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dc9_ustica1_NIl Dc-9 Itavia precipitato il 27 giugno 1980 al largo di Ustica, mentre andava da Bologna a Palermo con 77 passeggeri e 4 membri dell'equipaggio, non esplose in volo e nelle vicinanze c'era almeno un altro aereo che lo attaccò, quasi certamente con un missile, lasciando una traccia radar che per anni era stata scambiata per i rottami del Dc-9 stesso. Lo afferma uno studio del Dipartimento di ingegneria aerospaziale dell'Università di Napoli appena consegnato ai legali dei familiari di alcune vittime, che potrebbe riscrivere daccapo quanto avvenne quella notte.
Gli ingegneri dell'Università Federico II, a distanza di anni dalle ultime indagini tecniche promosse dalla magistratura, sono giunti a queste conclusioni rielaborando con nuove tecnologie gli stessi dati che erano stati acquisiti subito dopo il disastro. Dall'analisi emerge, innanzitutto, che la comparazione tra le tracce radar di Ciampino e la disposizione dei relitti finiti in fondo al Tirreno è compatibile con l'ipotesi che l'aereo, dopo un evento improvviso che creò uno squarcio nella fusoliera e la conseguente depressurizzazione, sia precipitato in mare sostanzialmente integro.
Una novità assoluta che, stando a quanto affermano gli esperti consultati dai familiari delle vittime, rimetterebbe in discussione l'interpretazione dell'intero scenario. Fino ad ora, per sostenere la presenza di almeno un aereo non identificato nelle vicinanze del Dc-9, provata anche dalle parziali risposte fornite dalla Nato, si faceva riferimento a tre plot (-17, -12 e 2b), ovvero una coppia di tracce che compaiono prima del momento del disastro e due battute dopo. Adesso, invece, nell'ipotesi formulata dagli esperti partenopei, i plot che non appartengono al volo Itavia 870 sono molti di più, almeno una ventina, e proverebbero la presenza di uno, o forse due, aerei che da ovest verso est, dopo averlo attaccato, intersecano la traiettoria del Dc-9 e si disimpegnano. Dunque l'oggetto non identificato, che rimane per oltre un minuto in quota e ben visibile ai radar dopo l'ultima battuta del Dc-9, non avrebbe nulla a che fare con i rottami dell'Itavia in passato chiamati in causa per dare una spiegazione alle tracce che contaminano l'ultimo tratto della sua rotta. ...continua a leggere "Ustica: studio Università di Napoli, il Dc-9 subì un attacco aereo"

Massimo CarminatiL’ultima immagine che abbiamo di lui lo mostra con le mani alzate. Arreso di fronte agli uomini del Ros che lo hanno appena fermato nelle campagne di Sacrofano. Non è armato. Non oppone resistenza. È sorpreso e spaesato. Neanche il tempo di scendere dalla sua auto e Massimo Carminati, 56 anni, detto er Cecato, uomo chiave dell’inchiesta della procura di Roma sulla cosiddetta Mafia capitale, ha già le manette che gli serrano i polsi. Una breve sequenza di fotogrammi che la penna di Giancarlo De Cataldo avrebbe narrato allo stesso modo, chiudendo, con il rumore delle sbarre, l’ultimo capitolo dell’epopea criminale di un uomo che per oltre 30 anni è entrato e uscito dalle storie più torbide del nostro Paese. Stragi, omicidi eccellenti, colpi miliardari e traffici di droga. Un tormento per generazioni di investigatori, ma lui, il Guercio, per via di quell’occhio perso in un conflitto a fuoco con la polizia quando di anni ne aveva appena 23, ne è sempre uscito pulito, o quasi.
Il profilo più recente, quello tracciato dagli inquirenti romani che attorno al suo nome hanno delineato i confini di una potente holding criminale capace di arrivare ovunque, cristallizza meglio di qualunque altra biografia l’autorevolezza e lo spessore criminale di Carminati. Capo e organizzatore, sovrintende e coordina tutte le attività dell’associazione, impartisce direttive agli altri partecipi, fornisce loro schede dedicate per le comunicazioni riservate, individua e recluta imprenditori, ai quali fornisce protezione, mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operanti su Roma nonché con esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario, con appartenenti delle forze dell’ordine e dei servizi segreti.
Il suo metodo, scrivono gli investigatori che oggi indagano su Mafia capitale, è rimasto immutato tanto e quanto la sua fama. La sua è una figura «di rispetto», il trait d’union perfetto tra crimine, alta finanza e politica. Una leadership di ferro costruita negli anni che gli ha permesso di attraversare, senza mai rimetterci le penne, diverse primavere criminali, fino a posizionarsi, in equilibrio, tra il mondo di sopra, fatto di colletti bianchi, imprenditori e uomini delle istituzioni, e il mondo di sotto, fatto di batterie di rapinatori, trafficanti di droga e gruppi armati. Cioè nel mondo di mezzo - come spiega lui stesso nelle intercettazioni più recenti - dove tutto si incontra e tutto si mischia. ...continua a leggere "Mafia Capitale: segreti e crimini di Carminati"

