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siriaNon siamo riusciti a capire chi ci abbia rapito, ma abbiamo saputo che a liberarci è stato l’Esercito siriano». Sono le uniche parole pronunciate il 28 luglio dal tecnico genovese della galassia Ansaldo Energia, Oriano Cantani, al ritorno dalla Siria, dopo un sequestro lampo di dieci giorni che lo ha visto protagonista insieme al suo collega, Domenico Tedeschi. Il rapimento dei due tecnici – ufficialmente impegnati nella costruzione di una centrale a Deir Ali su incarico dell’ente elettrico statale siriano – era avvenuto il 18 luglio nei pressi di Damasco e in circostanze ancora oggi poco chiare. Secondo la ricostruzione dei fatti Cantani e Tedeschi sono stati bloccati da un gruppo di uomini armati, ribelli o forse lealisti del regime. La notizia era giunta in Italia con due giorni di ritardo, il 20 luglio, rimbalzando sul Secolo XIX, grazie al racconto di un italiano che era in compagnia dei due nei momenti precedenti il loro rapimento. Poi la conferma della Farnesina, che, tuttavia, non nascondeva alcune perplessità sull’episodio, definendolo «poco chiaro».
LE VERSIONI. Nelle ore successive le notizie che giungono da Damasco restano frammentarie. Due le versioni su come sarebbe avvenuto il sequestro. La prima: i due tecnici viaggiavano in auto nel mezzo di una colonna che trasportava anche altri italiani che stavano raggiungendo l’aeroporto. Il loro mezzo sarebbe stato fermato da uomini armati, mentre il resto del convoglio ha potuto raggiungere lo scalo. «Arrivati all’aeroporto di Damasco – riferirà al Secolo XIX l’anonimo testimone – ci siamo accorti che mancavano due di noi (Cantani e Tedeschi, ndr). Pensavamo che avessero preso un’altra strada e speravamo di incontrarli più tardi, magari a Beirut, ma di loro non abbiamo più saputo niente». La seconda versione è completamente diversa: il convoglio degli italiani sarebbe stato fermato per controlli, attività che avrebbe spaventato i due tecnici a tal punto da fargli cambiare percorso. E questo cambio li avrebbe fatti finire nelle mani dei ribelli. I due italiani ricompaiono il 28 luglio, ed è la tv di stato siriana a mostrare i loro volti. «E’ un esito di cui dobbiamo essere soddisfatti», commenta a caldo il ministro degli Esteri, Giulio Terzi. «Vorrei ringraziare – ha poi aggiunto – tutte le organizzazioni e amministrazioni che hanno collaborato così attivamente sul piano nazionale a questo esito, diciamo felice, di una situazione complessa perché da dieci giorni il ravvivarsi così doloroso della guerra civile e soprattutto delle operazioni nella zona di Aleppo e Damasco avevano creato ulteriori situazioni di pericolo per i nostri due tecnici». La versione siriana non fa una piega ed è affidata a un servizio della tv di stato che mostra Cantani e Tedeschi appena liberati, seduti su un divano, stanchi, ma in buona salute. Secondo l’emittente, i tecnici sarebbero stati prelevati da un «gruppo terroristico armato di 15 persone» nei pressi del cantiere di Deir Ali e liberati dalle truppe regolari durante la controffensiva lanciata ai ribelli nei sobborghi di Damasco. Citati dall’agenzia ufficiale Sana, i due tecnici hanno confermato di essere stati «rapiti e vessati da un gruppo terroristico armato» e di essere stati invece liberati «dall’esercito arabo siriano (governativo)». Cantani, tuttavia, a Ciampino cambia alcuni passaggi della sua versione: «Non siamo riusciti a capire chi ci abbia rapito, ma abbiamo saputo che a liberarci è stato l’Esercito siriano. La nostra liberazione è andata bene, è stata una cosa tranquilla, non c’è stato un blitz e non abbiamo avuto altri problemi». Quindi nessuna vessazione. E rispondendo alla domanda di un cronista, su come sarebbe avvenuta la loro liberazione, il tecnico ha poi aggiunto: «E’ difficile poterlo dire perché onestamente non lo so neanche io». Sul caso ora indaga la Procura di Roma che ha aperto un fascicolo e ascoltato i due italiani (il verbale è stato segretato dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e dal sostituto Francesco Scavo). Secondo il sito italiano sirialibano.com a rapire i due tecnici potrebbero essere stati «uomini vicini allo stesso regime siriano», con il duplice obiettivo di mostrare che in Siria regna ormai il caos, creato dai terroristi armati da Turchia, Qatar e Arabia Saudita, e che «senza la copertura di sicurezza del regime sono a rischio gli interessi occidentali e la vita dei pochi cittadini che ancora rimangono nel Paese». «Non è dietrologia – riferisce lo stesso sito –, ma lo schema usato per molti anni nel Libano della guerra civile (1975-90) dagli stessi servizi di sicurezza di Damasco e dai loro clienti a Beirut: sedicenti gruppi fondamentalisti, con sigle spesso mai conosciute prima, rivendicavano i rapimenti di occidentali, che riapparivano dopo mesi o settimane liberati “grazie a Damasco” e ai suoi “sforzi di mediazione”…».
