Poggio Ballone (Grosseto), 27 giugno 1980, ore 20.59. Il DC9 è ormai sul Punto Condor. Nella sala di controllo del centro radar dell’Aeronautica militare di Poggio Ballone, punto strategico per la difesa aerea nel centro-nord Italia, una dozzina di militari sono impegnati davanti agli schermi radar. La sala operativa è in eccezionale attività: le sue antenne sono in costante collegamento con la base aerea di Grosseto e con la rete Nato. Nei minuti successivi alla scomparsa dai radar di Ciampino del volo Itavia IH-870, i militari di Poggio Ballone sono iperattivi nelle telefonate di ricerca. Dalle ventuno e trentuno alle ventitre e cinquantaquattro i telefoni si fanno bollenti: numerose le chiamate con e verso Roma Ciampino, il centro radar di Marsala e l’aeroporto di Palermo Punta Raisi, dove l’aereo civile doveva atterrare intorno alle ventuno e tredici. Lo scopo è rintracciare il Dc9 scomparso e di cui la drammatica sequenza di chiamate senza risposta di Ciampino, trasmessa via radio, sembra essere l’unica scia lasciata dall’aeromobile.
Tra i militari impegnati nella tenace ricerca c’è anche il maresciallo di seconda classe, Mario Alberto Dettori, assistente controllore di difesa aerea. È da qui che occorre raccontare una storia: quella di Mario Alberto Dettori. Lo avevamo “intercettato” al centro radar di Poggio Ballone la sera del 27 giugno 1980 davanti a uno schermo radar che trasmetteva in diretta la tragica scomparsa del Dc9, una tragedia capace di uscire dal monitor e rendere tutti protagonisti. Lo rivediamo il 28 giugno, la mattina seguente al disastro. Alberto, così lo chiamano tutti, vive a Grosseto una vita serena con la moglie Carla e i tre figli Barbara, Andrea e Marco. Normalmente è un tipo amabile e tranquillo ma quella mattina è agitato, nervoso, distratto, sfuggente allo sguardo di Carla con un insolito silenzio. Indossa ancora la divisa sgualcita dal suo turno di notte, quando in cucina la donna lo incoraggia a confidarsi, ma lui si limita a dire: «è successo un casino, qui vanno tutti in galera». Carla, preoccupata, gli chiede se ha litigato con qualche commilitone ma lui, mostrandosi ancora più nervoso, risponde: «no, magari fosse successo…». Carla non insiste, del resto lo conosce, sa che lui parla poco del suo lavoro, non domanda altro.
Località Sassi Bianchi, frazione di Grosseto, 31 marzo 1987. Ora un passo indietro. Sono passati sette anni da quell’insolita mattina. Intorno alle diciassette i Carabinieri della stazione di Grosseto vengono avvertiti, via radio, dalla centrale operativa e inviati nell’agro del comune di Grosseto, nella frazione di Sassi Bianchi, lungo via delle Sante Marie che, da Spadino, porta a Istia d’Ombrone. La segnalazione giunta al 112, è molto precisa: parcheggiato sulla riva sinistra del fiume Ombrone, un furgone Ford Transit e poco distante un uomo appeso a un albero. I Carabinieri segnalano tutto questo alla centrale prima di accorgersi che quell’uomo è esattamente il protagonista di questa storia, Mario Alberto Dettori, e quel camioncino aperto è proprio il suo. Le chiavi di accensione sono nel cruscotto privo di documenti. Poco dopo arriva il dottor Alessandro Baldini, medico legale alla Usl di Grosseto, compie una prima ricognizione del cadavere, i Carabinieri scattano delle foto e viene descritta dettagliatamente la scena. Non ci sono testimoni: specialmente nei mesi invernali da quella zona, immersa nei terreni agricoli, non passa mai nessuno, e nei pressi non c'è nessuna abitazione. Conclusi tutti gli adempimenti burocratici, con l’aiuto del medico, i militari slegano dall’albero il cadavere e lo sistemano su un’autoambulanza che nel frattempo li ha raggiunti. Quattro ore dopo, nell’obitorio del cimitero di Sterpeto a riconoscerlo ufficialmente, affermando che quell’uomo è il maresciallo di seconda classe, Mario Alberto Dettori, nato a Pattada in provincia di Sassari il 15 agosto 1948, sono due ufficiali dell’Aeronautica militare: il tenente colonnello Carlo Arrivas, comandante del centro radar di Poggio Ballone, e il maggiore Giuseppe Foschi.
