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Antonio Mennini«Purtroppo non ho avuto la possibilità di confessare Aldo Moro nei 55 giorni del sequestro, nella coscienza dei miei doveri sacerdotali ne sarei stato molto contento». E’ quanto ha detto Monsignor Antonio Mennini, oggi nunzio apostolico in Gran Bretagna, nel corso di un’audizione davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. L’alto prelato, nei giorni del rapimento dell’ex presidente della Dc, recapitò, per volere dello stesso Moro, alcune lettere dello statista alla sua famiglia finendo, per anni, al centro di pesanti sospetti.
«In ogni caso – ha aggiunto Mennini – se avessi avuto un’opportunità del genere credete che sarei stato così imbelle, che sarei andato lì dove tenevano prigioniero Moro senza tentare di fare niente? Sicuramente mi sarei offerto di prendere il suo posto, anche se non contavo nulla, avrei tentato di intavolare un discorso, come minimo di ricordare il tragitto fatto. E poi, diciamo la verità di che cosa doveva confessarsi quel povero uomo?».
Il nunzio apostolico, che in apertura di audizione ha tenuto a sottolineare di essere stato già ascoltato sulla vicenda in sede parlamentare e giudiziaria per ben sette volte, ha confermato che «di un’eventuale confessione non avrei potuto dire nulla, né sui contenuti né sulla circostanze temporali e logistiche, ma non avrei difficoltà alcuna ad ammettere di essere andato nel covo delle Br. E’ che non ci sono mai stato».
«Monsignor Mennini – ha sottolineato al termine dell’audizione  il presidente della commissione Moro, Giuseppe Fioroni – ha ribadito chiaramente di non aver confessato Aldo Moro durante il sequestro. Ma le vera, importante novità emersa oggi è l’esistenza di un “canale di ritorno” tra i brigatisti e i familiari dello statista. Monsignor Mennini ci ha detto che nella telefonata del 5 maggio, il professor Nicolai (che in realtà era il brigatista Valerio Morucci, ndr) gli disse di far sapere alla signora Moro che la persona da lei indicata non era stata rintracciata e che quindi si era dovuto far ricorso di nuovo a lui. E’ la prova dell’esistenza di un “canale di ritorno”, che si interrompe proprio attorno alla data della telefonata, pochi giorni prima del ritrovamento del cadavere di Moro».
L’arcivescovo ha riferito alla commissione che Papa Paolo VI «voleva che Moro fosse liberato, che si trattasse, ma il clima non era favorevole: c’erano adunanze oceaniche dei sindacati che chiedevano di non cedere, le trasmissioni radio di Gustavo Selva sbilanciate per il “no”, La Malfa che parlava di pena di morte, il governo e lo stesso Pci attestati sulla linea della fermezza. Che avrebbe potuto fare il povero Papa, che a quei tempi tra l’altro stava già male, come avrebbe potuto imporre una posizione diversa?».
«Io venni a sapere due o tre anni dopo – ha proseguito – che Paolo VI aveva chiesto di mettere a disposizione 10 miliardi di lire perché non so quale fonte aveva fatto balenare le possibilità che le Br potessero accontentarsi di un riscatto. Certo, io avrei trattato, ma io non contavo: si sarebbe potuto convocare le Camere, prendere tempo, immagino lo stesso Moro sperasse che prima o poi la polizia arrivasse alla sua prigione… Come mai è stato detto no a tutto? Se Fanfani avesse detto “trattiamo” si sarebbero fermati».
«Don Antonello Mennini è un abile uomo di Chiesa e ci ha detto molte cose riguardo al caso Moro. La prima è che non ha confessato il presidente della Dc nel carcere delle Br, spiegando che questa circostanza, cioè non solo l’oggetto della confessione ma anche il luogo e il momento, sarebbe comunque sottoposta al vincolo del segreto divino». Ha commentato il vicepresidente dei deputati del Pd e membro della commissione Moro, Gero Grassi.
«Quando il procuratore Sica gli disse che avrebbe chiesto direttamente al Papa di liberarlo dal segreto della confessione – ha aggiunto l’esponente democratico – Mennini gli spiegò, come ha riferito questa mattina, di non affannarsi perché neanche il Santo Pontefice poteva arrivare laddove il limite è segnato dall’alto. Come ha spiegato anche il senatore Paolo Corsini, eminente storico, questa regola in realtà non esiste ma attorno ad essa si avvita uno dei misteri del caso Moro».
Grassi ha poi ricordato che i brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda assicurarono alla figlia maggiore del leader Dc, Maria Fida, che suo padre era morto «avendo ricevuto il conforto della confessione. Forse di un sacerdote vicino alle Br? Insomma, su questo punto don Mennini non mi convince. Tuttavia l’audizione del sacerdote amico di Aldo Moro ci dà una importante conferma: l’esistenza di un canale di ritorno, cioè di un contatto aperto per la gestione di una trattativa che però non si comprende per quali ragioni fallì».

