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Un’ombra. Di lui si dice che potrebbe essere ancora in servizio, ma anche che sarebbe morto di tumore. Aveva, o forse ha ancora, il viso deforme: un volto sfigurato, orrendo, paragonabile solo a quello di un mostro. “Faccia da mostro”, così lo chiamano giù in Sicilia, e così lo ha chiamato recentemente anche Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, don Vito, quello del “papello” e della trattativa tra Stato e mafia su cui si indaga ancora. Dopo il super latitante Matteo Messina Denaro, “faccia da mostro”, oggi è il ricercato numero uno.
L’innominabile. Era un agente del Sisde, il servizio segreto civile (oggi Aisi, ndr). Era a Palermo. Nelle storie di mafia, “faccia da mostro”, c’è dentro fino al collo e a quanto pare gli inquirenti, che da anni lo cercano, non lo hanno ancora identificato. Forse a quel volto, di cui esisterebbe solo un confuso identikit, non si potrà mai dare un nome, perché quando qualcuno tenterà di svelarlo, come accade spesso, il segreto coprirà per sempre la sua identità. Il suo nome, anzi il suo soprannome, - legato a quelle inconfondibili caratteristiche del volto dovute, almeno così pare, a un tumore e a una lunga serie di interventi chirurgici - salta fuori la prima volta nell’89. Nessuno lo nomina, la sua identità non è mai stata svelata sulla stampa, ma tutti parlano di quell’uomo misterioso che, come un’ombra, entra ed esce dalle oscure vicende siciliane.
L’Addaura. La prima a parlare di lui è una donna che poco prima del ritrovamento di un ordigno vicino la villa di Giovanni Falcone, all’Addaura, lo notò da quelle parti, dentro un’auto, insieme a un altro individuo. La donna se lo ricorda proprio perché il suo volto era inguardabile. Era il 21 giugno 1989, Falcone aveva affittato per il periodo estivo quella villa sulla costa palermitana. Intorno alle 7.30 tre agenti di polizia trovano sugli scogli, a pochi metri dall’abitazione, una muta subacquea, un paio di pinne, una maschera e una borsa sportiva blu contenente una cassetta metallica. Dentro c’è un congegno a elevata potenzialità distruttiva composto da 58 candelotti di esplosivo. La bomba non esplode, l’attentato fallisce. Qualche ora dopo, in quella villa, Falcone doveva incontrare due colleghi svizzeri: il pm Carla del Ponte e il giudice istruttore Claudio Lehmann, in Sicilia per le indagini sul riciclaggio di denaro. La bomba era per loro. “Faccia da mostro”, dice la testimone, quella mattina era lì.
Il confidente. Ne parla anche la “gola profonda” Luigi Ilardo, il mafioso, cugino e braccio destro del boss Giuseppe “Piddu” Madonia, che nel ‘95 aveva messo sulle tracce di Bernardo Provenzano i carabinieri, ma un anno dopo gli tapparono per sempre la bocca. Ilardo confidò al colonnello Michele Riccio del Ros che a Palermo c’era un agente segreto con la faccia da mostro che frequentava strani ambienti, uno chiacchierato. Il confidente, parlando dello strano agente segreto, disse agli inquirenti: «Di certo questo agente girava imperterrito per Palermo. Stava in posti strani e faceva cose strane».