Sono le otto e un quarto quando Dettori esce per andare ad accompagnare a scuola Marco, il figlio più piccolo, e per andare a prendere l’acqua, come racconterà la moglie agli inquirenti, in un fontanile in località Poggio alla Mozza. Nessuno in casa, al mattino, nota nulla di strano, Alberto è tranquillo come sempre. Trascorrono diverse ore e sua moglie, intorno alle sedici, non sostiene più il peso di quel brutto presentimento: preoccupata per la prolungata e inusuale assenza del marito si rivolge ai colleghi. Uno di loro, Michele C., anche lui in servizio a Poggio Ballone, passa a prendere Carla e iniziano a cercare Alberto. Il brutto presentimento è condiviso da entrambi all’interno dell’automobile che, per quanto appesantita dal silenzio, è spedita verso Poggio alla Mozza. Gli è successo qualcosa, perché Alberto non si è mai allontanato da casa per così tanto tempo. Arrivano al fontanile, proprio dove Alberto doveva andare, ma neanche lì c’è. Proseguono fino alla riva del fiume Ombrone, a Sassi Bianchi e lì è proprio Michele ad accorgersi di quel dannato albero e dell’uomo pendolante. Una manciata di secondi dopo è Carla a riconoscere il furgone e scorgere il corpo di suo marito. Michele fa appena in tempo a evitare che quella straziante scena si materializzi completamente ai suoi occhi. La porta via. Carla grida, vuole avvicinarsi al suo Alberto, vuole tirarlo giù da quell’albero, vuole abbracciarlo e scoprire che c’è ancora un soffio di vita in lui. Urla il suo nome più volte inginocchiata a terra con il viso tra le mani.
Sono le diciassette, Michele avverte i Carabinieri tramite il comando di Poggio Ballone. Alle diciotto e quindici, un’ora e un quarto dopo il rinvenimento della salma di Mario Alberto Dettori, il caso, leggendo le otto righe contenute nel fonogramma trasmesso dalla Procura di Grosseto ai Carabinieri, è sostanzialmente chiuso: ove siano escluse responsabilità di terzi delego codesto comando ad assumere verbale di ricognizione di cadavere richiedendo altresì rilascio di certificato medico con dettagliata descrizione del cadavere stesso e attestante la causa della morte a termine operazioni suddette copia presente fonogramma da servire come nulla osta seppellimento cadavere Dettori Mario Alberto. Poco prima i Carabinieri avevano inviato un fonogramma alla Procura della Repubblica per segnalare che i primi accertamenti escludevano responsabilità di terzi. Il medico che ha compiuto la ricognizione, scrive nel suo rapporto che la morte è da attribuire a impiccagione con conseguente arresto cardiocircolatorio e respiratorio.
Il caso è praticamente chiuso con il corpo di Dettori che giace all’obitorio del cimitero. Le circostanze della morte meriterebbero accertamenti che nessuno, però, si preoccupa di approfondire. Viene seguita la procedura standard, prassi di una routine che non effettua una vera e propria autopsia. Una ricognizione cadaverica è sufficiente: nessun esame tossicologico o di altra natura. Il magistrato di turno congeda il caso con otto righe fidandosi dei Carabinieri intervenuti sulle rive dell’Ombrone, secondo cui: i primi accertamenti escludono responsabilità di terzi. Neanche un condizionale o una frase ipotetica tra le righe: Dettori si è suicidato. È una certezza, ha fatto tutto solo impiccandosi a quell’albero di cui, negli atti, viene però precisata la specie: alborella. Stesso scrupolo per gli effetti personali che a Carla, 41 anni, e ai suoi tre figli (Barbara di 17, Andrea 16 e Marco 8), non resta che verificare ascoltando l’attenta quanto breve lettura di uno striminzito elenco redatto dai Carabinieri e che recita così: una fede nuziale di metallo giallo, un orologio di metallo bianco al quarzo, un pacchetto di sigarette marca MS, un accendino, un portafogli di colore marrone, una fotografia della moglie, un penna biro, 3.515 lire in vario taglio.
Dettori non scrive nulla, non lascia nessun messaggio neanche alla moglie. Se ne va in silenzio,un gesto così estremo che non necessita di accuse, né scuse. L’ultimo saluto sembra essere il riepilogo delle tante stranezze sempre più tangibili: perché a effettuare ufficialmente il riconoscimento della salma del militare vengono chiamati due ufficiali e non i parenti? Perché è l’Aeronautica a curare il funerale, pensando persino ai fiori, e non la famiglia? Eppure, Dettori, i familiari li aveva e ci teneva. Tanta fretta di voler seppellire il maresciallo, forse troppa, probabilmente un modo delicato per far rimanere la famiglia - o le famiglie - nell’intimità di un ricordo, con gli effetti personali e il dolore.
Sono le ventuno quando scorrono i titoli di coda sulla tragedia appena consumata. Il 19 maggio, quarantanove giorni dopo il suicidio dell’uomo, l’ufficio istruzione del Tribunale di Grosseto, con insolita solerzia, vista la richiesta di archiviazione formulata dal procuratore della Repubblica, Calogero Di Chiara, il 13 aprile, decreta di non doversi promuovere l’azione penale, poiché non ricorrono gli estremi di reato, trattandosi di suicidio alla cui produzione non ha concorso la responsabilità di terzi. Il caso Dettori, per la giustizia, è archiviato.