La Commissione Moro ricostruirà, punto per punto, l’agguato di via Fani. Sarà una ricostruzione dettagliata che riguarderà la dinamica, le diverse fasi e presenze deducibili dai fatti. «Dobbiamo verificare – ha detto il presidente dell’organismo parlamentare Giuseppe Fioroni – se ci sia stato o no il tamponamento tra l’auto delle Br e quella di Moro e molto altro. Ricostruiremo i fatti in quello che la magistratura chiama “incidente probatorio”».
«Ci sono mille cose che non quadrano a cominciare da via Fani: grazie ad un inchiesta giornalistica ora sappiamo che la Austin Morris che bloccò la strada alla 130 di Moro, impedendole di svincolarsi dalla trappola che le era stata tesa, è riconducibile ad una società di copertura dei servizi segreti», ha dichiarato il vicepresidente dei deputati del Pd, Gero Grassi, intervenendo alla Camera alla presentazione di un libro su Aldo Moro.
Secondo quanto ha ricostruito la giornalista Stefania Limiti, la mattina del 16 marzo 1978 la Fiat 130 su cui viaggiava Moro e l’Alfetta della sua scorta imboccarono la parte alta di via Fani, lasciando via Trionfale. Giunsero poi all’altezza dell’incrocio di via Stresa e lì si trovarono di fronte una Fiat 128 targata corpo diplomatico: si è sempre detto che quest’auto fu tamponata dall’autista di Moro, in realtà non vi fu alcun tamponamento intenzionale che avrebbe potuto alterare la dinamica dell’azione, dando tempo agli uomini della scorta di reagire (come spiega anche Mario Moretti nel suo libro intervista). La 128 si fermò regolarmente allo stop e contemporaneamente i brigatisti, appostati dietro le siepi del bar Olivetti, aprirono il fuoco.
All’angolo di via Stresa era parcheggiata un’auto che impedì all’autista della 130 con a bordo il presidente della Dc di tentare una più agile manovra per eludere la Fiat 128 che gli si era posta di fronte (quella guidata dal commando della Br). Racconta Valerio Morucci: “lapresenza casuale di una Mini (in realtà era l’Austin Morris a dx nella foto, ndr) all’angolo di via Fani con via Stresa fu fatale per Aldo Moro”. Quando l’autista del presidente Dc si rese conto di trovarsi al centro di un agguato, tentò istintivamente di spingere l’acceleratore e trovare una via di fuga ma la manovra gli fu impossibile. L’Austin gli sbarrò la strada. La trappola era scattata: i mitra dei brigatisti già avevano cominciato a sparare, i cinque uomini della scorta vennero annientati e Moro finì nelle mani del commando.
L’Austin Morris, la cui targa (Roma T50354) è ben visibile in molte foto, era stata acquistata un mese prima dell’operazione Moro da una società immobiliare di nome Poggio delle Rose che aveva sede nella capitale, in Piazza della Libertà 10, esattamente nello stabile nel quale si trovava anche l’Immobiliare Gradoli Spa riconducibile a fiduciari del Sisde. La presenza dell’Austin in via Fani secondo la giornalista Stefania Limiti «non ha mai assunto nessuna rilevanza nelle ricostruzioni successive: come se fosse stata opportunamente sfilata dalla scena del crimine, sottratta alla ricostruzione ufficiale del caso, sbianchettata dal quadro».

