emanuele Notarbartolo. Le sedi “coperte” dei Servizi sono più o meno tutte uguali. Centrali, nascoste tra mille altre attività e tra le mura di edifici anonimi, che di solito sorgono vicino a importanti sedi governative. Uffici facilmente accessibili, spesso protetti da un portiere che sa tutto e che fa finta di nulla. Solitamente si nascondono dietro le insegne di finte agenzie assicurative oppure di inesistenti centri studio, associazioni culturali, istituti di cooperazione o di import-export. Sul campanello c’è scritto semplicemente “agenzia”, “studio”, “istituto” o la sigla di una delle tante Srl che le “barbefinte” utilizzano per coprire l’attività di spionaggio. ...continua a leggere "Le sedi “coperte” dei Servizi siciliani. Misteri palermitani sotto copertura"

Fu Franco Restivo, ex ministro democristiano degli Interni e della Difesa, a far incontrare Don Vito Ciancimino e il misterioso personaggio legato ai Servizi segreti conosciuto col nome di “Signor Franco”. Evocato spesse volte da Massimo Ciancimino nelle aule di tribunale, nei processi dove viene ascoltato dai giudici in qualità di testimone o di imputato di reato connesso, ma non solo. Il figlio di Don Vito, quel “Signor Franco” (spesse volte Signor Carlo), lo fa giocare in un ruolo chiave nelle più intricate vicende palermitane. ...continua a leggere "Stato-mafia, ora si punta al IV livello"

pietrino vanacore«Quando mai un suicida si getta in acqua con una corda che lo lega per le gambe?». Per l’ex senatore della Lega Erminio Boso, già vicepresidente del Copaco, Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile di via Poma, dove il 7 agosto ’90 fu uccisa con 29 coltellate Simonetta Cesaroni, sarebbe stato aiutato a uccidersi. Ma per gli inquirenti non ci sono dubbi: voleva morire. Il 12 marzo si sarebbe dovuto presentare davanti ai giudici della Corte d’Assise di Roma, dove si sta celebrando il processo all’ex fidanzato della Cesaroni, Raniero Busco. Vanacore, 78 anni, ha deciso di farla finita quattro giorni prima, l’8 marzo, gettandosi in mare, in provincia di Taranto dove da anni era tornato a vivere. Tre giorni dopo il delitto di via Poma diventò il sospettato numero uno dell'inchiesta sulla morte della 21enne ragioniera: fu arrestato con l'accusa di omicidio, ma in realtà gli inquirenti sospettavano che coprisse il vero assassino. Così, dopo un lungo interrogatorio, si aprirono per lui le porte del carcere, dove vi rimase per venti giorni. Pietrino raccontò che all'ora del delitto si trovava in un altro appartamento, a innaffiare fiori, ma nessuno confermò il suo alibi. Poi c’era quella macchia di sangue, sui suoi pantaloni, ma il Dna rimise tutto in discussione e il 16 giugno '93 venne prosciolto, decisione divenuta definitiva due anni dopo in Cassazione. Vent’anni dopo, Vanacore, non ce la faceva più e tutta la sua disperazione l’ha affidata a una serie di bigliettini dove ha scritto: “Vent’anni di sofferenze di sospetti portano al suicidio”. Dall’estate del ’90 il portiere non era più uscito dal tunnel del sospetto, per anni, infatti, il suo nome continuò a circolare insistentemente sui giornali, in tv e tra gli investigatori. Secondo la procura di Taranto, Vanacore, con “lucida follia”, avrebbe meticolosamente premeditato il suo suicidio. È morto per annegamento, come ha stabilito l'autopsia. Il corpo del portiere, ha spiegato l’anatomopatologo, sarebbe rimasto circa tre ore nello specchio di mare antistante il litorale di Torre Ovo. La dinamica, perciò, non lascia alcun dubbio: Vanacore ha legato a un albero una lunga corda, ha annodato l'altra estremità a una caviglia e si è immerso in mare a testa in giù, in un punto in cui l'acqua è alta poche decine di centimetri. Sua moglie, Giuseppa De Luca, - che quel 7 agosto consegnò alla sorella della Cesaroni le chiavi dell’ufficio dove, poco dopo, fu ritrovato il cadavere della ragazza - ha riferito ai carabinieri che suo marito ultimamente era molto amareggiato, soprattutto per la convocazione al processo. «Lo aveva infastidito - ha aggiunto sua moglie - soprattutto il fatto che avessero convocato anche nostro figlio Luca». L’enigmatico portiere se n’è andato portando con sé un bel po’ di misteri e, forse, anche un pezzo di verità su quanto accadde quel giorno in via Poma. Il suo spettro continuerà ad aleggiare nell’aula bunker di Rebibbia dove, venerdì scorso, la pm Ilaria Calò ha comunque sostenuto che il portiere fu il primo ad entrare in quell'appartamento dopo l'omicidio della Cesaroni. «Le chiavi sono uno snodo fondamentale in questa inchiesta - ha detto il pm -, Vanacore entrò per primo negli uffici dell'associazione Ostelli della Gioventù al terzo piano, trovando la porta socchiusa. Individuò il corpo della Cesaroni nella stanza del direttore. Pensando a un incontro clandestino effettuò tre telefonate al presidente degli Ostelli, Francesco Caracciolo, al direttore Corrado Carboni e al capo di Simonetta, Salvatore Volponi. Non allertò la polizia, prese le chiavi con il nastro giallo, che erano quelle di riserva per accedere agli uffici, e se ne andò - ha concluso la Calò - chiudendo l'ingresso».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 25 marzo 2010 [pdf]