Fin qui la storia di Dettori e la descrizione delle ultime ore di vita di quest’uomo. Deve passare del tempo prima che la stessa storia si intrecci con le indagini sulla strage Ustica. I dubbi, i tanti dubbi sui dati di fatto e sulla gestione della vicenda da parte della magistratura toscana, non trovano nel tempo una plausibile giustificazione restando indelebili nella memoria dei familiari del sottufficiale. Sua moglie Carla non crede al suicidio. Non riesce a spiegarsi la fretta, così come non trova spiegazione all’omissione dell’autopsia da parte degli inquirenti.
Quello che accade la sera del 27 giugno 1980, dal momento in cui si perdono le tracce del Dc9 e dei suoi ottantuno passeggeri, nella base di Poggio Ballone, ricorrerà assai frequentemente nelle indagini sull’affaire Ustica. Il centro radar dell’Aeronautica, come abbiamo già visto, è uno degli snodi della difesa aerea più importanti del nostro Paese. Proprio da quella base numerosi fatti condizioneranno le indagini compiute nel corso della lunga istruttoria che, a fine anni Novanta, hanno portato sul banco degli imputati i vertici dell’Aeronautica e un cospicuo numero di militari che risultavano in servizio la notte del disastro, con le accuse di aver depistato le indagini, ostacolato il percorso della giustizia e aver riferito notizie inesatte al Governo su quanto era avvenuto nei cieli del Tirreno, notizie, in alcuni casi, totalmente false. Menzogne e reticenze, senza alcuna vergogna, emergeranno dalle indagini compiute a Poggio Ballone portando a galla ostacoli alla verità messi in atto dalla quasi totalità degli operatori del turno Delta in servizio nella sala operativa durante le ore in cui si è verificata la tragedia di Ustica. Gli eventi che hanno visto protagonisti questi militari, ampiamente accertati dalle indagini, non erano di certo quelli di una serata tranquilla, come tutti gli interrogati hanno tentato di far credere, eccetto qualcuno che ha provato a raccontare la verità. Menzogne e reticenze emergeranno anche nel momento in cui gli inquirenti cercheranno di chiarire se Dettori quella sera era realmente in servizio nel centro radar tentando, addirittura, di farlo scomparire dalla lista dei componenti del turno Delta, asserendo o giustificando tale gravissima omissione con il fatto che non lo si era considerato tra i presenti perché al momento della redazione dell’elenco da fornire alla magistratura era già morto.
Anche in questo centro radar, così come negli altri in cui gli inquirenti si imbatteranno per ricostruire quanto avvenne quella notte nei cieli italiani, si verifica un vero e proprio stillicidio nelle consegne delle documentazioni necessarie alla magistratura e nella scomparsa di registrazione e documenti di maggiore rilievo che avrebbero potuto aiutare gli inquirenti. Il giudice istruttore Rosario Priore, che per anni ha indagato sul caso Ustica, concludendo il paragrafo della sua sentenza ordinanza dedicato al sito radar di Poggio Ballone, scriverà: Un sito di eccezionale rilievo, del quale se si fossero conservati documenti e registrazioni, oltre che le memorie degli operatori, ben altro livello avrebbe potuto raggiungere la ricostruzione del disastro di Ustica e dei fatti connessi. Un sito, in cui più degli altri emerge che le carenze, le scomparse, le distruzioni non si sono casualmente verificate, ma sono state frutto di interventi ben meditati ed organizzati.
Di certo Dettori quella sera era in servizio, di certo fu testimone di qualcosa che lo turbò e, come si vedrà in avanti, saranno proprio i fatti di quella notte a condizionare il suo futuro. Tuttavia non ci sono prove per affermare che Dettori si è tolto la vita, non ci sono abbastanza elementi per affermare che qualcuno ha deciso di zittirlo per sempre, né quelli per affermare che il segreto della notte di sette anni prima, che custodirà in eterno, l’ha suicidato. A capire tutto ciò ci aiutano ancora le parole del giudice Priore che nel 1999, concludendo la sua lunghissima istruttoria sul disastro di Ustica, inserisce la morte di Dettori tra i decessi per i quali permangono indizi di collegamento con il disastro del Dc9, le sue sono parole che fanno tremare i polsi: sulla sua morte (del maresciallo Mario Alberto Dettori, nda) restano indizi che egli fosse in servizio la sera del disastro in sala operativa, che sia stato teste di quanto avvenuto e “visto” da quel radar, che si sia o sia stata determinata in lui una mania di persecuzione per i fatti in questione, specie nel periodo di missione in Francia. Se ha visto quello che mostravano gli schermi di quel centro radar, che aveva visione privilegiata su tanta parte della rotta del DC9 e di quanto intorno ad esso s’è consumato, se ne ha compreso la portata, al punto tale da confessare a chi gli era più vicino che quella sera s’era sfiorata la guerra, ben si può comprendere quanto grave fosse il peso che su di lui incombeva. E quindi che, in uno stato di depressione, si sia impiccato. O anche, dal momento che egli stava diffondendo le sue cognizioni, reali o immaginarie, e non fosse più possibile frenarlo, che sia stato impiccato. Sui singoli fatti come sulla loro concatenazione non si raggiunge però il grado della prova.
