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intercettazioniPrimi test per il “grande orecchio”. La centrale unica per le intercettazioni telefoniche, ambientali e informatiche - che dovrebbe mandare in soffitta l’attuale sistema fondato sull’attività di una quarantina di società private che operano per conto delle procure - sembra stia muovendo i primi passi tra grandi interessi e server colabrodo.
Tuttavia del progetto Sispi (acronimo di Sistema sicuro per le intercettazioni), presentato nel 2007 all’allora Guardasigilli Clemente Mastella, se ne sa ancora davvero poco. È un made in Italy, ci sta lavorando il gruppo Finmeccanica, ma non solo, prevede l’impiego di una trentina di server distribuiti su tutto il territorio nazionale in grado di inoltrare i “flussi” di fonia e dati a tutte e 166 le procure. Un’unica regia, di fatto in mano ai privati, che dovrebbe garantire la massima riservatezza alle indagini della magistratura e abbattere i costi delle operazioni di ascolto. Non se ne sa altro, in quanto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha “secretato” i contenuti del progetto che, in via sperimentale, sarebbe già ai nastri di partenza. Nel 2007 le procure italiane, secondo i dati diffusi da via Arenula a ridosso dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, hanno intercettato più o meno 128mila “bersagli” spendendo complessivamente (per noleggio apparati e oneri imposti dai gestori telefonici) 226 milioni di euro. Tanti danari, questo sì, ma gli italiani “spiati” non sarebbero alcuni milioni, come dichiarò lo scorso anno lo stesso Alfano che parlò di circa 3 milioni di cittadini intercettati nell’arco di un anno. Il ministro spiegò di essere arrivato a quella affrettata conclusione con un calcolo empirico: cioè moltiplicando il numero dei decreti di intercettazione per il numero medio di telefonate che una persona fa o riceve in un giorno. Non è così: gli intercettati sono molti di meno, e di gran lunga. Ogni decreto è un’utenza, e spesso gli indagati ne hanno più di una tra fisse e mobili, e inoltre ci sono le proroghe, che richiedono, a loro volta, ognuna un altro decreto. Il numero degli intercettati, perciò, sfiora al massimo le 70mila unità l’anno.
Oggi funziona così: individuata l’utenza da spiare il pubblico ministero richiede al giudice per le indagini preliminari l’autorizzazione a disporre le operazioni di ascolto, poi lo stesso pm incarica una società privata che effettua materialmente le intercettazioni (telefoniche, informatiche, ambientali e gps) noleggiando alla procura gli apparati necessari, dopo aver chiesto alle compagnie telefoniche (Telecom Italia-Tim, Vodafone, Wind e Tre) di traslare a pagamento, su apposite “linee d’appoggio” che raggiungono le sale di ascolto delle procure, il flusso fonia e dati. Il grosso dei danari se ne va proprio per il noleggio degli apparati (182,6 milioni nel 2007) con una spesa che può variare anche di molto a seconda dei casi. Per ascoltare un telefono si possono spendere, infatti, cifre che vanno dai 3,85 ai 29 euro al giorno. Piazzare una microspia, con un’intrusione in auto o in casa, può costare dai 19 ai 195 euro al giorno. Un business enorme, che accredita sul mercato le cinque società leader del settore: Area, RadioTrevisan, Sio, Innova e Rcs. Tre di queste (la Sio Spa di Cantù, la Rcs Spa di Milano e la Area Spa di Binago), fino al luglio scorso, quando Alfano si è trovato a dover saldare i debiti temendo lo sciopero, erano creditrici nei confronti dello Stato di oltre 140 milioni di euro.
Stando a quanto emerso nelle scorse settimane (Ansa delle 13.52 del 3 dicembre), un manager e un tecnico informatico della Rcs Spa di Milano, acronimo di Research control system, che da quattordici anni noleggia apparati per le intercettazioni alle procure italiane, sarebbero indagati per «rivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio». In estrema sintesi si ipotizza che i due avrebbero violato l’archivio informatico della procura di Milano, rubando da un computer di un magistrato alcuni file (forse audio) di un'inchiesta che coinvolge Silvio Berlusconi. L’inchiesta in questione è quella sulla presunta distrazione di fondi della società Mediatrade, in cui il premier è indagato per appropriazione indebita. Secondo il pm Massimo Meroni, che conduce le indagini sul furto di dati, la longa manus avrebbe “sniffato” su commissione quei file dai contenuti ancora top secret.
Un secondo filone, a cui lavorano gli inquirenti milanesi, coinvolgerebbe la Research control system anche in un’altra vicenda. Tutto ruota attorno all’ulteriore sospetto che i tecnici della società possano aver fornito nel dicembre del 2005 a “Il Giornale” il file dell’intercettazione telefonica nella quale Piero Fassino chiedeva, all’ex numero uno di Unipol Giovanni Consorte, «Ma allora, siamo padroni della banca?». Una grana che ha coinvolto direttamente l’AD della Rcs, Roberto Raffaelli, che il 9 dicembre in procura ha negato ogni addebito affermando di non aver fornito alcun file a Silvio Berlusconi o a “Il Giornale”.
