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VaticanoNon erano ancora trascorse ventiquattr’ore dagli attentati di Parigi quando, il 14 novembre scorso, il questore di Roma Nicolò D’Angelo ha messo la sua firma in calce all’ordinanza che ha intensificato le misure di sicurezza su tutta la capitale. Un provvedimento adottato subito dopo l’escalation della minaccia terroristica internazionale che ha reso “imprescindibile attivare con effetto immediato il massimo livello di allerta” per tutte le attività “di controllo e vigilanza preventiva”. La lista degli obiettivi sensibili da tutelare è lunga. Si va dalle sedi di governo a quelle vaticane, dalle chiese alle sinagoghe. Fino alle rappresentanze diplomatiche dei Paesi ritenuti più a rischio. Luoghi, principalmente, ma anche personalità. Tra le quali spiccano alcune delle massime autorità delle istituzioni politiche e bancarie dell’Unione europea. E perfino ex presidenti del Consiglio, ministri in carica e componenti di precedenti esecutivi. Con un dispiegamento di uomini e mezzi su vasta scala per sorvegliare una città che, con i suoi 1.287 chilometri quadrati e quasi tre milioni di residenti, è tra le più estese e popolose di tutta l’Unione europea. Con presidi molto spesso visibili, come nei casi delle postazioni fisse alle fermate delle metropolitane. O del tutto impercettibili, quando si tratta di svolgere attività informativa. ...continua a leggere "Terrorismo, massima allerta nella capitale: centinaia gli obiettivi sensibili, così è stata blindata Roma"

intercettazioniNell’agenda del governo, nelle pieghe di un provvedimento da adottare sull’onda dell’emergenza terrorismo, potrebbe rispuntare l’impiego del cosiddetto “trojan di Stato”. La pratica, molto invasiva, di remote computer searches che consentirebbe all’intelligence di sorvegliare le comunicazioni elettroniche “perquisendo” a distanza ogni tipo di dispositivo connesso alle rete.
A marzo era stato il deputato di Scelta Civica, Stefano Quintarelli, ad accorgersi che nel decreto legge antiterrorismo, approvato in Senato due settimane dopo, era spuntata una norma molto pericolosa che legalizzava l'utilizzo di software, chiamati captatori occulti, in grado di introdursi in computer, smartphone e tablet e di acquisire, da remoto, dati sensibili di ogni tipo.
Quintarelli, prima che la norma fosse ritirata, l’aveva definita «una delle operazioni più invasive che lo Stato possa fare», perché il remote computer searches non è una semplice intercettazione, come quelle telefoniche o ambientali, bensì una vera e propria «ispezione, una perquisizione, un'intercettazione e un'acquisizione occulta di dati personali».
Qualcosa di molto simile ai software spia commercializzati da Hacking Team, la società milanese finita nella bufera a luglio dopo l’attacco hacker che ha svelato le potenzialità del suo sistema Galileo venduto in tutto il mondo.
Non tutti sono contrari all’utilizzo dei “trojan di Stato”, in primis i servizi segreti, che da tempo sollecitano di mettersi al passo con i tempi e con le altre intelligence straniere che utilizzano abitualmente sistemi molto invasivi per “rastrellare” stock di metadati, cioè l’insieme di informazioni che identificano chi c’è dietro un computer o uno smartphone, cosa sta comunicando e dove si trova. ...continua a leggere "Terrorismo, il dibattito sull’uso del trojan di Stato"

intercettazioniGli italiani si abituino ai problemi di connessione, ai frequenti black out delle reti, ai social network e alle app per messaggistica temporaneamente inaccessibili e alle difficoltà di effettuare chiamate, anche se lo smartphone dice che c’è abbastanza campo. Saranno questi i “disservizi” più frequenti a cui assisteremo nei prossimi mesi, in particolare nelle grandi città. È il prezzo che, con ogni probabilità, sarà necessario pagare per difenderci dalla minaccia terroristica, anche se l’efficacia della sorveglianza di massa è tutta da dimostrare, come abbiamo imparato dall’11 settembre 2001 in poi.
Poco male per 9 italiani su 10 che, secondo un sondaggio Demos per il quotidiano La Repubblica, si dicono favorevoli a un aumento della sorveglianza di strade e luoghi pubblici attraverso le telecamere, e la metà di essi (il 46%) vorrebbe rendere più facile alle autorità anche il controllo sulle comunicazioni elettroniche, dalle e-mail alle telefonate.
Tuttavia il tema è delicato, c’è in ballo la privacy e la libertà di tutti coloro che non hanno nulla a che fare con il jihad. Il Giubileo impone uno straordinario sforzo per gli apparati della sicurezza nazionale, che comprende un uso intensivo delle tecnologie di sorveglianza di massa nei confronti di precisi target, ma anche del resto dei cittadini che ogni giorno utilizzano il cellulare o il computer per comunicare. ...continua a leggere "Sorveglianza di massa: limiti e controversie"

kamikazeNel 2009, davanti all’anti-terrorismo italiano, il tunisino salafita Riad Jelassi - primo pentito di al Qaeda che ha scelto di raccontare, in Italia, il suo inferno nel cuore della jihad - pronunciò queste parole che fanno tremare i polsi: «Quando uno muore, va bene, cosa possiamo fare. Quando muore una persona cara, ci dispiace, piangiamo, ma la vita continua. Invece con questi discorsi, quando parlano della morte, insistono nel spiegarti e nel parlare della morte, che diventa un trauma, un’ossessione». E ancora: «Arrivi al punto che quando sei solo a casa, tutto diventa niente! L’unica cosa certa nella vita è la morte. Allora perché devo lavorare? Perché mi devo sposare? Perché devo fare figli? Il giorno della nascita di una persona è praticamente una condanna a morte».
Jelassi, secondo il criminologo che lo ha analizzato su ordine della procura di Milano nel corso di una dozzina di sedute, ha subito un «lavaggio del cervello» da parte degli imam. Si è salvato per un soffio, e poi ha iniziato a raccontare quello che sapeva e quello che ha vissuto sulla sua pelle. Aprendo agli inquirenti italiani un mondo. Il mondo di quei kamikaze che, con i tragici fatti di Parigi, sono tornati a riempire prepotentemente le cronache europee: dagli attentatori-suicidi del 13 novembre fino alla donna che si è fatta esplodere durante il blitz del 18.
A 27 anni, nel 1997, Jelassi era fuggito dalla Tunisia. Voleva studiare musica, ma suo padre, a colpi di cinghiate, non glielo aveva permesso: «Perché la musica è l’arte del diavolo». Tra le mura di casa, dove si praticava la sharia, aveva subito ogni sorta di violenza e umiliazione, fisica e psicologica. Poi un giorno un amico lo aveva convinto a fuggire in Italia, a Milano. È lì che Jelassi si è avvicinato alle moschee, ha iniziato a spacciare documenti falsi in nome di Allah e a guadagnare molto. L’imam è presto diventato la sua figura di riferimento. ...continua a leggere "Jihad, storia di un kamikaze pentito"