Vale la pena, tuttavia, approfondire, fin dove possibile, gli ultimi anni di vita del maresciallo. Vale la pena analizzare le parole pronunciate a sua moglie quella mattina e quelle dette a mezza bocca, gli anni successivi, a persone a lui vicine, pensieri che si sono spenti in gola. Vale la pena raccontare, per esempio, del suo cambiamento dal ritorno da una trasferta in Francia e dei sussurri soffiati il giorno dei suoi funerali. Che ci sia qualcosa di strano, di inquietante, dietro la sua morte lo si capisce sentendo parlare i protagonisti di questa storia. Bastava fare questo, bastava ascoltare la voce di chi lo conosceva. Il 1990 è l’anno in cui Dettori, quando sua moglie chiede al giudice Priore di essere ascoltata, entra ufficialmente, da morto, nel caso Ustica. Sentendo al telegiornale le notizie sulla strage rimette assieme tutti gli elementi come le tessere di un puzzle a lei finora sconosciuto, pezzettini che la porteranno ad associare il lavoro di suo marito, la sua inspiegabile morte e quello che, a poco a poco, emerge dalle indagini sul disastro del Dc9 in un unico quadro da costruire. Ricorda. Ricorda la mattina del 28 giugno 1980, ricorda le parole di Alberto che dall’oblio adesso rimbombano dentro la testa: «No, niente. È successo un casino: qui vanno tutti in galera». Carla non è l’unica a voler riferire qualcosa di interessante al giudice Priore, anche i fratelli della donna, Sandra e Riccardo, hanno qualcosa da raccontare. A questo punto Priore inizia a mostrare particolare interesse al caso Dettori e la sua prima mossa è chiedere alla Procura di Grosseto il fascicolo relativo al suo suicidio, quello archiviato quarantanove giorni dopo. Su quelle carte, com’era prevedibile, c’è ben poco: la procedura standard seguita dagli inquirenti è solo la registrazione di quanto avvenuto sul greto del fiume Ombrone. Le prove, questo è certo, non erano tra i detriti ma in un altrove verosimilmente inesplorato.
Il 26 novembre 1990 Carla, per la prima volta dopo alcuni colloqui, con la sorella Sandra, si siede davanti a Priore e ai militari del Reparto operativo dei Carabinieri che indagano su Ustica. Carla è un fiume in piena pronto a far straripare ogni più piccolo e insignificante dettaglio e comincia proprio dall'inizio: ricostruisce la carriera di suo marito: dal 1966 al 1967 ha prestato servizio presso il centro radar di Marsala in Sicilia, poi fino al 1972 a Vigna di Valle e, fino alla data della sua morte, a Poggio Ballone. Alberto aveva una gran voglia di vivere, su questo Carla non ha dubbi, e il 20 dicembre, nel corso di un ulteriore incontro con gli inquirenti, ricorda le parole pronunciate da Alberto quella dannata mattina e il suo tentativo di capirci qualcosa in più lasciato a mezz’aria in quella stanza. Poi parla della missione in Francia. Ricorda una telefonata che suo marito le fece dall’interno della base di Roquebrune - Cap Martin, poco prima di rientrare in Italia: «Era strano quella sera», racconta Carla, «mi ha chiesto se gli volevo bene e poi mi ha riferito che vedeva sui muri per strada la scritta “il silenzio è oro e uccide”». Carla lo prega di rientrare in Italia, è molto preoccupata, sente che Alberto non sta bene. Riattaccando la donna non riesce a dormire, rimane sveglia tutta la notte con mille pensieri per la testa. Il giorno dopo, ricorda ancora sua moglie, Alberto è tornato a casa senza terminare il periodo prescritto di sei mesi. Alla stazione Carla trova un uomo terrorizzato, diverso, un uomo che non somiglia più al suo Alberto. «Come se gli avessero fatto il lavaggio del cervello», dirà a Priore. Alberto ha paura di essere sorvegliato, spiato: arriva a smontare il telefono e controllare perfino gli orecchini e l’anello di sua moglie, cercando microspie. È così, non è più lui. «Era ossessionato dal fatto che i suoi discorsi potessero essere ascoltati», continua Carla, «lo stesso giorno eravamo andati da un dottore che gli ha prescritto delle pillole, si chiamava Ugo Corrieri». Poi il racconto della donna arriva al giorno della morte, e non avendo parole per spiegare, si limita a dire solamente che l’ultima volta che ha visto suo marito, era molto tranquillo. Carla accenna anche a quanto gli riferirà, dopo la morte del marito, la sorella Sandra, a cui Dettori aveva confidato che le vicende di Ustica coinvolgevano qualcuno e aggiungendo, poi, che questo qualcuno era Gheddafi.