Le morti sospette. “Faccia da mostro” è legato anche a una lunga scia di sangue e di strane morti, come l’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castellucci, avvenuto il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Agostino dava la caccia ai latitanti, pare anche per conto del Sisde, e sembra avesse informazioni sul fallito attentato all’Addaura. Le indagini non hanno mai chiarito, fino in fondo, come sono andate le cose, però sembra che l’agente, poco prima di morire, avesse ricevuto in casa una strana visita, quella di un collega con la faccia deforme. A dirlo è suo padre, Vincenzo, che riferì agli inquirenti che un giorno notò “faccia da mostro” vicino l’abitazione del figlio. Vuole giustizia e cerca la verità da anni, Vincenzo Agostino, non si taglia la barba dal giorno in cui gli hanno ucciso il figlio e la nuora, che era incinta di cinque mesi. Per lui, quell’uomo, era l’inguardabile: «Quell’ uomo è venuto a casa mia, voleva mio figlio. Quel tizio non è soltanto implicato nei fatti di Capaci e di via D’Amelio, ha fatto la strage in casa mia, quella in cui sono morti - disse ai magistrati il padre di Agostino - mio figlio Nino, mia nuora e mia nipote. Due persone vennero a cercare mio figlio al villino. Accanto al cancello, su una moto, c’era un uomo biondo con la faccia butterata. Per me era faccia di mostro». Un altro pesante sospetto lega “faccia da mostro” a un altro delitto, quello dell’ex agente di polizia Emanuele Piazza. Il suo nome in codice era “topo”, collaborava con il Sisde, era amico di Nino Agostino, ma non era ancora un effettivo. Figlio di un noto avvocato palermitano, era un infiltrato e dava la caccia ai latitanti quando, il 15 marzo 1990, scompare nel nulla. Molti anni dopo si saprà che fu “prelevato” con un tranello dalla sua abitazione da un ex pugile, vecchio compagno di palestra, portato in uno scantinato di Capaci, ucciso e sciolto nell’acido. Cercava la verità sulla morte del suo amico Antonino Agostino, forse l’aveva anche trovata, e anche lui sapeva qualcosa sull’Addaura.
La trattativa. Poi, più recentemente, è Massimo Ciancimino, a parlare dell’agente segreto inguardabile e innominabile. Ciancimino junior, però, è in grado di fornire ai magistrati di Caltanissetta e Palermo - quelli che indagano tuttora sugli attentati del ‘92 e sulla trattativa tra Stato e mafia - anche nomi e numeri di cellulare di agenti in contatto con il padre. Quei riferimenti li tira fuori dalle agende del padre, ricche di numeri che contano. Parla di un certo “Franco” e di “Carlo”, ma forse erano i nomi di copertura di un solo 007. Ma Massimo Ciancimino conferma ai magistrati anche che l’uomo con la faccia di un mostro era in contatto con suo padre da anni, ma non ne conosce l’identità. Conferma pure che i contatti con gli spioni sono proseguiti anche dopo la morte del padre e, più di recente, quando decise di consegnare ai magistrati il famoso “papello” con le richieste di Cosa nostra.
L’agenda rossa. Ancora ombre, il 19 luglio 1992, pochi minuti dopo l’esplosione dell’autobomba che ha ucciso Paolo Borsellino e i suoi angeli custodi. Le istantanee sono diverse e ritraggono numerosi agenti in borghese che si muovono in quella terribile scena. Uno di loro - uno dei pochi identificati analizzando quei fotogrammi - era il tenente colonnello dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, accusato (e poi prosciolto) di aver sottratto l’agenda rossa, quella dove il giudice annotava ogni cosa e che teneva sempre con sé. Quell’agenda è scomparsa, l’ufficiale non l’ha rubata, pur essendo stato fotografato con in mano la borsa del giudice. Dentro quella borsa, di fatto, l’agenda non c’era e molti di quei volti fotografati in via D’Amelio non hanno ancora un nome, compreso quello di un altrettanto misterioso personaggio che sembra allontanarsi da quell’inferno tenendo qualcosa sotto la giacca.
Le indagini. “Faccia da mostro”, in Sicilia, dopo Matteo Messina Denaro, oggi è il ricercato numero uno. Lo cercano i magistrati di Palermo e Caltanissetta, che il 18 novembre scorso hanno chiesto ai vertici del Dis la documentazione sugli eccidi di Capaci e via D’Amelio e informazioni su alcuni agenti sotto copertura che potrebbero avere avuto un ruolo nel fallito attentato all’Addaura e sugli omicidi di Emanuele Piazza e Nino Agostino.