INTERESSI SIRIANI. Ansaldo Energia, e più in generale il gruppo Finmeccanica, ha molti interessi in Siria. Dal giugno scorso, a circa cinque chilometri da Damasco, è iniziata la costruzione di una centrale elettrica per conto della società pubblica elettrica siriana Peegt. Per realizzare l’opera l’azienda ligure nell’ottobre del 2010 ha firmato, in consorzio con la società greca Metka, un contratto del valore di 160 milioni di euro che prevede la fornitura ai siriani di un impianto a ciclo combinato per il sito di Deir Azzour. Secondo il progetto – al quale stavano lavorando, per conto di alcune società dello stesso gruppo, anche i due tecnici sequestrati – la Ansaldo equipaggerà la centrale con generatori, turbine a gas e a vapore, fornirà parti di ricambio e assisterà al montaggio e all’avviamento dell’impianto. Wikileaks, l’organizzazione che fa capo a Julian Assange, ha svelato recentemente anche altri retroscena rendendo pubbliche oltre 2 milioni di mail «compromettenti» scambiate tra politici e ministri siriani con esponenti interni ed esterni al regime e aziende occidentali, tra le quali figura anche il gruppo di piazza Monte Grappa. Nel mirino di Assange è finita, in particolare, la vicenda delle commesse della controllata Selex Elsag per la fornitura al regime di Bashar al-Assad del sistema Tetra per le telecomunicazioni. Si tratta di apparecchiature che permettono comunicazioni criptate, cioè a prova d’intercettazione. Tra le mail diffuse da Wikileaks ce n’è una del 2 febbraio scorso – e la guerra civile era già in corso – che annuncia l’arrivo a Damasco degli ingegneri italiani della Selex per istruire i tecnici della Intracom Syria (intermediaria greca della Syrian Wireless Organization) sull’uso del Tetra. Secondo Finmeccanica si tratta di commesse trasparenti. «In Siria - ha spiegato il presidente e amministratore delegato Giuseppe Orsi – abbiamo venduto il sistema Tetra in tutta trasparenza». Il sistema Tetra, fornito a partire dal 2008, «era destinato all’impiego da parte di organizzazioni per le emergenze e il soccorso», per un uso «esclusivamente civile e non militare». «Qualsiasi altro utilizzo che ne sia stato fatto è fuori dal controllo di Selex Elsag. La rete Tetra – spiega la nota di Finmeccanica – è stata fornita (alla Siria, ndr) nel pieno rispetto delle regole sull’esportazione di tali tecnologie e completata in tempi antecedenti allo scatenarsi dei conflitti interni al Paese. Successivamente all’avvio dei disordini in Siria, e alle relative prese di posizione della comunità internazionale, non è stata più autorizzata – né, pertanto, eseguita – alcuna fornitura. Ogni successivo rapporto con il cliente siriano è stato unicamente finalizzato al recupero di crediti, che ammontano tuttora ad alcuni milioni di euro».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 6 settembre 2012 [pdf]

Enrico Maria GrazioliUna telefonata allunga la vita, recitava un vecchio spot. A volte, invece, può finire per inguaiartela. Smascherando una tentata estorsione. E’ questa l’accusa alla base dell’ordinanza di custodia cautelare emessa il 25 luglio dal gip del Tribunale di Catanzaro, Gabriella Reillo, e richiesta dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo calabrese, nei confronti dell’ufficiale dei carabinieri, Enrico Maria Grazioli. Il militare, 40 anni, attualmente distaccato all’Europol, in passato in servizio proprio al Comando di Catanzaro, nel 2009 si sarebbe attivato, chiedendo di intervenire ad un boss della ‘ndrangheta, affinché un suo amico, imprenditore edile, recuperasse un credito vantato verso un altro imprenditore, relativo a lavori compiuti in un cantiere. Grazioli, secondo quanto ha ricostruito la Dda di Catanzaro, nel tentativo di aiutare l’imprenditore Danilo Silipo, che all’epoca dei fatti stava compiendo dei lavori in un suo appartamento a Roma, si sarebbe messo in contatto con il boss Nicola Arena, il quale, poi, avrebbe fatto pressioni sull’interessato per il recupero del credito vantato da Silipo. L’inchiesta è nata nell’ambito delle indagini che la Dda stava compiendo proprio sul conto di Arena e dello stesso Grazioli per presunte irregolarità nella realizzazione di alcune centrali elettriche in Calabria, indagini che nelle scorse settimane hanno anche portato al sequestro del parco eolico di Isola Capo Rizzuto.