Carla torna dal giudice Priore il 16 marzo 1992. Anche questa volta si presenta spontaneamente per consegnare alcuni documenti ritrovati dal figlio Andrea in cantina, dentro una cassetta per gli attrezzi a cui nessuno, prima di allora, aveva fatto caso. All’interno un libretto di assegni, rilasciato dalla Banque Sudameris France su un conto aperto da Dettori a Montecarlo utilizzato per depositare lo stipendio durante la permanenza in Francia. Sulla copertina si leggono alcuni indirizzi francesi e un nome appuntato, Roland. Andrea non ha dubbi, la grafia è quella di suo padre. Tra le cose che Andrea trova, tutte accuratamente conservate dentro la scatola, c'è anche una vecchia agendina telefonica con strane annotazioni come: guerra elettronica, missili, controllo t.a.. Chi è Roland? La risposta arriva dalla moglie di Dettori in una successiva deposizione: «era un sottoufficiale francese, un collega di mio marito», afferma Carla, «si fermò a Grosseto in casa nostra per quattro giorni. Era un uomo molto robusto, alto con capelli scuri e senza baffi, era giunto con una Citroën Cx Pallas di colore avana». Carla richiama alla memoria quello che è avvenuto al cimitero di Sterpeto il giorno dei funerali e ricorda anche quanto le ha riferito suo fratello, Riccardo. Erano tutti lì, intorno alla salma di suo marito, insieme a tanti altri militari, c’era un maresciallo, di origini sarde, che parlava a bassa voce con alcuni colleghi. Su quest’ultimo particolare, assai inquietante, ecco il racconto del fratello di Carla al giudice Priore: «sulla morte di mio cognato Alberto ricordo un particolare accaduto al cimitero di Sterpeto, mentre eravamo in attesa della ricomposizione della salma, ricordo che stavamo aspettando le scarpe e la sciabola perché Alberto fu sepolto in divisa, a un certo punto un maresciallo di nome Adriano, basso e di origini sarde per l’inconfondibile accento, che sembrava l’organizzatore delle esequie, a seguito di alcune frasi borbottate da un sergente, disse “fatevi i cazzi vostri perché sennò andiamo per aria tutti”. Dopo questa frase il sergente che aveva borbottato fece un gesto che mi sembrò di repressione di sentimenti». Ricorda ancora Riccardo: «aveva le mani in un giaccone alla marinara e le mosse all’interno delle tasche, che erano all’altezza del torace, come per dire “lasciamo perdere!” in quel momento eravamo in cinque o sei persone. Fuori della camera mortuaria eravamo io, il maresciallo Adriano, e due sergenti o avieri, non so dire. Nella camera mortuaria c’erano due inservienti del cimitero e uno o due colleghi di Alberto. Gli altri presenti, quando il maresciallo pronunciò quella frase non dissero nulla, mi sembravano impauriti. Ritengo che il maresciallo non si era reso conto della mia presenza perché mi dava le spalle», continua il cognato di Dettori. «Ricordo un altro episodio che Alberto mi raccontò poco prima di morire. Venne a Roma per una visita medica e passò a trovarmi a casa, era molto turbato e gli chiesi la ragione. Egli disse che era scocciato e che lo aveva scritto in Francia. Disse così: “mi sono stufato di combattere contro i mulini a vento e l’ho scritto su un giornale mentre stavo in Francia”. «Però non mi disse cosa aveva scritto», Riccardo chiude così.
Anche Sandra, l’altra cognata di Alberto, si reca da Priore perché ricorda un altro strano discorso sempre associato alla strage Ustica. Era estate e, con la sorella, stavano andando al mare accompagnate in auto da Alberto. Ricostruirà così quelle strane parole al giudice: «nel corso di un viaggio da Grosseto a Castiglione, Alberto mi disse che la sera di Ustica era successo un casino e che “gira gira qui fanno scoppiare una guerra”». «Si riferiva», dice Sandra agli inquirenti, «alla caduta dell’aereo di Ustica in quanto io gli avevo detto “hai visto che guaio tutta quella gente che è morta”. Mio cognato è stato sempre una persona normale, dopo la missione in Francia sembrava cambiato e quando gli è stato dato il prepensionamento è caduto in un totale mutismo». E anche Sandra torna con la memoria al giorno del suicidio: «Io e mia sorella ci siamo meravigliate che non è stata fatta l’autopsia e che il seppellimento è avvenuto il giorno dopo la sua morte. Al funerale pensò l’Aeronautica, anche ai fiori a nome dei parenti».