Indubbiamente due brutte storie, se le accuse venissero confermate, ma è bene chiarire che le vicende non riguardano la Rcs in quanto tale, ma il comportamento dei suoi dipendenti. Come d’altra parte anche la questione delle intercettazioni in quanto tali non è in discussione: si tratta di un fondamentale strumento di ricerca della prova oltre che, in molti casi, di un mezzo irrinunciabile per garantire la sicurezza nazionale. Altra questione, invece, sono gli eventuali abusi. Ma confondere l’eccezione con la regola finisce spesso per alimentare paure che solo chi ha qualcosa da nascondere dovrebbe realmente avere.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 24 dicembre 2009 [pdf]

de graziaGALLICO (Reggio Calabria) - “Se non l’hanno ucciso è morto sempre a causa di quell’inchiesta”. Quando ti trovi davanti una grande donna la prima cosa che pensi è che al suo fianco ci deve essere sempre un grande uomo. Anna Vespia oggi ha 50 anni, fa l’insegnante, e la prima cosa che dice, quando inizia a raccontare la sua storia, è che suo marito, Natale De Grazia, “era un grande uomo”. Anna è una donna forte e testarda che non si è mai rassegnata. Una donna che ha cresciuto due figli, da sola, che ha ancora voglia di riaprire il capitolo della "strana" morte di suo marito. Sono passati quattordici anni da quel 12 dicembre 1995 quando il suo compagno, il capitano di fregata Natale De Grazia della Capitaneria di porto di Reggio Calabria, uscì dalla stessa casa di Gallico, dove Anna vive ancora oggi con i suoi figli, Giovanni e Roberto, di 24 e 21 anni. Varcò la porta, salì su un auto civetta insieme a due carabinieri e non tornò più. Doveva andare a La Spezia perché stava conducendo un’indagine delicatissima per conto della Procura di Reggio Calabria. Un’indagine nata da un dossier di Legambiente che parlava di decine di navi cariche di veleni affondate nei nostri mari, “navi a perdere”, ma anche di forti collusioni mafiose, di interessi internazionali, di spie e faccendieri. Natale De Grazia con i suoi uomini faceva questo: cercava le navi colate a picco con il loro carico di veleni e riferiva al pm Francesco Neri. De Grazia era arrivato a un passo dalla verità e la sua morte è diventato un mistero. Accade dopo cena, durante quel viaggio da Reggio Calabria a La Spezia. L’auto dei carabinieri è appena ripartita da Nocera Inferiore, dove i tre militari hanno cenato sostando per un po’ in un ristorante appena fuori l’autostrada. Lui è seduto davanti, dorme, poi si accascia, l’auto si ferma, i due carabinieri lo soccorrono, venti minuti dopo arriva un’autoambulanza ma non c’è più niente da fare. Il marinaio è morto, dicono d’infarto. Non ci crede nessuno, compreso il pm Neri che ancora oggi dice che la sua vita, e quella del suo investigatore migliore, era in pericolo per colpa di quell’inchiesta. L’hanno avvelenato? Per le due autopsie, stranamente compiute dallo stesso medico legale, il capitano morì di crepacuore a 39 anni. Da quel momento comincia a morire anche l’inchiesta sulle navi dei veleni, perché De Grazia ne era il motore. Conosceva una per una le rotte di quella trentina di navi "maledette" di cui aveva raccolto abbastanza prove per affermare che non erano colate a picco per cause “naturali”. Oggi, entrando in quella casa, a Gallico, dove da quel giorno nulla è cambiato, ti accorgi subito che tra quelle mura c’ha vissuto un marinaio. Alle pareti ci sono gli encomi, i crest, le foto in divisa, e c’è anche quella medaglia d’oro, al merito di marina, consegnata nel 2004 da Ciampi. “Quando la procura lo chiamò per quell’incarico - racconta Anna Vespia - era contento, si sentiva orgoglioso, investito da un importante responsabilità. Lo faceva con passione, con dedizione. Per lui era una missione non un dovere d’ufficio. Me ne aveva parlato delle indagini che stava svolgendo, di quelle navi affondate e cariche di schifezze. Negli ultimi tempi era teso, spesso assente, - racconta ancora la moglie di De Grazia -. Aveva capito che era una storia che puzzava, su cui era necessario lavorare con grande riserbo. Me ne parlò sottovoce solo una volta, eravamo a letto, come se anche lì qualcuno lo potesse ascoltare. Mi disse che quell’indagine andava fatta per il futuro dei nostri figli e del nostro mare”. Poi c’è un foglio di carta, un fax sbiadito, inspiegabilmente scomparso dai faldoni dell’inchiesta a cui lavorava De Grazia, che lega questa brutta storia all’omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Quel fax lo trova De Grazia tre mesi prima di morire nel corso di una perquisizione a Garlasco. Lo scova in casa del faccendiere Giorgio Comerio, l’ingegnere che progettava un nuovo sistema di smaltimento delle scorie tramite “penetratori” di profondità. Non è un fax qualunque, il mittente è straniero, e il testo riguarda la Alpi: è il suo certificato di morte. Cosa ci faceva quel certificato in casa di Comerio? Chi lo ha sottratto? Di certo si sa solo che De Grazia lo sequestrò, fece accertamenti su quell’utenza straniera e poi morì. La stessa sorte toccata a Ilaria Alpi che, guarda caso, indagava sugli stessi traffici.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 10 dicembre 2009 [pdf]

