La prima misteriosa figura, che entra ed esce dalle oscure vicende siciliane apparterrebbe a un agente del Sisde, il servizio segreto civile (oggi Aisi). Secondo i racconti di alcuni testimoni - che lo chiamano in causa in almeno quattro vicende (tre delitti e un fallito attentato) - aveva un volto sfigurato, paragonabile solo a quello di un mostro, ma nulla a che fare con il dipendente regionale. Nelle storie di mafia, “faccia da mostro”, c’è dentro fino al collo. Gli inquirenti pare non lo abbiano ancora identificato e pare anche che non sia servito a nulla il tentativo, compiuto il 18 novembre dai magistrati di Palermo e Caltanissetta, di ottenere nuove informazioni dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, attraverso un ordine di esibizione di atti del Sisde e del Sismi, finora rimasti riservati.
Gli affari riservati
Tuttavia, secondo quanto è riuscito a ricostruire il Punto, “faccia da mostro” sarebbe stato un sottufficiale della polizia di Stato, di origini siciliane. Per anni, almeno così pare, in servizio presso l’Ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno, alle dipendenze di Federico Umberto D’Amato (tessera P2 n. 554). Poi, intorno al ‘84, il misterioso agente segreto sarebbe transitato nella sezione “criminalità organizzata” del centro Sisde di Palermo (via Notarbartolo). Tra l’89 e il ‘92 era alle dirette dipendenze di Bruno Contrada, il numero tre del Servizio condannato nel 2007 a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. “Faccia da mostro” sarebbe rimasto in servizio a Palermo fino al ‘96 e tutta la sua carriera si sarebbe svolta lì, poi la pensione e una collaborazione esterna con il Sisde che si sarebbe definitivamente conclusa nel ‘99. Scompare, a causa del tumore che nel frattempo gli ha aggredito il volto, nel 2004.
Il pentito
Ne parla anche la “gola profonda” Luigi Ilardo, il mafioso, vicerappresentante provinciale di Caltanissetta, cugino e braccio destro del boss Giuseppe “Piddu” Madonia, che nel ‘95 aveva messo sulle tracce di Bernardo Provenzano i carabinieri, ma un anno dopo gli tapparono per sempre la bocca. Ilardo confidò al colonnello Michele Riccio del Ros che a Palermo c’era un agente segreto con la faccia da mostro che frequentava strani ambienti, uno chiacchierato: insomma un uomo dello Stato che stava dalla parte sbagliata, antipatico ai mafiosi solo per via di quella faccia. Il confidente, parlando dello strano agente segreto, disse agli inquirenti: «Di certo questo agente girava imperterrito per Palermo. Stava in posti strani e faceva cose strane».
Il fallito attentato
Il suo nome, anzi il suo soprannome, comincia a saltare fuori nell’89, quando a parlare di lui è una donna che poco prima del ritrovamento di un ordigno vicino la villa di Giovanni Falcone, all’Addaura, lo notò da quelle parti, dentro un’auto, insieme a un altro individuo. La donna se lo ricorda proprio perché il suo volto era inguardabile. Era il 21 giugno 1989, Falcone aveva affittato per il periodo estivo quella villa sulla costa palermitana. Intorno alle 7.30 tre agenti di polizia trovano sugli scogli, a pochi metri dall’abitazione, una muta subacquea, un paio di pinne, una maschera e una borsa sportiva blu contenente una cassetta metallica. Dentro c’è un congegno a elevata potenzialità distruttiva. La bomba non esplode, l’attentato fallisce.
Delitto 1
“Faccia da mostro” è legato anche a una lunga scia di sangue e di strane morti, come l’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castellucci, avvenuto il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Agostino dava la caccia ai latitanti, pare anche per conto del Sisde, e sembra avesse informazioni sul fallito attentato all’Addaura. Le indagini non hanno mai chiarito, fino in fondo, come sono andate le cose, però sembra che l’agente, poco prima di morire, avesse ricevuto in casa una strana visita, quella di un collega con la faccia deforme. A dirlo è suo padre, Vincenzo, che riferì agli inquirenti che un giorno notò “faccia da mostro”, uno «con il viso deforme che prendeva o gli dava notizie», vicino l’abitazione del figlio. Per lui, quell’uomo, era l’inguardabile: «Quell’uomo è venuto a casa mia, voleva mio figlio. Quel tizio non è soltanto implicato nei fatti di Capaci e di via D’Amelio, ha fatto la strage in casa mia, quella in cui sono morti - disse ai magistrati il padre di Agostino - mio figlio Nino, mia nuora e mia nipote. Due persone vennero a cercare mio figlio al villino. Accanto al cancello, su una moto, c’era un uomo biondo con la faccia butterata. Per me era faccia di mostro».
