Cosa nostra non è stata sconfitta, è ancora fortemente radicata sul territorio, mantiene la sua storica architettura e le sue potenzialità “militari”. A dirlo è la Direzione investigativa antimafia nell’ultima relazione consegnata al Parlamento, quella relativa al secondo semestre 2016. La Dia rileva come la criminalità organizzata siciliana “manifesti ancora una significativa resilienza rispetto alla efficace e sistematica azione di contrasto svolta da Forze di Polizia e Magistratura”. Gli spunti di analisi offerti da recenti acquisizioni investigative mostrano, infatti, come Cosa nostra “mantenga un’architettura interna imperniata sulle famiglie mafiose, interpretata in maniera più flessibile rispetto al passato, ma tale da preservare, nel rapporto con il territorio, il proprio atavico e ramificato potere illegale”.
La mafia, dunque, sopperisce ai colpi inferti dallo Stato “con una considerevole capacità rigenerativa, attraverso ‘emergenziali’ alternanze nelle reggenze che, pur non risultando sempre sufficientemente autorevoli, le consentono di ovviare alla prolungata assenza di una leadership di qualità”. Un elemento di continuità che secondo la Dia è costituito “dai ruoli mantenuti dagli anziani boss che, qualora detenuti, una volta dimessi dagli istituti penitenziari, rivestono le antiche cariche e si dedicano alla riqualificazione e riorganizzazione delle cosche”. “Da questo punto di vista – scrive ancora la Direzione investigativa antimafia -, resta prioritaria, specie tra le famiglie palermitane, la questione di dotarsi di un nuovo apparato dirigenziale che soppianti la vecchia ala corleonese in declino e ripristini una guida che funga da raccordo sovra-familiare, idonea a contenere i momenti conflittuali”. Proprio negli assetti di vertice di Cosa nostra si registrano “ricorrenti fibrillazioni e contrapposizioni interne” che secondo gli investigatori dell’antimafia “sono originate dal diffuso malcontento verso elementi apicali, dagli stessi accoliti ritenuti inadeguati a garantire il rispetto delle regole associative, a dirimere i contrasti tra famiglie e a fronteggiare le emergenze”.
La Dia, parlando di Cosa nostra, sottolinea, inoltre, che risultano “ancora elevate le potenzialità ‘militari’ delle consorterie siciliane, nella pregnante necessità di produrre ‘offesa’, in modo da affermarsi tanto nell’antagonismo tra famiglie, quanto nel rapporto con il territorio”. Una propensione più evidente nelle province orientali, nelle quali Cosa nostra “convive storicamente con la ‘stidda’, emerge anche nell’area palermitana dove, in alcuni casi, le tensioni interne non sono sfociate in faide solo per il tempestivo intervento di Forze dell’ordine e Magistratura”. Dall’analisi del fenomeno “sembra potersi ritenere che l’approvvigionamento delle armi, rinvenute e sequestrate in notevole quantità anche in questo semestre, sia prodromico, altresì, all’incremento di reati di forte impatto sulla collettività quali intimidazioni, minacce e rapine”. Lo screening dei provvedimenti restrittivi, sottolinea ancora la Dia, evidenzia come tra gli autori di questi delitti “vi siano stretti congiunti di elementi apicali delle cosche che non disdegnano tali condotte, utili a fare cassa velocemente, esprimendo, allo stesso tempo, l’arroganza criminale dell’appartenere a ‘blasonate’ famiglie di cosa nostra”. Ciò, a parere della Dia, “è sintomatico di una crescente tendenza da parte dei sodali mafiosi a gestire ‘sottosistemi criminali’ dediti alla commissione di reati di livello inferiore, un tempo appannaggio della delinquenza comune”. Le estorsioni restano, comunque, lo strumento attraverso il quale le consorterie manifestano maggiormente il loro potere coercitivo e intimidatorio sulla collettività e i mercati, nonché su settori nevralgici delle pubbliche amministrazioni.
Le indagini confermano, infatti, come per la criminalità organizzata “sia di importanza strategica garantire la continuità nella gestione delle estorsioni, specie in quelle aree dove ‘pulsa’ il cuore dell’economia siciliana e si concentrano attività di differente natura, dimensione ed importanza tali da assicurare, nell’insieme, un flusso costante di ricchezza”. Non di rado, nel contesto estorsivo, maturano le condizioni propizie anche per praticare l’usura, “spesso votata alla subdola acquisizione di attività produttive e di beni immobili, attraverso meccanismi trasversali di finanziamento”. Il traffico di stupefacenti resta il business preferito dalla criminalità organizzata siciliana, è “gestito direttamente da sodali e/o personaggi che le sono contigui, in quanto moltiplicatore di capitali, i cui cospicui utili vengono reinvestiti in attività anche lecite. Si tratta, infatti, dell’affare per eccellenza, quello più remunerativo e con un inesauribile bacino di utenza, atteso che la domanda, in generale, non denota flessioni e continua a garantire spazi di ingerenza a tutta la criminalità, più o meno strutturata”.
