I MISTERI. C’è una vasta zona d’ombra, rimasta senza risposte a distanza di 21 anni dall’eccidio di via D’Amelio, su cui le nuove indagini hanno tentato di fare luce dando riscontro alle parole del pentito Gaspare Spatuzza, recentemente condannato con il rito abbreviato, sempre per questa strage, a 15 anni di reclusione insieme ad altri due pentiti, Fabio Tranchina e Salvatore Candura. «Mancavano, infatti, risposte - scrivono ancora i magistrati nisseni - ad alcuni interrogativi irrisolti oggetto di investigazioni rimaste senza esito: dalla sospettata responsabilità di soggetti esterni a cosa nostra, alle ragioni per cui venne fatta sparire l’agenda rossa del dr. Paolo Borsellino ed ancora ai motivi per cui venne attuata la strage di Via D’Amelio ad appena 57 giorni di distanza da quella di Capaci e dunque con una evidente - ed apparentemente anomala - accelerazione del programma stragista». Su via D’Amelio i vuoti d’indagine riguardavano, innanzitutto, l’identificazione di tutti coloro che parteciparono all’esecuzione della strage: da chi aveva posteggiato la Fiat 126 imbottita di tritolo davanti la porta d’ingresso dell’edificio al punto in cui si trovava chi aveva azionato il telecomando.
I RISCONTRI. Già nel 2009 le dichiarazioni di Spatuzza hanno trovato un «riscontro indiretto» con le ritrattazioni di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino, i tre collaboratori che nell’ambito dei processi Borsellino “uno” e “bis” avevano determinato la condanna di diversi affiliati a Cosa nostra completamente estranei alla strage di via D’Amelio. Dunque avevano mentito, rilasciando, all’indomani della strage, dichiarazioni del tutto false e calunniatorie, anche accusando alcuni funzionari di polizia di averli sottoposti a «indebite pressioni». Tuttavia per capire se anche tra le fila degli investigatori, che dopo la strage presero spunto dalle parole dei tre falsi pentiti, ci fu del dolo, bisognerà attendere la fine delle indagini, ancora in corso, a carico di tre funzionari della polizia di Stato, Mario Bo, Vincenzo Ricciardi e Salvatore La Barbera, componenti del gruppo investigativo guidato dall’allora questore Arnaldo La Barbera, oggi scomparso.
L’OMBRA DELLA TRATTATIVA. «Con questo nuovo processo intendiamo riscrivere la verità sulla strage di via D’Amelio», ha dichiarato il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari all’avvio del dibattimento. «Un procedimento impegnativo - ha aggiunto - perché occorre ricostruire le tessere mancanti del complesso puzzle, dal mistero dell’agenda rossa di Borsellino alla verità sulla trattativa Stato- mafia che noi pensiamo abbia influito nel senso che ha accelerato il progetto omicidiario che era stato già deciso nel dicembre 1991». Secondo i magistrati di Caltanissetta, quindi, la presunta trattativa tra lo Stato e la Mafia - oggetto di un processo che si aprirà il prossimo 27 maggio a Palermo a carico di mafiosi, carabinieri e politici - fu la condanna a morte di Borsellino, ucciso dalla mafia per essersi opposto al dialogo di cui era venuto certamente a conoscenza. Una circostanza che il giudice apprese dal direttore degli Affari penali, Liliana Ferraro, quando aveva ormai i giorni contati. L’incontro con la Ferraro avvenne il 28 giugno e in quell’occasione il dirigente del ministero della Giustizia gli riferì quanto aveva saputo da un ufficiale dell’Arma, Giuseppe De Donno, e cioè che il Ros era entrato in contatto con Don Vito Ciancimino per trattare con Totò Riina.
I TESTIMONI. Nel corso del nuovo processo per la strage di via D’Amelio, la procura ha annunciato che intenderà ascoltare in aula circa 300 tra pentiti, politici, esponenti delle forze dell’ordine, magistrati e familiari delle vittime. Nella lista compaiono anche nomi eccellenti, tra i quali quello dell’attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ma anche il senatore a vita, Carlo Azeglio Ciampi, l’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, e ancora: magistrati, ex agenti dei Servizi, il figlio di Don Vito, Massimo Ciancimino, e un lungo elenco di politici che tra il 1992 e il 1994 ebbero incarichi di governo come Claudio Martelli, Luciano Violante, Giuliano Amato, Vincenzo Scotti, Nicola Mancino e Virginio Rognoni. Particolarmente clamorosa la richiesta avanzata dall’avvocato Fabio Repici, legale del fratello del giudice Borsellino, Salvatore, che ha chiesto la citazione come testimone del presidente Napolitano. «Era un osservatore privilegiato di quanto avveniva nei palazzi del potere», ha spiegato Repici motivando la sua richiesta, poi accolta dalla Corte. Salvatore Borsellino, dal sito del movimento delle Agende rosse, ha poi spiegato: «Adesso quella benevolenza che il Presidente della Repubblica ha voluto esprimere, come dalle intercettazioni del suo consigliere giuridico D’Ambrosio, nei confronti dell’indagato, oggi imputato al processo di Palermo, Nicola Mancino, potrà esprimerla, se lo riterrà opportuno, davanti ai giudici di Caltanissetta, ma dovrà farlo davanti alla Corte e nell’aula del dibattimento». Borsellino afferma di essere convinto «che centinaia di appartenenti alle istituzioni sapevano della trattativa e solo alcuni di loro, dopo avere rispettato per venti anni una scellerata congiura del silenzio, hanno ritrovato, almeno in parte, la memoria». Napolitano, tra il giugno del 1992 e l’aprile del 1994, fu presidente della Camera e, perciò, potrebbe riferire nuovi particolari sull’intera stagione delle stragi, ancora oggi fitta di misteri. Dalla conversione del decreto sul carcere duro all’avvicendamento al vertice del ministero dell’Interno tra Vincenzo Scotti e Nicola Mancino, lo stesso Mancino, oggi imputato a Palermo per falsa testimonianza nel processo sulla presunta trattativa, che a distanza di vent’anni dai fatti del 1992 chiederà aiuto a Napolitano nel corso delle ormai famigerate conversazioni telefoniche intercettate dalla procura di Palermo.
di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 4 aprile 2013 [pdf]