di Fabrizio Colarieti

MoroQuanti uomini facevano parte del commando che sequestrò l’ex presidente della Dc, Aldo Moro, annientando la sua scorta? Quante e quali armi spararono sulla scena del crimine? Quale fu l’esatta dinamica dell’agguato? A queste e ad altre domande, che da trentasette anni tormentano la storia del nostro Paese, la scienza e le nuove tecnologie di crime analysis potrebbero dare delle risposte. È l’obiettivo degli accertamenti avviati il 22 febbraio dalla Polizia Scientifica in via Mariani Fani, a quasi quarant’anni dall’eccidio del 16 marzo 1978, che in quel luogo costò la vita a due carabinieri e a tre agenti di polizia aprendo, per Moro, le porte di un lungo calvario.
A pretendere delle risposte, innanzitutto, è il Parlamento, attraverso una Commissione d’inchiesta, fortemente voluta dal Partito Democratico, che ad ottobre, dopo l’approvazione di una legge istitutiva, è tornata a indagare sui cinquantacinque giorni più lunghi della storia repubblicana. È stato lo stesso organismo a spedire in via Fani gli investigatori della Scientifica con l’incarico di compiere, utilizzando un sofisticato scanner laser, una ricostruzione grafico-digitale che consentirà, dopo una lunga elaborazione al computer, di “rivivere” e “muoversi” su tre dimensioni all’interno della scena del crimine. Permetterà di ri-posizionare tutti gli elementi: i 9 brigatisti che ufficialmente presero parte all’agguato, le auto che bloccarono il corteo di Moro, quelle utilizzate dalle bierre per la fuga e, forse, anche fare chiarezza sul ruolo di quella misteriosa moto Honda su cui, ancora oggi, si addensano dubbi e sospetti. Un’analisi che servirà soprattutto a tracciare le traiettorie di quei 91 colpi sparati in una manciata di minuti, 49 dei quali attribuiti ad una sola arma che non sbagliò mai. ...continua a leggere "Caso Moro, la scientifica torna in via Fani per far “rivivere” la scena del crimine"

Aldo MoroLa Commissione d’inchiesta sul caso Moro si avvarrà della collaborazione di quattro magistrati e di un investigatore dell’Arma dei Carabinieri. E’ quanto ha deciso lo stesso organismo parlamentare presieduto dal Giuseppe Fioroni. Tre magistrati sono stati già designati dal comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura e hanno prestato il loro consenso a collaborare con la Commissione.
Si tratta del sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale dell’Aquila,Antonietta Picardi, del magistrato distrettuale requirente della Procura generale presso la Corte di appello di Roma, Antonia Giammaria, e del sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Viterbo, Massimiliano Siddi. La Commissione Moro ha già deliberato di avvalersi anche della collaborazione di Gianfranco Donadio, già Procuratore nazionale antimafia aggiunto e già fuori ruolo presso la Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali.
La Commissione, che secondo la legge ha gli stessi poteri investigativi dell’Autorità giudiziaria, attende un nulla osta da parte dei Carabinieri per avvalersi anche della collaborazione del tenente colonnello Massimo Giraudo, in passato già consulente di organismi parlamentari e inquirente di lungo corso nell’ambito di inchieste su eversione e stragismo. L’investigatore potrebbe riprendere e completare le indagini sul caso Moro già condotte per la Commissione stragi fino al 2001 e fornire ulteriori elementi di informazione.
Attraverso la Polizia di Stato, e in particolare gli esperti della Scientifica, la Commissione intende verificare anche quali accertamenti è ancora possibile compiere sulle vetture coinvolte nella strage di via Fani delle quali la Commissione ha acquisito la disponibilità. Si tratta, in particolare, della Fiat 128 giardinetta con targa diplomatica utilizzata dai brigatisti, della Fiat 130 a bordo della quale viaggiava Aldo Moro e dell’Alfa Romeo Alfetta utilizzata dagli uomini della scorta.

di Fabrizio Colarieti

Aldo MoroIn via Fani la mattina del 16 marzo 1978, il giorno in cui le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e annientarono la sua scorta, c’erano uomini e automezzi dei Servizi segreti. E’ quanto ha rivelato al settimanale Oggi il vicepresidente dei deputati del Partito democratico e membro della Commissione parlamentare sul caso Moro, Gero Grassi. «Certamente queste persone non erano lì a prendersi un caffè», ha aggiunto l’esponente democratico. «Spararono anche loro? Lo sospettiamo fortemente, ma non siamo ancora in grado di dimostrarlo. Quello che però possiamo dire con assoluta certezza – ha detto ancora Grassi – è che le Brigate rosse non agirono da sole, ma furono quantomeno “accompagnate”».
L’attacco al presidente della Dc e alla sua scorta durò tre minuti, dalle 9.02 alle 9.05, e poté perfezionarsi grazie a un fondamentale particolare. «Per anni – spiega Grassi – ci hanno raccontato che la Fiat 130 su cui viaggiava Aldo Moro fu bloccata dalla 128 condotta dal brigatista Moretti che tagliò l’incrocio a marcia indietro e la tamponò sul frontale. Ma non è vero. Non ci fu nessun tamponamento. E’ vero, invece che all’incrocio tra via Fani e via Stresa, nel posto dove abitualmente stazionava il furgone del fioraio Spiriticchio, a cui erano stati squarciati gli pneumatici la sera prima, c’era parcheggiata una Austin Morris targata Roma T50354, della società Poggio delle rose, di proprietà dei Servizi segreti italiani, con sede in via Libertà, 10».
Fu proprio quest’auto, secondo il vicepresidente dei deputati del Pd, a bloccare la via di fuga alla 130 di Moro. E c’è dell’altro. Alla sinistra dell’auto di Moro, vi era parcheggiata un’altra Mini minor il cui proprietario era Tullio Moscardi, membro di Gladio, la struttura paramilitare segreta della Nato. «Sul lunotto posteriore di quest’auto – ha concluso Grassi – c’era in bella evidenza un foglio rettangolare bianco. Sembra un particolare insignificante, ma oggi siamo in grado di dire che nel linguaggio delle operazioni coperte, quel simbolo vuol dire una cosa precisa: “Servizi in azione”».

di Fabrizio Colarieti