L’attenzione degli inquirenti metterà a fuoco proprio quella missione in Francia. Dettori, nell’ambito di una collaborazione tra i centri radar delle due aeronautiche, entrambi inseriti nella rete di difesa aerea della Nato, nell’aprile del 1986 viene assegnato, per sei mesi, alla base di Roquebrune - Cap Martin in Costa Azzura; la sua sede operativa è Monte Agel, dove si trova il sito radar. Dopo qualche mese Alberto comincia ad assumere atteggiamenti anomali: sta male, accusa fortissime cefalee, vertigini, mal di denti e disturbi psichici. Questo è quanto risulta dagli atti forniti dall’Aeronautica alla magistratura. Durante il periodo di permanenza presso la base francese Dettori pare abbia accusato dei disturbi: forme di disorientamento, vertigine e tenace mal di testa. Malesseri che la stessa Aeronautica attribuisce agli sbalzi di pressione dovuti all’alta quota cui si trova la postazione di Monte Agel (circa 1.300 metri). Dettori rientra in Italia il 27 settembre, venti giorni prima del dovuto perché i malesseri continuano. L’Istituto medico legale dell’Aeronautica parla di postumi da sindrome depressiva giudicandolo inabile. Comincia per Alberto una lunga convalescenza. Il giorno successivo, 28 settembre, si reca con sua moglie e un amico all’ospedale Misericordia di Grosseto dove parla a lungo con lo psichiatra di turno al pronto soccorso, Ugo Corrieri. Lo psichiatra giudicherà Dettori delirante con ideazione di tipo paranoide e deliri sistematizzati. Dettori riferisce al medico di essere a conoscenza di un complotto organizzato dai Servizi segreti italiani, francesi e altri. Al termine la diagnosi è ancora più chiara: sindrome dissociativa. Tutti lo dichiarano “pazzo” ma è solo ossessionato: i suoi discorsi possono essere ascoltati, ha paura, si sente sempre più solo. Corrieri tiene in cura Dettori fino al 23 marzo 1987. Una ventina di sedute dopo, la diagnosi parla di sindrome eretistico-ansiosa.
Tra il 1991 e il 1992 il giudice Rosario Priore, nel tentativo di ricostruire gli ultimi anni di vita di Dettori, interrogherà anche altri protagonisti di questa vicenda, in gran parte militari dell’Aeronautica militare colleghi del maresciallo. Tra questi c’è Guglielmo I., radarista che ha conosciuto Dettori nel 1986 in occasione della missione in Francia. Di lui racconta al giudice che «era un ragazzo molto estroverso, amava giocare a tennis, aveva imparato il francese ma a un certo punto accusò dei dolori come mal di testa e di denti, malanni dovuti - secondo lui - ai dislivelli tra il luogo dove abitavamo, cioè Cap Martin, ed il centro radar, cioè Monte Agel, a 1.300 metri». Con lui, Alberto non ha mai parlato del suo passato. Guglielmo I., poi riferirà agli inquirenti, di non aver conosciuto nessun militare dell’Aeronautica francese di nome Roland. Di Dettori ricorda ancora che andò via da Monte Agel venti giorni prima che ultimasse il periodo di assegnazione, per motivi di salute. Il giorno del suo rientro in Italia fu lui ad accompagnarlo alla stazione ferroviaria di Carnoles.
Poi tocca a Cesare C., anch’egli con Dettori nella missione francese e compagno di stanza. Di lui ricorda che era di umore variabile, a volte euforico altre depresso. «Era “fissato” con le avventure galanti, sperava di averne con le colleghe francesi che svolgevano servizio in sala operativa». Anche con lui, Dettori, non parla del passato, ma dice che deve iniziare una nuova vita, dopo la missione in Francia. Cesare C. dice agli inquirenti anche che il maresciallo aveva la fissazione di essere spiato e che, durante la permanenza in Francia, frequentava diversi colleghi francesi, ma nessun Roland. «Essendo un tipo molto espansivo - dice di Dettori - durante la sua permanenza aveva frequentato, fuori dall’orario di servizio, famiglie di sottufficiali francesi». Nel periodo estivo Cesare C. ricorda che insieme, anche se in zone diverse, avevano affittato sul lungomare di Cap Martin degli appartamenti dove passare periodi di ferie con le rispettive famiglie. Per il tenente colonnello Carlo Arrivas, comandante del centro radar di Poggio Ballone, Dettori era un elemento in gamba, di carattere amabilissimo. Dice di averlo rincontrato a Grosseto durante una vacanza in compagnia di un sottufficiale francese di cui non ricorda il nome. Arrivas non ricorda se Dettori era inserito nel turno di servizio Delta la sera del 27 giugno 1980 e afferma poi, di aver conosciuto un francese ospite di Dettori, presentatogli come un sottufficiale della base radar presso cui era stato in missione in Francia. Pur avendolo visto solo per pochi istanti, nell’autunno o nell'inverno del 1986, ricorda che il francese era mingherlino, biondastro e aveva i baffi.