Il Punto - di Fabrizio Colarieti - 20 gennaio 2010 [pdf]

sean conneryPeso e altezza non importano. Per diventare uno 007 della nuova generazione basta essere cittadini italiani, aver raggiunto la maggiore età e avere alle spalle un ottimo percorso formativo. Non importa se non si ha l’appeal e la preparazione atletica di James Bond. L’importante sono le capacità, il know-how, e rientrare in uno dei due profili al momento disponibili nel sito che raccoglie i curriculum.
Alla fine anche i Servizi segreti italiani (Aisi e Aise), ormai decimati dai pensionamenti e dalle inchieste giudiziarie, si rivolgono alla rete, con una sorta di bando pubblico, per reclutare, tra i civili, nuovi agenti segreti. Un’operazione trasparenza senza precedenti. Niente nepotismo, almeno così pare, solo cervelli, anche se da Forte Braschi (sede dell’ex Servizio militare, il Sismi) e da via Giovanni Lanza (sede dell’ex Servizio civile, il Sisde) non giungono né conferme né smentite.
“Se pensi che la tua professionalità possa essere utilizzata per difendere l'indipendenza, l'integrità e la sicurezza della Repubblica clicca qui”. C’è scritto così nella homepage del neonato portale del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica (sicurezzanazionale.gov.it). Cliccando bisogna superare un questionario, poche domande che fanno da preambolo e che, verosimilmente, nulla hanno a che fare con il reclutamento del personale. Dopo aver risposto compare una nuova pagina: “Adesso puoi farci conoscere le tue capacità personali e professionali”. Va scelto il profilo, quello che meglio rispecchia le attitudini del candidato, tra i due disponibili: analista intelligence e network manager. A questo punto chi pensa di avere le carte migliori, i giusti requisiti, va avanti e invia il proprio curriculum vitae.
L'”Analista intelligence” è una delle figure chiave in un Servizio: è la fotografia dell’agente segreto perfetto, quello che deve trattare le informazioni raccolte, in gergo “Humint”. Deve avere ottime doti di analisi e sintesi, orientamento all'apprendimento, comunicazione, flessibilità intellettiva, gestione dello stress e orientamento al risultato. È richiesto almeno un diploma di laurea specialistica o vecchio ordinamento in materie umanistiche o economiche, meglio ancora se si è conseguito un master o una specialistica su materie di interesse, piuttosto che pregresse esperienze professionali. È richiesta un’elevata conoscenza delle lingue, in particolare, oltre alle cosiddette “lingue veicolari”, le aspiranti “barbe finte” devono conoscere soprattutto le “lingue rare”. C’è scritto pure, anche se sembra scontato, che l’analista dovrà svolgere la sua attività “nella massima riservatezza”.
L’altra expertise, quella che forse manca nelle segrete stanze delle due agenzie di intelligence, è il “Network Manager”. Una figura al passo coi tempi, tecnologicamente avanzata: insomma lo spione 2.0. In soldoni i Servizi cercano “hacker” a cui affidare responsabilità di analisi, pianificazione, progettazione, sviluppo e gestione delle reti informatiche e delle telecomunicazioni. Qui la competenza richiesta è altissima e spazia dalle architetture di un ambiente di rete fino al cosiddetto “Sigint”, cioè l'attività di raccolta di informazioni mediante l'intercettazione e l’analisi dei segnali radio. Come nel caso degli analisti anche i network manager devono essere laureati, in Ingegneria delle telecomunicazioni o in Informatica con indirizzo telecomunicazioni, e devono avere almeno cinque anni di significativa esperienza nel settore.