Relazione sulla morte del Capitano De Grazia redatta nel 2013 dalla Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti [leggi]

dc9_ustica1_NPALERMO − A quasi trent’anni dalla sciagura aerea del Dc9 Itavia, inabissatosi il 27 giugno 1980 a nord di Ustica, la speranza dei familiari degli 81 tra passeggeri e membri dell’equipaggio, che in quel disastro persero la vita, è appesa agli esiti di un processo civile in corso da quasi due anni a Palermo (l’ultima udienza è del 26 novembre scorso). Ancora una volta lo Stato si ritrova a interrogare se stesso sull’affaire Ustica, dopo che la Cassazione, nel 2007, ha assolto gli ultimi imputati nel processo penale sui presunti depistaggi negando ogni risarcimento. Questa volta davanti alla giustizia sono stati chiamati a rispondere, da un folto gruppo di familiari delle vittime, i ministeri della Difesa e dei Trasporti. Perché i due dicasteri - secondo gli eredi che oggi chiedono allo Stato un risarcimento che sfiora i 100 milioni di euro - non avrebbero garantito adeguate condizioni di sicurezza al volo. I vertici dei due ministeri sarebbero stati a conoscenza, prima, durante e dopo la sciagura, che il tratto di aerovia percorso quella sera dal Dc9, che andava da Bologna a Palermo, era scarsamente vigilato dai radar della Difesa. Un buco nero, a metà strada tra Ponza e Ustica, chiamato “punto Condor “, dove quella notte si consumò la tragedia. Una ricostruzione allineata con le conclusioni a cui giunse, dopo nove anni di istruttoria, il giudice Rosario Priore: “Il Dc9 fu vittima - scrisse nel 1999 - di un’azione militare di intercettamento messa in atto, verosimilmente, nei confronti dell’aereo che era nascosto sotto di esso”. L’Itavia 870 - conclusero i periti - rimase vittima fortuita: colpito da un missile o di una near collision con un altro velivolo. Quella notte intorno al Dc9, lo dicono i tabulati di Ciampino, c’erano in volo aerei militari di almeno quattro Paesi (Italia, Libia, Stati Uniti e Francia). Per Priore quell'azione fu propriamente “un atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati confini e diritti”. Con queste motivazioni furono processati gli allora vertici dell’Aeronautica che - sempre secondo l’accusa - nell’immediatezza dei fatti tennero nascoste al Governo tali gravi evidenze. Quel processo si è concluso nel gennaio del 2007, con la Cassazione che ha definitivamente assolto, “perché il fatto non sussiste”, i generali, Lamberto Bartolucci, all’epoca capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, e il suo vice, Franco Ferri. A quel processo erano arrivati in settanta, dovevano rispondere di reati come la falsa testimonianza e il favoreggiamento, ma alla fine, a colpi di prescrizioni, gli imputati sono rimasti solo in due. Poi le assoluzioni, per mancanza di prove, e in ultima battuta l’intervento del Governo che ha ammorbidito il reato di alto tradimento. Sulla scena si sono aggiunte le recenti dichiarazioni rilasciate alla stampa dal presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, secondo il quale il Dc9 fu abbattuto per errore da un caccia francese. Di questa circostanza, sempre secondo Cossiga, ne erano a conoscenza i nostri Servizi e l’allora sottosegretario Giuliano Amato. Dopo un braccio di ferro durato mesi, il 15 dicembre 2008, il tribunale di Palermo ha sentito l’ex capo dello Stato, che ha confermato di aver appreso dall’allora direttore del Sismi, Fulvio Martini, oggi scomparso, che “ad abbattere il Dc9, per mero errore, sarebbe stato un aereo dell’Aviazione Marina Francese decollato da una portaerei al largo del sud della Corsica”. Cossiga ha precisato anche che quel caccia aveva in realtà come missione “l’abbattimento di un aereo che trasportava Gheddafi” e che il generale Giuseppe Santovito (direttore del Sismi prima di Martini) lo informò che i Servizi avevano salvato il leader