Delitto 2
Un altro pesante sospetto lega “faccia da mostro” a un altro delitto, quello dell’ex agente di polizia Emanuele Piazza. Il suo nome in codice era “topo”, collaborava anche lui con il Sisde, era amico di Nino Agostino, ma non era ancora un effettivo. Figlio di un noto avvocato palermitano, era un infiltrato e dava la caccia ai latitanti quando, il 15 marzo 1990, scompare nel nulla. Molti anni dopo si saprà che fu “prelevato” con un tranello dalla sua abitazione da un ex pugile, vecchio compagno di palestra, portato in uno scantinato di Capaci, ucciso e sciolto nell’acido. Cercava la verità sulla morte del suo amico Antonino Agostino, forse l’aveva anche trovata, e anche lui sapeva qualcosa sull’Addaura.
Faccia da mostro-bis
«La Dia, incaricata dalla procura, - scrive Salvo Palazzolo nel libro “I pezzi mancanti” (Editori Laterza, 2010) - individua un dipendente regionale, già interrogato dopo il delitto Piazza, perché il suo nome era contenuto nell’agendina della vittima. È affetto da “cisti lipomatosa” nella parte destra del viso, risulta deceduto nel 2002. Le indagini - prosegue Palazzolo nella sua ricostruzione - dicono pure che ha fatto parte del comitato di gestione di una unità sanitaria locale, su indicazione dell’ex sindaco condannato per mafia Vito Ciancimino».
Delitto 3
Una traccia che lega l’agente segreto con la faccia da mostro a un’altra vicenda di sangue arriva addirittura dal lontano ‘86 ed è ancora il pentito Luigi Ilardo a chiamarlo in causa. Siamo a Palermo, quartiere di San Lorenzo, è il 7 ottobre ‘86, un bambino di 11 anni, Claudio Domino, viene ucciso mentre sta rientrando a casa. Lo freddano su un marciapiede, a colpi di pistola. Suo padre è il titolare di un’impresa di pulizie che lavora anche nell’aula bunker, ma non è un mafioso. Due pentiti raccontano che a uccidere il bambino sarebbe stato l’amante di sua madre (poi giustiziato da Cosa nostra), perché li avrebbe visti insieme. Secondo un altro boss, il piccolo Claudio Domino sarebbe stato ucciso (da un altro killer poi eliminato) perché, sbirciando in un magazzino, avrebbe visto confezionare alcune dosi di eroina. I giudici, tuttavia, crederanno ai primi due pentiti, accreditando la versione che il bambino vide l’amante di sua madre e per questo fu giustiziato. Ilardo, tuttavia, riferisce agli inquirenti che quel giorno, nel quartiere San Lorenzo, mentre veniva assassinato quel bambino, c’era anche “faccia da mostro”.
Massimo Ciancimino.
L’anomalia a Palermo, oggi, sono io. Uno che parla». Massimo Ciancimino, un ragazzone che nasconde con poca difficoltà i suoi 47 anni, scuote da diverso tempo i piani alti dei palazzi del potere. A Palermo come a Roma. E che ha visto da vicino le gesta di papà, Don Vito. Plenitpotenziario della Democrazia cristiana a Palermo. Punto di riferimento, secondo quella che ormai è una verità storica e giudiziaria, per la mafia del capoluogo che ingaggiò, perdendola, una guerra, che non voleva, contro i sanguinari ed avidi “viddani” capeggiati da Totò Riina. Fu Vito Ciancimino, il sindaco del “sacco” edilizio di Palermo, a caricarsi sul groppone il peso di una trattativa aperta proprio col fronte stragista di Costa Nostra per conto di uno Stato che tra il 1992 ed il 1993 non riusciva a stare a galla, né a recuperare credibilità nei cittadini. Provenzano sarebbe stato l’interlocutore privilegiato. Il personaggio più ragionevole e meno sfrontato di Totò Riina che nel “papello”, una vera e propria lista di “ordini”, fatto recapitare – proprio tramite Don Vito – a vertici investigativi del Ros dei Carabinieri che a loro volta informavano i piani alti del Viminale e di Via Arenula. Questa è almeno la ricostruzione che, a distanza di quasi 20 anni, il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, propone ai giudici di Palermo nell’ambito del processo proprio contro l’ex capo del Ros e, più di recente del Sisde, Mario Mori. La sua accusa è quella di favoreggiamento aggravato nei confronti di Bernardo Provenzano negli anni della sua latitanza. Nel 1996 era possibile catturarlo. Si sapeva dove si trovava e bastava l’ordine di procedere. Quell’ordine non arrivò mai e Provenzano mantenne il timone di Cosa Nostra, amministrando economia e giustizia in Sicilia, attraverso i famosi “pizzini” fino al 2006, anno della cattura. Dieci anni dopo. E la mancata cattura, secondo Ciancimino, fu un prezzo da pagare per le informazioni che proprio Provenzano offrì per consentire la cattura di Totò Riina. Un arresto sulle cui modalità un altro processo, contro il Capitano del Ros Sergio De Caprio, meglio noto come “Ultimo”, ha stabilito – col sigillo della Cassazione - che la mancata perquisizione del covo non fu una «cortesia» per Riina. Ma un evento fortuito, del quale “Ultimo” non va considerato responsabile. Massimo