Stefano P., il militare in servizio a Poggio Ballone che nel 1988 compila i turni di servizio, su richiesta del giudice Priore, in qualità di capo ufficio operazioni, e sulla base dei ricordi degli interpellati, non si spiega perché il maresciallo Dettori non è stato inserito nell’elenco dei turni: probabile dimenticanza o perché già morto. Un altro ufficiale, Giulio G., a proposito del turno di servizio del 27 giugno 1980, dichiara ai magistrati di non sapere su che base fu compilato l’elenco consegnato alla magistratura. Riferisce, inoltre, di aver controllato che Dettori quel giorno non era né in permesso né in licenza. Tutti i colleghi ascoltati dagli investigatori avranno stranamente difficoltà a richiamare alla memoria Dettori seduto davanti al suo radar nei minuti in cui scompare il Dc9. Quasi tutti o non lo ricordano seduto alla sua postazione o fanno finta di non rammentare. Un vero e proprio muro di gomma quello su cui si imbattono gli investigatori per cercare di chiarire le circostanze. L’Aeronautica, più volte sollecitata su questo aspetto, afferma che in base ai dati disponibili non era stato possibile né confermare né escludere la presenza in turno Delta del sottufficiale.
Il 31 ottobre 1992 il giornalista del Corriere della Sera, Andrea Purgatori, si presenta dal giudice Priore con un lettera anonima a lui indirizzata. È scritta a mano, in stampatello, su un foglio di carta verde a righe, dove si legge: sono un amico di Dettori sono passati troppi anni da quel maledetto giorno se vuoi sapere la verità su Ustica: vai a Bruxelles e indaga bene lì ai centri radar. Il missile sicuramente è quello di un sommergibile francese sono loro i colpevoli la scatola nera l’hanno loro maledetti. Dettori fu impiccato da Roland e da un altro francese, fanno parte dei servizi segreti francesi so che Dettori ha registrato tutto su un nastro e con altre prove l’ha consegnato a un ragazzo solo un’altra persona sa come si chiama. Io cercherò di fartelo sapere, quello che ha detto Di Benedetto e Demarcus è all’88% la verità i più colpevoli sono
Meloni e Benincasa Mannucci quando riceverai questa lettera fai pubblicare sulle inserzioni di messaggi personali del Messaggero di Roma: “sono la più bella” e la frase che hai detto arrabbiato a quello dell'ambulanza quando hai portato tuo padre all’ospedale per ictus cerebrale e io ti potrò dare altre notizie utili. La lettera è firmata un amico e c’è anche un post scriptum per Purgatori: stai attento sei molto controllato tu e Priore.
A questo punto nelle indagini entrano anche le dichiarazioni del capitano di corvetta della Marina, Angelo Demarcus. Conterraneo di Dettori, lo conosce sin da bambino perché entrambi di Pattada, in un memoriale datato 3 febbraio 1992, parla della morte del maresciallo. Demarcus, il cui nome compare anche tra i depistatori indagati per il caso Ustica, afferma di aver ricevuto il 24 febbraio 1987 una telefonata proprio dal sottufficiale e di averlo più volte incontrato nel corso di alcuni viaggi di servizio a Roma. Dettori avrebbe riferito a Demarcus che gli originali dei nastri, sia fonici che radar, della sera del 27 giugno 1980 sono stati chiusi in un fascicolo e firmati da tutto il personale di turno quella sera. Il plico è custodito nella cassaforte del comandante dell’aeroporto di Grosseto. Nel corso della telefonata Dettori ricostruisce nei minimi particolari ciò che vede dal suo radar intorno alle ventuno del 27 giugno 1980. Parla di una grande guerra, di decolli di F-104 e di un MiG bianco decollato per esercitazioni dall’aeroporto di Grosseto. Poi Demarcus, durante un successivo interrogatorio nel 1992, ricorda la versione di Dettori sul caso Ustica: il vano carrello del DC9 viene sfiorato dal timone di coda di un Mig il cui pilota tenta di evitare gli aggressori a caccia d’intrusi, forse gli stessi F 104 decollati da Grosseto con un allarme generale. Queste informazioni, dirà Demarcus agli inquirenti, Dettori le avrebbe apprese attraverso il radar, guardando quello che stava avvenendo e aveva percepito che il MiG bianco continuò la rotta discendente verso Sud-Est. La collisione sarebbe avvenuta poco a Sud di Ponza. Demarcus afferma poi che, nel corso della prima telefonata, Dettori avrebbe accennato anche ad alcune morti che lui definiva sospette, dicendo: hanno ammazzato anche quello dei laboratori; farò quanto devo fare. Dettori, racconta l’ufficiale della Marina a Priore, aveva il dubbio che anche altri decessi di personale in turno la sera del 27 giugno 1980 a Poggio Ballone, non fossero casuali. In particolare si riferiva al comandante dell’Aeroporto di Grosseto, il colonnello Pierangelo Tedoldi, morto il 3 agosto 1980 in un incidente stradale sull’Aurelia, e al capo del turno Delta, il Capitano Maurizio Gari, morto a causa
di un infarto il 9 maggio 1981. Un fatto assai singolare lega proprio Gari a Dettori. Nei tabulati, relativi al personale in servizio in sala operativa la sera del disastro, in possesso della magistratura, al posto di Dettori risulta in servizio il capitano Maurizio Gari. I loro superiori hanno sempre sostenuto che il nominativo di Gari appare dai brogliacci di sala, mentre quello di Dettori, come si è visto, non è stato proprio inserito nell’elenco fornito agli inquirenti solo nel 1988, perché già morto al momento della richiesta.