di Fabrizio Colarieti

Steve PieczenikSul conto di Steve Pieczenik, lo psichiatra, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e superconsulente del Governo italiano ai tempi del sequestro di Aldo Moro, vi sono «gravi indizi circa un suo concorso nell’omicidio» dello statista democristiano. E’ quanto sostiene il procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli (nella foto), nella richiesta di archiviazione, inoltrata ieri al gip del tribunale di Roma, dell’inchiesta sulle rivelazioni dell’ex ispettore di polizia Enrico Rossi che aveva ipotizzato la presenza di agenti dei Servizi, a bordo di una moto Honda, in via Fani.
Il pg ha disposto la trasmissione della voluminosa richiesta di archiviazione al procuratore della Repubblica di Roma «perché proceda nei confronti di Pieczenik in ordine al reato di concorso nell’omicidio di Aldo Moro, commesso in Roma il 9 maggio 1978». La controversa figura dell’esperto statunitense, che fu chiamato dall’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, a far parte del comitato di crisi istituto poche ore dopo il sequestro di Moro, è da tempo, e da molti, considerata “centrale” nella vicenda del sequestro e dell’omicidio del presidente della Dc.
Nella richiesta la procura generale sottolinea che nei confronti del superconsulente, che nei mesi scorsi era ricomparso sulla stampa americana tornando a parlare del caso Moro, «sono emersi indizi gravi circa un suo concorso nell’omicidio, fatto apparire, per atti concludenti, integranti ipotesi di istigazione, lo sbocco necessario e ineludibile, per le Brigate Rosse, dell’operazione militare attuata in via Fani, il 16 marzo 1978, ovvero, comunque, di rafforzamento del proposito criminoso, se già maturato dalle stesse Br».
«Abbiamo trovato del materiale interessante nell’analisi dell’intervista all’esperto americano realizzata da Minoli anni fa. Abbiamo visionato l’intero girato grezzo della intervista», ha spiegato Ciampoli parlando davanti alla Commissione Moro. Noi «abbiamo registrato una autoreferenzialità quasi schizofrenica da parte di questo soggetto che rivendica in maniera diretta di aver determinato l’uccisione di Aldo Moro. La strategia era quella di mettere alle strette le Br che avrebbero ucciso il Presidente quando si erano ormai piegate alla esigenza di liberarlo. Un omicidio indotto».
Nella richiesta di archiviazione vi è traccia anche del ruolo giocato nel sequestro Moro dal colonnello del Sismi, Camillo Gugliemi, presente in via Fani la mattina del 16 marzo 1978 , nei confronti del quale secondo il pg «potrebbe ipotizzarsi» il concorso nel rapimento e nell’omicidio degli uomini della scorta, ma nei suoi confronti non si può promuovere l’azione penale perché è morto. Le indagini compiute dalla procura generale confermano che Guglielmi era «presente in via Fani alle ore 9 antimeridiane» o comunque «pochi minuti dopo il fatto». L’agente del Sismi, durante il processo Moro in Corte d’assise, giustificò la sua presenza lì, a quell’ora, «asserendo di doversi recare a pranzo da un collega, che abitava nelle vicinanze». Versione che il pg definisce «risibile» e che è stata smentita anche dall’amico in questione. Dunque allo stato dei fatti, anche secondo il pg Ciampoli, «restano misteriose le ragioni della presenza di Camillo Guglielmi in via Fani».
In merito alla presenza di una moto Honda nel luogo dell’agguato, Ciampoli ha detto alla Commissione Moro che «bisogna prendere atto che in via Fani, con la moto, non c’erano solo le Br. Questi hanno successivamente sminuito queste presenze non conosciute all’epoca. Oggi sappiamo che su quel palcoscenico c’erano, oltre alle Br, agenti dei servizi segreti stranieri, interessati a destabilizzare l’Italia». «Sicuramente su quella moto non c’erano – ha spiegato il procuratore generale – né “Peppo” né “Peppa”, i due autonomi, che invece sono presenti in altri episodi. Questo è un dato sicuro. Il problema della moto non inquadrata nelle forze Br rimane».
L’indagine della Procura generale di Roma, «meticolosa e approfondita», tuttavia, non ha permesso di identificare chi fosse i due uomini in sella alla Honda e perciò deve essere archiviata perché «non c’è certezza alcuna sull’identità dei due personaggi» che, secondo quanto riferì all’Ansa l’ex ispettore di polizia Enrico Rossi, potevano essere legati ai servizi segreti. «Premesso che il quadro degli accertamenti acquisito dalla Procura di Roma non era dei più incoraggianti – ha aggiunto Ciampoli -, abbiamo accertato che sulla moto non c’era neanche Antonio Fissore (il fotografo, deceduto nel 2012, che una lettera anonima inviata al quotidiano La Stampa indicava come uno degli 007 presenti in via Fani alle dipendenze del colonnello Guglielmi, ndr). Fissore – ha spiegato il pg – risultava in volo dall’aeroporto da Levaldigi a Varese con rientro a Levaldigi alle 17.15 dello stesso giorno. Quanto allo stesso Guglielmi – ha concluso Ciampoli – abbiamo verificato che non gestiva alcun comando».
«L’audizione con il procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, e con il sostituto procuratore generale preso la Corte d’Appello di Roma, Otello Lupacchini, che riprenderà domani alle 16,30, è stata di grande interesse ed ha messo in evidenza elementi cruciali del caso Moro: cioè la presenza di presenze esterne alle Br in via Fani e il ruolo dell’agente Usa Steve Pieczenik. Mi pare che più che archiviare, qui c’è da aprire nuovi dossier». Ha commentato il vicepresidente dei deputati del Pd, Gero Grassi. «C’è molto materiale su cui lavorare per scavare e cercare nuove verità. E’ certo – ha aggiunto l’esponente democratico – che, a tanti anni di distanza, le richieste di archiviazione in sede giudiziaria non vanno confuse con l’assoluzione in sede politica, dove non si valutano le responsabilità individuali ma, appunto, quelle generali, politiche. I procuratori hanno infatti spiegato a chiare lettere che non hanno potuto raccogliere elementi sufficienti per poter dare seguito alle denunce dell’ispettore Enrico Rossi perché sono intervenuti dopo una inerzia di due anni. Dunque, la nostra attenzione verso quanto ha dichiarato Rossi resta alta».

di Fabrizio Colarieti