Erano le 9.02 del 16 marzo 1978, quando la Fiat 132, guidata dall'appuntato Domenico Ricci e con a bordo il presidente della Dc e il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, percorreva via Fani, seguita dall'Alfetta con i tre agenti della scorta, Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Le due vetture erano partite, come quasi ogni mattina, dall'abitazione di Moro, in via del Forte Trionfale, e, seguendo il percorso abituale verso il centro, avevano raggiunto via Fani.
L'agguato avvenne nell'arco di una manciata di minuti davanti al bar Olivetti, a pochi metri dall'incrocio con via Stresa. Una Fiat 128 con targa diplomatica, guidata dal brigatista Mario Moretti, frenando bruscamente tamponò l'auto di Moro. Nei successivi tre minuti il commando di brigatisti, che secondo le ricostruzioni ufficiali era formato da 9 persone che indossavano divise di avieri civili, annientò gli uomini della scorta e sequestrò il presidente della Dc.
«Lo studio topografico e balistico delle traiettorie da parte degli esecutori è stato perfetto, e per lasciare integro Moro, e per evitare l’eventuale ferimento dei complici, con una regola di economia di uomini da manuale», scrivono i periti ricostruendo quanto avvenne in via Fani. Ma sulla dinamica di quell'assalto, ancora oggi, rimangono molti lati oscuri, a partire proprio dal numero di componenti del commando. I dubbio riguardano l’effettiva composizione del nucleo di fuoco che partecipò all’agguato, come sottolineava Alfredo Carlo Moro, magistrato e fratello di Aldo, nel libro “Storia di un delitto annunciato”.
«I brigatisti - scriveva il magistrato -, come hanno essi stessi riconosciuto, non erano adeguatamente addestrati per un’impresa così difficile, e sul fatto che erano anche dotati di armi non molto efficienti perché facilmente si inceppavano». Una circostanza, questa, che da sempre mette in discussione gran parte delle certezze acquisite dalle successive inchieste a partire proprio da quei 91 bossoli rinvenuti in via Fani. Di questi 49 risultano esplosi da un’unica arma, 22 da un’altra e il resto dalle altre impiegate nell’agguato.
I dubbi riguardano proprio quei 49 colpi esplosi da un'arma che spara con freddezza ed estrema precisione. La imbracciava qualcuno che aveva grande esperienza con le armi, un soggetto addestrato come un "tiratore scelto", e come sappiamo tra i brigasti - per loro stessa ammissione - non c'era nessuno in grado di sparare in quel modo. «Si tratta dell’individuo che descrive un testimone che ha visto molto bene tutte le fasi dell’agguato», scrive ancora Alfredo Carlo Moro.
Il misterioso cecchino esplose due raffiche: la prima, un po’ più corta, a distanza ravvicinata rispetto al bersaglio, e la seconda più lunga che con un balzo indietro permise al tiratore di allargare il raggio d'azione. «Lo sparatore mostrava estrema padronanza dell’arma. Sparava avendo la mano sinistra poggiata sulla canna - scrive ancora Moro - e con la destra imbracciava il mitra, tirava con calma e determinazione, convinto di quello che faceva».
«Sia nella prima consulenza per la procura nell'immediatezza del fatto che nelle perizie balistiche eseguite successivamente in sede dibattimentale ed istruttoria scrissi che nell'agguato di via Fani per rapire Moro, vi fu un fuoco incrociato da parte delle Brigate Rosse. Lo dimostravano i fori dei proiettili ed il numero delle armi», spiegò nel 2003 all'Adnkronos il perito balistico Antonio Ugolini.
Il fuoco contro la scorta di Moro, al contrario di quanto sostenuto dagli ex Br nella ricostruzione dell'agguato, fu aperto su due fronti, sia da destra che da sinistra della strada. Almeno relativamente all'auto sulla quale si trovava il presidente della Dc. In merito ai 49 colpi il perito disse che con verosimiglianza «furono sparati da una sola pistola mitragliatrice utilizzando due caricatori, mettendo a segno buona parte dell'operazione. Tanto che sul posto venne trovato un caricatore con alcune cartucce, dimostrando che l'arma si era anche inceppata: «i caricatori della pistola mitragliatrice Fna 43 erano da trentadue o trentasei colpi ed uno, come noto, fu estratto perché l'arma si era inceppata». Tuttavia nel 1997, Valerio Morucci, uno membri del commando brigatista di via Fani, affermò che gli «Fna a sparare erano due», aggiungendo quindi che «la perizia balistica ha accomunato i colpi sparati da entrambe le armi».
di Fabrizio Colarieti