Ciancimino oggi è un collaboratore determinante per almeno tre Procure italiane. Quella di Palermo, quella di Caltanissetta e quella di Firenze che indagano su un altro filone incandescente: i mandanti occulti alle stragi del ’92 e ’93 e la trattativa “Stato-mafia” della quale il padre, Don Vito, fu protagonista. Il figlio di Don Vito assisteva agli incontri, ascoltava i dialoghi, ha fatto l’ambasciatore, ma, soprattutto, ha messo le mani su quel che rimane degli appunti dell’ex sindaco di Palermo. Gli stessi su cui comparirebbero i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. I padri del partito-azienda “Forza Italia” che proprio in Sicilia attecchì con velocità portentosa e sempre nella Sicilia trova un prezioso serbatoio di voti. E Massimo Ciancimino ha visto «almeno un paio di volte» faccia da mostro. Ammesso che ce ne sia uno soltanto. Quell’uomo misterioso che diversi testimoni hanno incrociato nei luoghi che hanno segnato la storia recente d’Italia. Fu visto in Via D’Amelio il giorno dell’eccidio del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Passare su un’autovettura nei pressi della villa all’Addaura usata da Giovanni Falcone come residenza estiva, quando fu rinvenuto un borsone imbottito di esplosivo ad alto potenziale poco prima che incontrasse due magistrati svizzeri coi quali collaborava. Un volto sfigurato, dall’aspetto rivoltante. Una faccia brutta da guardare che rimaneva impressa nella memoria di chi lo incrociava. Braccio operativo dei servizi segreti a Palermo, secondo qualcuno; un semplice faccendiere con le mani in pasta, secondo altri. Ma che negli anni ’80 aveva contatti col sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, è confermato anche dal figlio Massimo. Raggiunto telefonicamente da Il Punto, Ciancimino spiega di «poter rivelare, al momento, solo poche informazioni» perché su questo tema (il coinvolgimento dei servizi nelle stragi e nella trattativa, ndr) indaga la Procura di Caltanissetta. «Per quel che ricordo io – spiega – potrebbe essere un funzionario regionale ed in questo caso ho bene in mente la sua identità, ma non posso dire di chi si tratta. Di certo non una personalità di alto livello. Non come il signor Franco». Franco, certo, quel nome, alternato ad un altro, Carlo, che coincide, con un pezzo da novanta dell’intelligence di casa nostra, vicinissimo a Don Vito finché rimasto in vita e, successivamente, al fianco di Massimo Ciancimino. Potrebbero essere due gli uomini col volto sfregiato, da una ferita o da una deformazione congenita, ricordati come “faccia da mostro”. «Sono già stato sottoposto ad un riconoscimento fotografico dalla Procura di Caltanissetta – racconta Ciancimino – con esito positivo. Gli inquirenti sanno». Si vedeva con Don Vito, questo è certo, perché – continua Ciancimino – «aveva un ruolo importante nell’amministrazione regionale». Di cosa parlassero, però, non è dato sapere. «Io non posso dire di più» – è secco Ciancimino – che poi torna sul signor Franco. Franco o Carlo? «Si tratta della stessa persona. Io chiamavo Franco, ma mio padre a volte lo chiamava Carlo. Un livello molto più alto di quello che lei definisce mostro». Che forse però ebbe una stretta relazione, collaborazione, o solo un confidente, con Bruno Contrada. Il “mostro” di cui lei ricorda sapeva, ad esempio, della trattativa condotta da suo padre? «No, no. Mio padre… sapeva anche delle sue…». Rapporti col Sisde? «Forse, ma lo consultava per altri motivi». Ad esempio? «Non posso dirglielo, ma questa persona aveva un ruolo importante all’interno dell’amministrazione regionale». Però «l’ho visto parlare una volta a casa mia col signor Franco». Di agenti del Sisde come il signor Franco, suo padre, ne incontrava tanti? «No, ma – aggiunge – non credo che il signor Franco fosse un semplice agente, assolutamente. Apparteneva ad un livello certamente superiore». Il mostro, invece, forse non è più vivo. «Si dice che potesse essere morto, ma non lo so. Dalla foto che ho visto non saprei immaginare la data a cui risale». Invece, quasi sicuramente, è ancora vivo e operativo il signor Franco. Quell’uomo un po’ consigliere e un po’ burattinaio di secondo livello di Vito Ciancimino pronto ad assistere anche il figlio, Massimo. Finché questi non ha deciso di vuotare il sacco e raccontare tutto quello che sa o che ricorda. C’è da fidarsi? «Io racconto quello che ho sentito dire a mio padre e ho consegnato documenti che erano in possesso di mio padre. Poi sarà compito dei magistrati stabilire se quello che dico è vero o no». E lui, che si definisce l’anomalia palermitana, continua a domandarsi: «Perché si discute del perché io parlo, dopo 17 anni, e non della gente che sa ed ha perso improvvisamente la memoria?».
Il Punto - di Fabrizio Colarieti - 12 marzo 2010 [pdf]