Di Dettori parla anche l’ex capitano dell’Aeronautica Mario Ciancarella, un amico del colonnello Sandro Marcucci, morto il 2 febbraio del 1992 in un incidente aereo sulle Apuane insieme al collega Silvio Lorenzini, incidente oggetto di una recente riapertura delle indagini. Ecco cosa Priore in relazione a quest’ultima testimonianza: Secondo quanto rappresentato da Ciancarella, il Marcucci sosteneva che il MiG precipitato sulla Sila, ufficialmente rinvenuto il 18 luglio dell’80, sarebbe invece decollato dall’aeroporto di Pratica di Mare proprio il 27 giugno di quell’anno. Questa circostanza non appare però disgiunta da un altro episodio, anch’esso relativo al caso Ustica, e di cui il Ciancarella era venuto direttamente a conoscenza. L’ex ufficiale riferisce infatti di due colloqui telefonici intercorsi con il maresciallo Dettori, appena dopo la sciagura del Dc9 Itavia, il cui contenuto è connotato da gravi e sconcertanti dichiarazioni del sottufficiale, in servizio nell’80 presso il Cram di Poggio Ballone e trovato morto suicida nell’87. Il sottufficiale, senza mezzi termini, gli avrebbe riferito che l’abbattimento era dovuto ad aerei militari italiani. L’ufficiale in particolare ha ricordato la colorita affermazione del suo interlocutore: “Ha visto il casino di Ustica? Siamo stati noi”. E ha descritto lo stato di agitazione di Dettori, che evidentemente temeva per la sua incolumità, ricordando di aver invitato comunque il sottufficiale a non parlare con alcuno di questa sua verità e a richiamarlo in qualsiasi momento. E in effetti egli, ai primi di agosto, viene raggiunto da una seconda telefonata del Dettori, il quale gli avrebbe riferito nei seguenti termini: “Dopo questa puttanata del MiG, le posso solo dire di cercare gli orari di atterraggio, i missili a guida radar e a testata inerte”.
Nel giugno 2000 l’ultimo tentativo di fare luce su questa storia lo compie, a istruttoria già conclusa, l’allora Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, tentando invano di sollecitare la Francia, con una lettera diretta a Jacques Chirac, a rispondere a una dozzina di rogatorie promosse dal giudice istruttore Rosario Priore nel corso delle indagini. In quelle richieste di collaborazione si incitava la Francia a fornire informazioni in merito a quanto avevano registrato i radar nel bacino del Mediterraneo, i possibili velivoli militari decollati in quelle stesse ore dalla base corsa di Solenzara e l’esatta posizione in quella notte delle portaerei Clemenceau e Foch. Amato chiese alle autorità francesi di ricostruire anche la missione in Francia del sottufficiale dell'Aeronautica militare italiana, Mario Alberto Dettori, con l’indicazione delle generalità dei colleghi che, nei periodi di permanenza in Francia, prestavano servizio nella base di Monte Agel e che con lui ebbero più frequenti contatti. In particolare, scrive Amato: le più esaurienti notizie sul militare francese di nome Roland, probabilmente un sottufficiale anch’egli in servizio nella stessa sede insieme al militare italiano al quale, nell’estate del 1986, rese visita a Grosseto, raccogliendone le confidenze. Le stesse domande, a cui la Francia non ha mai ufficialmente risposto, nel 2010 sono state riproposte dal Governo italiano su richiesta della Procura della Repubblica di Roma che indaga, ancora oggi, sul caso Ustica.
© Fabrizio Colarieti, tratto dal libro "Vittime collaterali" (Adagio)
Nel marzo 2017 la Procura di Grosseto, in seguito ad un esposto dei familiari del maresciallo Dettori, ha disposto la riesumazione della sua salma per compiere nuovi accertamenti.
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