LE RIVELAZIONI: Un’ombra, più che un sospetto, che non ha mai abbandonato il simbolo di quella stagione, l’attuale leader dell’Idv Antonio Di Pietro, ancora oggi il bersaglio principale di chi sostiene la tesi che, proprio lui, era “l’antenna” della Cia dentro la Procura di Milano. E come in ogni spy story che si rispetti, oltre l’agente segreto, c’è anche il grande testimone che vuota il sacco, avvelenando il pozzo un attimo prima di spirare. Nel copione di questa bizzarra ricostruzione degli anni che segnarono la fine di una Repubblica e l’inizio di un’altra, arriva la versione dell’ex ambasciatore a via Veneto (dal ’93 al ’97), Reginald Bartholomew, scomparso il 26 agosto scorso. La pubblica, tre giorni dopo la sua morte, il quotidiano torinese La Stampa, tra le righe di un lungo articolo, che dà nuova carica ai sospetti fin qui narrati, dando fiato (e nuova vita) alla testimonianza – postuma – dell’autorevole diplomatico. Il pool di magistrati di Milano – afferma Bartholomew – nell’intento di combattere la dilagante corruzione politica «era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia, a cui ogni americano si sente legato». E’ ancora l’ex inquilino di via Veneto a parlare: indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perché la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo ». In questo scenario Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato di Milano «non quadrava». Peter Secchia, il suo predecessore, da Roma aveva consentito ai suoi di Milano di gestire un legame diretto con il pool di mani pulite, «d’ora in avanti – scrive La Stampa riportando le parole dell’ambasciatore appena scomparso – tutto ciò con me cessò». A capo del consolato di Milano c’era Peter Semler, che – sempre dalle colonne del quotidiano torinese – conferma che Di Pietro gli anticipò che le sue indagini avrebbero portato a degli arresti e al coinvolgimento di Bettino Craxi e della Democrazia cristiana.
LA REPLICA: Insomma gli americani, secondo un ambasciatore (scomparso) e un console (a riposo), erano quotidianamente informati, grazie a fonti qualificate, di quanto avveniva dentro il Palazzo di Giustizia di Milano nei mesi che precedettero quel primo avviso di garanzia, spedito a Craxi da Francesco Saverio Borrelli, e l’inizio di mani pulite (che finì con 1.300 fra condanne e patteggiamenti definitivi). «Non solo non abbiamo mai avuto sentore, che le autorità statunitensi fossero interessate alle nostre indagini, ma lo escludo categoricamente », dichiara a Il Punto, a vent’anni da quella firma, proprio Borrelli. «Sarebbe stato impossibile, da parte del pool, avere rapporti con il mondo consolare, o addirittura con quello diplomatico. Impossibile che dai colleghi con cui lavoravo a stretto contatto di gomito, in particolare Davigo e Colombo, trapelasse qualcosa. Non ho letto l’intervista dell’ambasciatore Bartholomew, ma ne ho sentito parlare. Che vuole che le dica? – va avanti l’ex capo del pool anticorruzione della Procura di Milano - evidentemente l’ambasciatore, molto avanti con l’età, ha fatto un po’ di confusione riordinando i suoi ricordi. Sono in grado di dirle, come capo di quell’ufficio, che né io né il procuratore aggiunto D’Ambrosio, che aveva la delega in materia di corruzione, né alcuno degli altri componenti dell’allora pool anticorruzione, avemmo mai sentore che ci fossero delle pressioni o dei contatti, o addirittura degli input, provenienti dagli Stati Uniti d’America». Premessa che introduce la lapidaria conclusione di Borrelli: «Questa ricostruzione, che è stata tentata sulla base delle cose dette dall’ambasciatore prima di morire, è una ricostruzione che risente di un’immaginazione un po’ sfrenata e del desiderio di costruire qualcosa che possa attirare l’attenzione dei lettori per qualche tempo. Non ha alcun fondamento nella realtà».
DA CRAXI A CRAXI: Quello dello zampino americano è un antico sospetto che tormenta i reduci della prima Repubblica, in particolare l’ex delfino socialista, Gianni De Michelis, che da sempre sostiene che gli analisti di Langley ebbero un ruolo non secondario nelle sorti della sua generazione politica. Bettino Craxi – ha riferito recentemente sua figlia Stefania, rendendo noto un appunto scritto dal padre durante la permanenza ad Hammamet – aveva lo stesso sospetto. «Non ho mai detto che Di Pietro è stato addestrato dalla Cia né credo che questo sia mai avvenuto. Ciò che si può onestamente dire – scriveva il leader del Psi nei suoi appunti – è che la sua azione nel corso delle sue inchieste e delle sue attività di presentazione internazionale è stata fortemente sostenuta dal governo americano ». Che, in ogni caso, è cosa ben diversa dal ritenere che ne abbia condizionato, se non addirittura guidato, l’azione.
di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 14 settembre 2012 [pdf]