In questo contesto, scrive ancora la Direzione investigativa antimafia, l’asse Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, “talvolta sotto forma di vere e proprie joint-venture”, risulta ancora più consolidato e “testimonia assidue interlocuzioni trasversali tra consorterie di diversa estrazione, spesso con il coinvolgimento di criminali stranieri”. L’individuazione dei canali di rifornimento, europei ed intercontinentali, conferisce al traffico di stupefacenti sempre più le connotazioni di reato transnazionale. Continua, infatti, a registrarsi l’immissione nell’Isola, ed in particolare nella parte orientale, di droga dall’area balcanica, in prevalenza dall’Albania (marijuana e hashish) transitando per Puglia e Calabria, nonché dall’Olanda (cocaina). La distribuzione sul territorio di rispettiva influenza, incluso lo smercio al minuto, “costituisce il segmento della filiera caratterizzato dalla partecipazione di soggetti di diverso spessore criminale e provenienza, tendenzialmente più inclini a fibrillazioni per la contesa delle piazze di spaccio”. “Le interconnessioni tra famiglie e compagini malavitose di altra matrice – aggiunge in tal senso la Dia – sembrano perpetuare, peraltro, un meccanismo consolidato di placet e scambio di favori, funzionale ad equilibri territoriali ed economici”. Emblematica “per i consolidati canali nel traffico di sostanze stupefacenti” la vicenda della latitanza, trascorsa nella frazione di Belvedere di Siracusa, di Vincenzo Alvaro, capo indiscusso dell’omonima ‘ndrina calabrese.
Il rapporto tra consorterie mafiose e criminalità allogena, sottolinea la Dia, “si declina sempre in termini di supremazia delle prime che, direttamente o indirettamente, mantengono saldo il controllo del territorio e tollerano, in limitate aree, l’operatività di gruppi organizzati stranieri – stanziali e non – che alimentano significative sacche di delinquenza”. Tendenzialmente, i criminali stranieri “sono dediti a tutte quelle attività afferenti allo sfruttamento della persona, lucrando sulla disperazione di connazionali clandestini, spesso schiavizzati in vari modi, con la falsa promessa di potersi un giorno affrancare da ‘padroni’ e caporali senza scrupoli”. Secondo gli analisti dell’antimafia, le dinamiche associative di alcuni gruppi stranieri che operano in Italiano “sono assimilabili a quelli delle consorterie mafiose”. Emblematici, in questo caso, gli elementi raccolti nell’ambito dell’operazione “Black Axe”, che ha fotografato le attività illecite transnazionali di un’organizzazione dedita appunto all’immigrazione clandestina di africani, alla gestione della prostituzione e del traffico di sostanze stupefacenti. “I destinatari del provvedimento – scrive la Dia -, quasi tutti cittadini nigeriani, sono risultati aderenti alle cosiddette confraternite, vasti e ramificati network criminali internazionali, i quali, organizzati su base clanica, sottomettono gli affiliati terrorizzandoli con riti voodoo”.
La ‘ndrangheta, scrive la Dia, è “orientata verso un consolidamento della struttura associativa” mantenendo la fisionomia di un’organizzazione “fortemente strutturata su base territoriale, articolata su più livelli, provvista di organismi di vertice e allo stesso tempo ramificata nella società calabrese e non solo, perché presente ed operante in forma unitaria sul territorio della provincia di Reggio Calabria, sul territorio nazionale ed all’estero, costituita da numerosi locali, caratterizzata da strutture distaccate a carattere intermedio, articolata in tre mandamenti e dotata di organo collegiale di vertice denominato Provincia”. Le indagini confermano la significativa dinamicità della ‘ndrangheta, “interessata non solo a proiettarsi nel ricco e prosperoso settentrione, ma capace di perseguire, anche fuori dai confini nazionali, obiettivi imprenditoriali di ampio respiro, cooptando qualificati professionisti in quella che può definirsi una gestione manageriale del malaffare”.