“È un’operazione di marketing, tra l’altro neanche nuova“. Dice a Il Punto, Aldo Giannuli, ricercatore di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, tra i massimi esperti in tema di intelligente e autore di un libro appena uscito “Come funzionano i servizi segreti“ (Ponte alle Grazie, pp. 400). “Negli anni Ottanta ci fu già un tentativo di reclutare personale per i Servizi con un concorso pubblico - aggiunge Giannuli - che naufragò nel ridicolo. È materialmente impossibile assumere agenti in questo modo, perché alle prove scritte si presenterebbero anche infiltrati dei Servizi stranieri interessati a individuare le nuove spie. Poi, la graduatoria dei vincitori renderebbe pubblica l’identità dei nuovi agenti segreti ed è un controsenso. Il rapporto è fiduciario, perciò il nome del vincitore, è evidente, è già noto prima del concorso. Dentro i servizi italiani - prosegue l’esperto - c’è gente di grande capacità, manca purtroppo l’autonomia d’azione, c’è troppa dipendenza, e alcune debolezze storiche della nostra intelligence cominciano a essere non più sopportabili. Nella raccolta delle informazioni, che è un’antica tradizione, sono bravi ma nell’analisi lasciano a desiderare. Questo handicap, fino agli anni Sessanta, non si notava, oggi sì e non giova all’efficienza. Prevale ancora troppo la dimensione corporativa, le divise, le cordate, e questo è un altro aspetto che danneggia i due Servizi, specialmente - conclude Giannuli - quando si tratta di fare pulizia, di punire chi delinque, si eccede ancora nella difesa d’ufficio”.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 30 dicembre 2009 [pdf]

intercettazioniPrimi test per il “grande orecchio”. La centrale unica per le intercettazioni telefoniche, ambientali e informatiche - che dovrebbe mandare in soffitta l’attuale sistema fondato sull’attività di una quarantina di società private che operano per conto delle procure - sembra stia muovendo i primi passi tra grandi interessi e server colabrodo.
Tuttavia del progetto Sispi (acronimo di Sistema sicuro per le intercettazioni), presentato nel 2007 all’allora Guardasigilli Clemente Mastella, se ne sa ancora davvero poco. È un made in Italy, ci sta lavorando il gruppo Finmeccanica, ma non solo, prevede l’impiego di una trentina di server distribuiti su tutto il territorio nazionale in grado di inoltrare i “flussi” di fonia e dati a tutte e 166 le procure. Un’unica regia, di fatto in mano ai privati, che dovrebbe garantire la massima riservatezza alle indagini della magistratura e abbattere i costi delle operazioni di ascolto. Non se ne sa altro, in quanto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha “secretato” i contenuti del progetto che, in via sperimentale, sarebbe già ai nastri di partenza. Nel 2007 le procure italiane, secondo i dati diffusi da via Arenula a ridosso dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, hanno intercettato più o meno 128mila “bersagli” spendendo complessivamente (per noleggio apparati e oneri imposti dai gestori telefonici) 226 milioni di euro. Tanti danari, questo sì, ma gli italiani “spiati” non sarebbero alcuni milioni, come dichiarò lo scorso anno lo stesso Alfano che parlò di circa 3 milioni di cittadini intercettati nell’arco di un anno. Il ministro spiegò di essere arrivato a quella affrettata conclusione con un calcolo empirico: cioè moltiplicando il numero dei decreti di intercettazione per il numero medio di telefonate che una persona fa o riceve in un giorno. Non è così: gli intercettati sono molti di meno, e di gran lunga. Ogni decreto è un’utenza, e spesso gli indagati ne hanno più di una tra fisse e mobili, e inoltre ci sono le proroghe, che richiedono, a loro volta, ognuna un altro decreto. Il numero degli intercettati, perciò, sfiora al massimo le 70mila unità l’anno.