RELAZIONI PERICOLOSE. A inchiodare Grazioli sono state le intercettazioni telefoniche, compiute dai suoi vecchi colleghi, dalle quali è emerso l’ambiguo rapporto di amicizia tra l’ufficiale e Nicola Arena, nipote dell’omonimo boss della cosca di Isola Capo Rizzuto. Un legame nato molti anni prima, pare in occasione della compravendita di una barca che Grazioli, quando era ancora in servizio al Reparto operativo di Catanzaro, acquistò da Arena. Tra i due – com’è emerso dalle intercettazioni – c’erano assidui contatti e una certa familiarità, tanto che l’allora maggiore era solito rivolgersi al boss chiamandolo «Amico mio». L’ufficiale, proprio in virtù di tale rapporto, si sarebbe quindi rivolto ad Arena per intervenire sull’imprenditore di Crotone che non aveva pagato i lavori a Silipo. Il credito vantato da quest’ultimo ammontava a circa 40mila euro e l’imprenditore, dopo aver tentato di recuperarlo senza successo per vie legali, si rivolse a Grazioli. Di fatto, Silipo, nonostante Arena abbia tentato di recuperare quel denaro, non incassò la somma: da qui l’ipotesi di tentata estorsione. Nell’ordinanza d’arresto, che ha portato in carcere Arena e Grazioli e che vede indagati in stato di libertà Silipo e un commercialista crotonese, il gip ha escluso l’aggravante della modalità mafiosa, che pure la Dda aveva avanzato nell’informativa consegnata ai pm Giuseppe Borrelli e Paolo Petrolo. Grazioli, inoltre, è indagato anche per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento nell’ambito di un’altra inchiesta aperta dalla Procura di Crotone, poi passata a quella di Catanzaro, sul business da 350 milioni di euro del parco eolico di Isola Capo Rizzuto. Ma non solo: il nome dell’ufficiale ricorre spesso anche nelle carte di altre inchieste sulla costruzione delle centrali termoelettriche di Scandale e Teramo e sulla vicenda delle sim “coperte” che nel 2009 portò in carcere il capo della sicurezza di Wind.
LE SIM FANTASMA. Tra le amicizie di Grazioli c’è un ex carabiniere di Catania, Salvatore Cirafici, passato dall’Arma alla security di Wind. Cirafici si occupa dei rapporti tra la compagnia telefonica e l’autorità giudiziaria, in pratica passano per il suo ufficio tutte le richieste d’intercettazioni telefoniche, tabulati e tracciamenti che ogni procura inoltra alla Wind. Grazioli è nei guai, il tribunale di Crotone sta indagando sul suo conto e su un presunto giro di mazzette per la realizzazione della centrale Turbogas di Scandale e di altri tre impianti. Ma accade qualcosa che spinge gli inquirenti a occuparsi anche del suo amico Cirafici. Intercettando il cellulare di Grazioli, infatti, balza agli occhi dei carabinieri un’utenza Wind che pur essendo regolarmente attiva non risulta censita dalla compagnia. Di più: sarà lo stesso gestore a comunicare ai carabinieri che quell’utenza e disattiva da più di un anno. Perciò quel numero (329/111…) non esiste, anche se qualcuno lo sta utilizzando. Scattano gli accertamenti ed entra in scena Cirafici. I carabinieri scoprono che dietro quel numero “fantasma” c’è proprio lui. Cirafici e Grazioli sono nei guai fino al collo. Il primo ha informato l’altro che la procura di Crotone sta indagando sul suo conto e che sono in corso delle intercettazioni. Cirafici aveva nella sua disponibilità decine di schede telefoniche Wind “non intestate” e perciò “non riconducibili” a nessuno. Il dirigente finisce ai domiciliari con l’accusadi concorso in rivelazione del segreto d’ufficio, favoreggiamento, falso e induzione a rendere false dichiarazioni.