Contestualmente al consolidamento nel sistema imprenditoriale e finanziario, perseguito anche grazie alla disponibilità di ingenti capitali da reimpiegare nei circuiti dell’economia legale, la ‘ndrangheta, come evidenziato da recenti inchieste, “ha mantenuto inalterata la capacità di interferire nelle pubbliche Amministrazioni, specie in ambito locale”. Secondo gli analisti della Dia le nuove generazioni criminali “hanno maturato capacità manageriali che, favorite dalla elevata scolarizzazione, consentiranno operazioni finanziarie ed economiche sempre più complesse, anche in settori innovativi”. Si tratta di un’evoluzione delle tradizionali attività criminali in direzione di una imprenditoria mafiosa moderna, “caratterizzata da modalità operative agili e funzionali a penetrare la realtà socio-economica, anche attraverso sistemi corruttivi e collusivi”. Evoluzione intesa anche come immediata capacità di adattamento al contesto socio economico di riferimento, “sia attraverso la diversificazione e stratificazione delle attività, che mediante nuove modalità di relazione col territorio, ispirate al basso profilo ed alla ricerca di complicità e connivenze, da conseguire senza alcuna violenza, di per sé foriera di sgradite attenzioni giudiziarie”.
Per quanto riguarda la Camorra, alcune aree del territorio regionale campano continuano ad evidenziare uno scenario “instabile e in costante trasformazione”. “La realtà criminale – scrive la Dia – appare significativamente diversa da zona a zona, con riferimento alle strutture, agli obiettivi e al modus operandi dei singoli clan”. A Napoli e provincia, la presenza di un numero elevato di gruppi, privi di un vertice in grado di imporre strategie di lungo periodo, continua a determinare la transitorietà degli equilibri”. Precarietà e inconsistenza rappresentano, infatti, “le caratteristiche dei gruppi emergenti, nonostante tra le loro fila militino soggetti provenienti da storici sodalizi, quali i Giuliano e i Mazzarella di Napoli”. L’antimafia conferma, inoltre, “l’abbassamento dell’età degli affiliati e dei capi, con la trasformazione dei clan in ‘gang’, più pericolose per la sicurezza pubblica rispetto a quanto accadeva in passato, quando ogni gruppo era in grado di ‘mantenere l’ordine’ sul proprio territorio, frenando ogni iniziativa estemporanea da parte di altri sodalizi”. Molteplici, secondo la Direzione investigativa antimafia, le cause che hanno contribuito alla destabilizzazione di talune organizzazioni: “le scissioni interne, l’incapacità di dotarsi di un apparato militare efficace e l’impossibilità di garantire mensilmente stipendi ad affiliati e famiglie dei detenuti”.
Sul piano organizzativo, al posto delle passate strutture criminali vanno quindi affermandosi “nuove compagini, che agiscono con particolare violenza e sfrontatezza, spinte da un’esasperata mania di protagonismo, espressa anche attraverso scorribande armate ed esplosioni di colpi di arma da fuoco (le cosiddette ‘stese’)”. I clan che operano soprattutto in alcune zone di Napoli (Sanità, Forcella, zona Mercato, Pianura, Soccavo, Ponticelli, San Giovanni, Barra) sembrano aver elaborato “un’identità comunicativa collettiva per riconoscersi fra loro e diversificarsi, allo stesso tempo, dagli altri gruppi (barbe lunghe e folte, tatuaggi autoreferenziali di appartenenza ad un clan), per quanto la militanza all’interno di un sodalizio risulti comunque estremamente precaria”. Una geografia criminale che secondo la Dia mostra “tanti piccoli ‘eserciti’ senza una vera e propria ‘identità criminale’, che utilizzano la violenza come strumento di affermazione ed assoggettamento, ma anche di sfida verso gli avversari”. L’elevato numero di episodi omicidiari, ferimenti e atti intimidatori, confermano la persistenza di instabilità e “molteplici focolai in precise aree del capoluogo e nella immediata provincia”. Accanto a questa nuova fisionomia sopravvivono alcuni clan storicamente e saldamente radicati sul territorio, “che continuano a preservare la propria forza attraverso le nuove generazioni, puntando su grossi traffici internazionali e investimenti finanziari”. Una delle fattispecie delittuose sicuramente più diffuse nell’area metropolitana è lo spaccio di sostanze stupefacenti, “praticato quasi sempre da giovanissimi, per conto delle organizzazioni camorristiche”. Sono state acquisite anche significative conferme delle consolidate relazioni affaristiche tra narcotrafficanti campani, siciliani, calabresi e di nazionalità spagnola.