Oggi funziona così: individuata l’utenza da spiare il pubblico ministero richiede al giudice per le indagini preliminari l’autorizzazione a disporre le operazioni di ascolto, poi lo stesso pm incarica una società privata che effettua materialmente le intercettazioni (telefoniche, informatiche, ambientali e gps) noleggiando alla procura gli apparati necessari, dopo aver chiesto alle compagnie telefoniche (Telecom Italia-Tim, Vodafone, Wind e Tre) di traslare a pagamento, su apposite “linee d’appoggio” che raggiungono le sale di ascolto delle procure, il flusso fonia e dati. Il grosso dei danari se ne va proprio per il noleggio degli apparati (182,6 milioni nel 2007) con una spesa che può variare anche di molto a seconda dei casi. Per ascoltare un telefono si possono spendere, infatti, cifre che vanno dai 3,85 ai 29 euro al giorno. Piazzare una microspia, con un’intrusione in auto o in casa, può costare dai 19 ai 195 euro al giorno. Un business enorme, che accredita sul mercato le cinque società leader del settore: Area, RadioTrevisan, Sio, Innova e Rcs. Tre di queste (la Sio Spa di Cantù, la Rcs Spa di Milano e la Area Spa di Binago), fino al luglio scorso, quando Alfano si è trovato a dover saldare i debiti temendo lo sciopero, erano creditrici nei confronti dello Stato di oltre 140 milioni di euro.
Stando a quanto emerso nelle scorse settimane (Ansa delle 13.52 del 3 dicembre), un manager e un tecnico informatico della Rcs Spa di Milano, acronimo di Research control system, che da quattordici anni noleggia apparati per le intercettazioni alle procure italiane, sarebbero indagati per «rivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio». In estrema sintesi si ipotizza che i due avrebbero violato l’archivio informatico della procura di Milano, rubando da un computer di un magistrato alcuni file (forse audio) di un'inchiesta che coinvolge Silvio Berlusconi. L’inchiesta in questione è quella sulla presunta distrazione di fondi della società Mediatrade, in cui il premier è indagato per appropriazione indebita. Secondo il pm Massimo Meroni, che conduce le indagini sul furto di dati, la longa manus avrebbe “sniffato” su commissione quei file dai contenuti ancora top secret.
Un secondo filone, a cui lavorano gli inquirenti milanesi, coinvolgerebbe la Research control system anche in un’altra vicenda. Tutto ruota attorno all’ulteriore sospetto che i tecnici della società possano aver fornito nel dicembre del 2005 a “Il Giornale” il file dell’intercettazione telefonica nella quale Piero Fassino chiedeva, all’ex numero uno di Unipol Giovanni Consorte, «Ma allora, siamo padroni della banca?». Una grana che ha coinvolto direttamente l’AD della Rcs, Roberto Raffaelli, che il 9 dicembre in procura ha negato ogni addebito affermando di non aver fornito alcun file a Silvio Berlusconi o a “Il Giornale”.
Indubbiamente due brutte storie, se le accuse venissero confermate, ma è bene chiarire che le vicende non riguardano la Rcs in quanto tale, ma il comportamento dei suoi dipendenti. Come d’altra parte anche la questione delle intercettazioni in quanto tali non è in discussione: si tratta di un fondamentale strumento di ricerca della prova oltre che, in molti casi, di un mezzo irrinunciabile per garantire la sicurezza nazionale. Altra questione, invece, sono gli eventuali abusi. Ma confondere l’eccezione con la regola finisce spesso per alimentare paure che solo chi ha qualcosa da nascondere dovrebbe realmente avere.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 24 dicembre 2009 [pdf]