L’INCHIESTA “WHY NOT”. Sono ancora le intercettazioni, quelle dell’inchiesta sulle mazzette per la centrale Turbogas, a procurare altri guai a Grazioli. Sempre nel 2009, con l’aiuto di un commercialista, l’ufficiale era entrato in contatto con un senatore, uno degli indagati dell’inchiesta “Why Not”, a cui Grazioli, due anni prima, aveva lavorato su delega della Procura di Catanzaro. I contatti tra l’ufficiale dell’Arma e il senatore, secondo la Procura di Crotone, erano finalizzati al reperimento «di notizie inerenti delle indagini cui lo stesso Grazioli aveva preso parte e che vedevano interessati lo stesso senatore, oltre ad altri soggetti». Sarà lo stesso Grazioli a raccontare un altro pezzo della storia ai magistrati di Crotone a partire dall’ottobre del 2009: «Cirafici nel corso di una telefonata mi ha riferito di un convegno a Maccarese che sarebbe avvenuto alla fine dell’estate al quale erano presenti il dottor De Magistris (all’epoca titolare dell’inchiesta “Why Not”, ndr), Genchi (Gioacchino, consulente della procura di Catanzaro, ndr), Sonia Alfano (allora esponente dell’Idv, ndr) e, a dire del Cirafici, sarebbe stato invitato anche il dottore Bruni (Pierpaolo, il pm crotonese che indaga sulle sim “coperte”, ndr)». E ancora: «Conoscevo il Cirafici sin dal corso nei Carabinieri. Ci siamo persi di vista per più di dieci anni, per poi rincontrarci in occasione della perquisizione disposta dalla Procura Generale nei confronti di Gioacchino Genchi. A far data da questo momento i rapporti si sono consolidati. Dopo tale contatto telefonico fu il Cirafici a farmi visita a Catanzaro, dove più volte mi manifestò il disappunto e la sua ira, poiché erano emersi dei contatti, nelle consulenze di Genchi, tra lui, il senatore… e altri soggetti. Ulteriore e ben più grande timore del Cirafici, sempre verso le indagini di cui alla consulenza di Genchi, era quello determinato dal fatto che la tipologia di schede Wind (quelle fantasma, ndr) fossero state da lui consegnate e date per l’uso anche a soggetti ricoprenti ruoli istituzionali di primo piano. Quindi temeva che dagli accertamenti curati dal consulente Genchi si potessero svelare e quindi far emergere tali gravi circostanze e le sue relative responsabilità». Il consulente Gioacchino Genchi, si scoprirà poi, aveva espresso forti dubbi sul conto dell’allora maggiore Grazioli al pm Luigi De Magistris. Ma al momento dello scoppio del caso “Why not” e della successiva avocazione dell’inchiesta – che segnerà la fine della carriera del pm ora sindaco di Napoli e l’inizio di un calvario infinito per il suo consulente – ironia della sorte, sarà proprio il maggiore Grazioli a notificare a Genchi la revoca del suo incarico. E sarà sempre lo stesso ufficiale, finito agli arresti per tentata estorsione, a prendere in consegna il materiale investigativo al quale Genchi stava lavorando per conto della procura di Catanzaro.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 9 agosto 2012 [pdf]

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«Sono uno scapestrato? Sono solo un po’ sfigato e sono il figlio di un politico mafioso, non il solo però. Mi sento responsabile, ma sappiate che quella trattativa è costata la vita al giudice Borsellino e portava in alto, molto in alto. Talmente tanto che ancora oggi potrebbe avere un effetto dirompente». Lo sfogo di Massimo Ciancimino, il controverso figlio di Don Vito, sindaco mafioso del “sacco” di Palermo, uomo chiave dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia, arriva via Facebook, nel cuore della notte, dopo aver letto un articolo de Il Punto di qualche settimana fa (Palermo Top Secret, ndr) e mentre le trascrizioni delle ansiose telefonate di Nicola Mancino al consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, fanno il giro del mondo. Ciancimino junior lo immaginiamo con un iPad tra le mani, chiuso nella sua casa, nel cuore elegante di Palermo, impegnato a leggere il malloppo di atti giudiziari allegato all’avviso di conclusione delle indagini con cui la Procura del capoluogo siciliano si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per una dozzina di indagati eccellenti. Tra loro c’è anche lui che in quell’aggettivo, «scapestrato» appunto, come lo avevamo definito sulle pagine del nostro settimanale, proprio non riesce a riconoscersi. Carte scottanti, che, secondo i magistrati di Palermo, Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, raccontano come lo Stato, negli anni del tritolo, provò a scendere a patti con la mafia stragista, attraverso la mediazione sotterranea di politici e di alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri. Carte che contengono tutto quello che Ciancimino aveva cominciato a ricostruire con gli inquirenti quattro anni fa, ridando voce, un po’ alla volta, alle parole di suo padre. E che, nell’ambito della stessa inchiesta palermitana, gli sono costati due capi di imputazione: associazione a delinquere di stampo mafioso e calunnia. ...continua a leggere "«Borsellino ucciso dalla trattativa»"