Sul fronte della criminalità straniera in Italia, sempre secondo la Dia, sono ormai radicate alcune formazioni criminali straniere “che stanno evolvendo verso forme sempre più pericolose, tendendo a passare, rapidamente, da una originaria funzione sussidiaria svolta a favore dei clan italiani, alla conquista di autonomi spazi operativi”. Una di queste è la Black axe confraternity, composta da criminali nigeriani ormai stanziali in Italia e dedita alla commissione di gravi delitti e che si scontra, anche violentemente, con gruppi rivali. “Come emerso da diverse attività d’indagine – scrive l’antimafia -, gli appartenenti alla ‘confraternita’ hanno creato una delle loro basi in Sicilia, in particolare a Palermo, con il consenso di Cosa nostra che, nel caso specifico, avrebbe optato per una strategia non interventista; le famiglie mafiose, difatti, avrebbero mantenuto il controllo delle attività illecite che si svolgono nelle zone di propria competenza, limitandosi ad ‘imporre la propria protezione’ ai traffici appannaggio dei nigeriani”. In Puglia, le formazioni criminali dotate di maggior potenzialità offensiva, rispetto a quelle di altre etnie, risultano essere quelle albanesi. “Le inchieste degli ultimi anni – aggiunge la Dia – stanno evidenziando la costante e graduale integrazione di soggetti di quella nazionalità nei circuiti criminali locali, per i quali risulterebbero talora referenti privilegiati nella conduzione di specifiche attività, come i traffici di stupefacenti e di armi”.
Il terreno d’incontro privilegiato tra i sodalizi italiani e le organizzazioni criminali straniere rimane il mercato della droga, “per il quale sarebbero in grado di garantire un costante approvvigionamento, grazie ai consolidati rapporti di collaborazione con gruppi delinquenziali che operano oltre confine (Albania, Spagna e Olanda)”. Nelle aree urbane del centro-nord Italia, le organizzazioni straniere sarebbero riuscite “ad appropriarsi di ampie quote di mercato, grazie alla capacità di gestire l’intera filiera: dall’importazione da altri Paesi (Olanda, Spagna, Sud America, Nord Africa e Medio Oriente), allo stoccaggio ed alla commercializzazione, con la creazione di network che coinvolgono gruppi di diverse nazionalità, ivi compresi gli italiani”. Il traffico degli esseri umani “è diventato un ulteriore, importante canale di finanziamento della criminalità straniera operante a livello internazionale, per la cui realizzazione verrebbero utilizzate le medesime direttrici del contrabbando e del traffico di merci illegali”. La Dia sottolinea che pur non essendo emerso dall’analisi delle evidenze info-investigative “il diretto coinvolgimento della criminalità mafiosa” nella tratta di essere umani “non è da escludere, invece, che i trafficanti di migranti possano aver stretto relazioni con le associazioni criminali nazionali quantomeno per possibili forme di agevolazione, quali, in particolare la fornitura di documenti falsi”.
Nell’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia si fa riferimento anche alla criminalità romana. Nell’area metropolitana della Capitale, scrive la Dia, “sono radicati sodalizi autoctoni cui l’Autorità Giudiziaria ha riconosciuto la connotazione mafiosa”. Le indagini confermano la presenza di sodalizi dediti all’usura, alle estorsioni e al commercio di armi. “La realtà criminale romana – scrivono gli analisti della Dia -, molto complessa e variegata, non si esaurisce tuttavia nella diffusa corruttela. Insieme a quest’ultimo risultano coabitare infatti altre forme di criminalità, organizzata e comune, dedite al narcotraffico, ma anche alle estorsioni, all’usura, alle truffe e al gioco illegale. Nel settore degli stupefacenti spicca l’operatività di formazioni criminali strutturate, con ramificazioni in Italia e all’estero. Si conferma l’operatività del clan Casamonica, la cui componente principale, rappresentata dalla famiglia di estrazione Romanì (sinti e rom stanziali) e giunta nella Capitale negli anni 60-70 dall’Abruzzo, risulta essersi gradualmente imparentata con altre famiglie rom, quali gli Spada, i Di Silvio, i De Rosa, gli Spinelli. Propaggini del clan risultano radicate anche nel basso Lazio e in Abruzzo”. La Dia segnala infine il rinnovato interesse di ex militanti della Banda della Magliana “verso il settore degli stupefacenti, delle sale scommesse, del gioco d’azzardo e degli investimenti immobiliari”.