de graziaGALLICO (Reggio Calabria) - “Se non l’hanno ucciso è morto sempre a causa di quell’inchiesta”. Quando ti trovi davanti una grande donna la prima cosa che pensi è che al suo fianco ci deve essere sempre un grande uomo. Anna Vespia oggi ha 50 anni, fa l’insegnante, e la prima cosa che dice, quando inizia a raccontare la sua storia, è che suo marito, Natale De Grazia, “era un grande uomo”. Anna è una donna forte e testarda che non si è mai rassegnata. Una donna che ha cresciuto due figli, da sola, che ha ancora voglia di riaprire il capitolo della "strana" morte di suo marito. Sono passati quattordici anni da quel 12 dicembre 1995 quando il suo compagno, il capitano di fregata Natale De Grazia della Capitaneria di porto di Reggio Calabria, uscì dalla stessa casa di Gallico, dove Anna vive ancora oggi con i suoi figli, Giovanni e Roberto, di 24 e 21 anni. Varcò la porta, salì su un auto civetta insieme a due carabinieri e non tornò più. Doveva andare a La Spezia perché stava conducendo un’indagine delicatissima per conto della Procura di Reggio Calabria. Un’indagine nata da un dossier di Legambiente che parlava di decine di navi cariche di veleni affondate nei nostri mari, “navi a perdere”, ma anche di forti collusioni mafiose, di interessi internazionali, di spie e faccendieri. Natale De Grazia con i suoi uomini faceva questo: cercava le navi colate a picco con il loro carico di veleni e riferiva al pm Francesco Neri. De Grazia era arrivato a un passo dalla verità e la sua morte è diventato un mistero. Accade dopo cena, durante quel viaggio da Reggio Calabria a La Spezia. L’auto dei carabinieri è appena ripartita da Nocera Inferiore, dove i tre militari hanno cenato sostando per un po’ in un ristorante appena fuori l’autostrada. Lui è seduto davanti, dorme, poi si accascia, l’auto si ferma, i due carabinieri lo soccorrono, venti minuti dopo arriva un’autoambulanza ma non c’è più niente da fare. Il marinaio è morto, dicono d’infarto. Non ci crede nessuno, compreso il pm Neri che ancora oggi dice che la sua vita, e quella del suo investigatore migliore, era in pericolo per colpa di quell’inchiesta. L’hanno avvelenato? Per le due autopsie, stranamente compiute dallo stesso medico legale, il capitano morì di crepacuore a 39 anni. Da quel momento comincia a morire anche l’inchiesta sulle navi dei veleni, perché De Grazia ne era il motore. Conosceva una per una le rotte di quella trentina di navi "maledette" di cui aveva raccolto abbastanza prove per affermare che non erano colate a picco per cause “naturali”. Oggi, entrando in quella casa, a Gallico, dove da quel giorno nulla è cambiato, ti accorgi subito che tra quelle mura c’ha vissuto un marinaio. Alle pareti ci sono gli encomi, i crest, le foto in divisa, e c’è anche quella medaglia d’oro, al merito di marina, consegnata nel 2004 da Ciampi. “Quando la procura lo chiamò per quell’incarico - racconta Anna Vespia - era contento, si sentiva orgoglioso, investito da un importante responsabilità. Lo faceva con passione, con dedizione. Per lui era una missione non un dovere d’ufficio. Me ne aveva parlato delle indagini che stava svolgendo, di quelle navi affondate e cariche di schifezze. Negli ultimi tempi era teso, spesso assente, - racconta ancora la moglie di De Grazia -. Aveva capito che era una storia che puzzava, su cui era necessario lavorare con grande riserbo. Me ne parlò sottovoce solo una volta, eravamo a letto, come se anche lì qualcuno lo potesse ascoltare. Mi disse che quell’indagine andava fatta per il futuro dei nostri figli e del nostro mare”. Poi c’è un foglio di carta, un fax sbiadito, inspiegabilmente scomparso dai faldoni dell’inchiesta a cui lavorava De Grazia, che lega questa brutta storia all’omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Quel fax lo trova De Grazia tre mesi prima di morire nel corso di una perquisizione a Garlasco. Lo scova in casa del faccendiere Giorgio Comerio, l’ingegnere che progettava un nuovo sistema di smaltimento delle scorie tramite “penetratori” di profondità. Non è un fax qualunque, il mittente è straniero, e il testo riguarda la Alpi: è il suo certificato di morte. Cosa ci faceva quel certificato in casa di Comerio? Chi lo ha sottratto? Di certo si sa solo che De Grazia lo sequestrò, fece accertamenti su quell’utenza straniera e poi morì. La stessa sorte toccata a Ilaria Alpi che, guarda caso, indagava sugli stessi traffici.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 10 dicembre 2009 [pdf]

Relazione sulla morte del Capitano De Grazia redatta nel 2013 dalla Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti [leggi]