libico da quell’attentato. Di questa circostanza sarebbe stato informato anche Amato, però, quest’ultimo, nega davanti al giudice di Palermo, precisando che “è vero però che negli ambienti che si occupavano della questione circolavano queste voci come, del resto, altre”. Tuttavia fu proprio Amato nel 2000, in qualità di Presidente del Consiglio, a tentare di spingere la Francia a rispondere a una dozzina di rogatorie, promosse da Priore, dove si chiedevano informazioni in merito a quanto avevano registrato i radar francesi nel Mediterraneo, ai possibili velivoli decollati da Solenzara e sull’esatta posizione delle portaerei Clemenceau e Foch. Le parole di Cossiga e Amato sono tuttora oggetto anche di un’inchiesta della Procura di Roma. “L'unica verità scampata ai depistaggi - dichiara a Il Punto, Daniele Osnato, uno dei legali dei familiari delle vittime in causa a Palermo - è quella che l’aerovia civile percorsa dal Dc9, l’Ambra 13, fosse intersecata dall’aerovia militare francese Delta Whisky 12. Tale intersezione era meglio nota negli ambienti militari come punto Condor. C’era una situazione complessa: navi lanciamissili, caccia in assetto operativo non identificati. Dalla base francese di Solenzara, poi, decollarono diverse coppie di Mirage sino alle 22. Questo contesto altro non è che la realtà, chiara e semplice, che non può certamente essere più negata, tanto più da chi ha precisi obblighi verso i cittadini. Per chi, come i parenti delle vittime, - prosegue l’avvocato Osnato - è portatore di una speranza di “verità” si è sempre prospettato, da parte di chi la conosce, la sconsolante prospettiva della dimenticanza e del silenzio. Il “muro di gomma” è stato fatale per tutti, e tutti ne sono rimasti invischiati, mentitori e sinceri. L’unica differenza tra queste vittime e quelle rimaste in fondo al mare è che per i primi è stata concessa una scelta e che per i secondi la scelta, la chance, è stata negata. Perché di ciò si tratta ed è di ciò che tratta il processo civile avviato a Palermo. In questa sede i parenti chiedono un accertamento delle responsabilità di chi, come Istituzione, ha impedito di percorrere la via della verità. Si tratterà di chiarire che senz’altro questi ministeri si sono resi colpevoli di un concorso colposo in strage - conclude l’avvocato - che merita un esemplare risarcimento, anche se la vicenda non potrà certo trovare pace con il riconoscimento di un credito”. A Palermo sono tuttora pendenti quattro procedimenti avviati dai parenti delle vittime e nel maggio 2007 lo stesso tribunale ha già condannato i due ministeri a risarcire 980mila euro a 15 eredi.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 3 dicembre 2009 [pdf]

Di quella palazzina al civico 96 di via Gradoli, a due passi dalla Cassia, non se ne sentiva parlare da tempo. Così come del ruolo giocato da un reatino in vista che aveva legami con quel palazzo. Non se ne parlava da 31 anni, da quando il 18 aprile 1978, in pieno sequestro Moro, la polizia scoprì lì dentro il covo del brigatista Mario Moretti che in quelle stesse ore teneva prigioniero il presidente della Dc in via Montalcini. Ma alle 15 di sabato un lancio dell'Ansa ha riportato l'orologio indietro di 31 anni, spiegando che in quella stessa palazzina il presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, avrebbe incontrato, a luglio, il transessuale con cui sarebbe stato filmato. Quella palazzina per anni è stata definita "il covo di Stato", e non solo perché il parlamentare Sergio Flamigni gli dedicò un libro (edito dalla Kaos) mettendo in luce i legami tra lo stabile e il Sisde, il servizio segreto civile. Dietro tutte queste coincidenze, le cronache di allora raccontano anche di un groviglio di società di copertura riconducibili al servizio segreto civile che in quello stesso palazzo aveva molte proprietà immobiliari. Dietro quelle società, lo documentò Flamigni, c'erano 007 e faccendieri che fungevano da fiduciari. Uno di quei 007 era "il cartaro", l'agente Maurizio Broccoletti. Proprio lui, il reatino Broccoletti: l'alto dirigente del Sisde condannato nel 2000 a 7 anni e 5 mesi di reclusione per lo scandalo dei fondi riservati. Molti documenti e atti notarili di quelle società hanno in calce la sua firma. Di certo, oltre trent'anni dopo, quel condominio - oggi abitato da molti trans - racconta una storia diversa, quella che coinvolge Marrazzo, ma allo stesso modo ancora ricca di misteri e scabrose rivelazioni. Coincidenze.

di Fabrizio Colarieti per Il Messaggero [articolo originale]