mancino-nicola-big0«Dopo la strage di Capaci era forte la preoccupazione che lo Stato non facesse tutto il possibile per contrastare Cosa Nostra. Fu per questo motivo che già il 1° luglio 1992 io e Paolo Borsellino ci recammo al Viminale per incontrare il ministro Mancino al quale volevamo fare gli auguri per il nuovo incarico e cogliere l’occasione per chiedergli quali fossero le reali intenzioni dello Stato nel contrasto a Cosa Nostra». È il 13 gennaio 2011 e il pm Vittorio Aliquò ha un’immagine molto chiara ricostruendo, davanti ai colleghi della Procura di Palermo, quanto accadde 18 giorni prima della strage di via D’Amelio. Era a Roma con Borsellino, per interrogare il pentito Gaspare Mutolo (che confermerà la circostanza in più sedi), e insieme si recarono al Viminale a incontrare il nuovo ministro dell’Interno. Ma Nicola Mancino, di quell’incontro, non ricorda nulla. «Ho sempre escluso – dirà il 1° aprile 2011 rispondendo alle domande del capo della Procura di Palermo, Francesco Messineo – di avere avuto un colloquio con il giudice Borsellino e in interrogatori da me resi, ho sempre detto: non escludo, però, di avergli potuto stringere la mano, così come ho fatto con tantissimi funzionari il giorno del mio insediamento al Viminale, che è avvenuto nel pomeriggio del primo luglio 1992. Posso anche avergli stretto la mano, ma non conoscendo fisicamente il giudice Borsellino, non posso però escludere che, passando per i corridoi, stringendogli la mano, ma non ho avuto nessun colloquio con il giudice Borsellino». Appare davvero singolare che il ministro dell’Interno, a poche settimane dalla strage di Capaci, non conosca fisicamente il simbolo della lotta antimafia, il giudice che in quel momento in Sicilia sta rischiando più di chiunque altro la vita. Ed è lo stesso Mancino che in un primo momento nega di aver mai appreso, in quello stesso periodo, dell’esistenza di un dialogo tra pezzi dello Stato e i boss. «Se ne fossi venuto a conoscenza», dice l’ex vicepresidente del Csm ai pm palermitani Ingroia e Di Matteo - che indagando sulla trattativa tra Stato e Mafia lo hanno appena iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza - «l’avrei respinto e avrei denunciato la cosa al capo dello Stato». Poi il 24 febbraio, nel corso di un’udienza del processo al generale Mori, Mancino cambia versione: «Martelli mi parlò genericamente di attività non autorizzata del Ros, ma non capii perché lo diceva a me e non alla Procura». E tutto questo, dice Martelli, avvenne prima dell’eccidio di via D’Amelio. Per Ingroia e Di Matteo, perciò, qualcuno sta mentendo. A tirare in ballo il potente ex ministro democristiano c’è anche il pentito Giovanni Brusca, che lo indica come «terminale» dello scellerato accordo tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra, ma anche Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, che sostiene da tempo che i ministri Rognoni e Mancino fossero a conoscenza della trattativa. L’iscrizione di Mancino nel registro degli indagati era nell’aria. «Il teorema che lo Stato, e non pezzi o uomini dello Stato, abbia trattato con la mafia – dice commentando la notizia – è vecchio di almeno venti anni, ma non c’è ancora straccio di prova che possa confortarlo di solidi argomenti». Insieme a Mancino, a Palermo, ci sono altri 8 indagati: i generali Mori e Antonio Subranni, l’ex capitano Giuseppe De Donno, l’ex ministro Dc, Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano e Nino Cinà. Sempre lo stesso Mancino - che nega la circostanza - sarebbe stato tra coloro che nel ‘93 sostennero che il 41 bis andava ammorbidito. Già nel settembre del ‘92, l’ex ministro dell’Interno pare fosse al corrente del fatto che la strategia di Cosa Nostra doveva proseguire con il compimento di altre stragi «in continente». Ed è ancora Mancino, nel dicembre del ‘92, ad anticipare alla stampa che da li a breve sarebbe stato catturato Riina. Coincidenze?

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 21 giugno 2012 [pdf]