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antonio ingroia«Per combattere la criminalità organizzata, superando confini e ostacoli, occorre un testo unico europeo delle leggi antimafia e una super procura». Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, accoglie con soddisfazione la nomina di Sonia Alfano alla presidenza della Commissione antimafia europea, ma, rispondendo alle domande de Il Punto, avverte: «Non sarà facile fare tutto questo in poco tempo, perché non credo ci siano ancora le condizioni politiche». E sulle minacce di morte appena ricevute, che l’hanno costretto a rinunciare a partecipare a un evento in ricordo di Paolo Borsellino: «Con questo clima di odio c’è il rischio che qualche testa calda se ne approfitti».
Dottor Ingroia, partiamo dalla nomina dell’onorevole Sonia Alfano alla presidenza della Crim, è una grande opportunità non crede?
«E’ certamente un’occasione importante. Ed è un’opportunità per tutta l’antimafia avere un presidio europeo, un punto di riferimento forte. Dobbiamo guardare sempre di più verso gli snodi istituzionali, dove si può organizzare un’offensiva contro il potere mafioso che non sia più confinata dentro il territorio nazionale, ma che sia transnazionale. L’Europa deve diventare uno spazio giuridico antimafia, e per diventarlo penso che la Commissione antimafia europea sia un ottimo strumento. Deve essere, soprattutto, un’occasione per tutti».
Quali ostacoli incontra un magistrato italiano quando si trova a indagare sulla criminalità organizzata fuori dai confini nazionali?
«Ne incontra mille, spesso anche insormontabili. Innanzitutto ostacoli rappresentati da linguaggi diversi, e non mi riferisco agli idiomi linguistici, ma a quelli giuridici. Non sempre si è compresi quando si parla di cosa nostra, di camorra o della ‘ndrangheta. Siamo di fronte a un fenomeno che non è solo locale, o al massimo regionale, e questo concetto, a volte, è difficile da spiegare anche in Italia, e ovviamente ancor più in Europa. Non c’è una diffusa consapevolezza, e questo è uno degli ostacoli principali. Poi ci sono ostacoli pratici, legislativi, che sono una conseguenza delle difficoltà linguistiche cui accennavo, non essendoci sufficiente consapevolezza della dimensione transnazionale della mafia. Ogni Paese è attrezzato con strumenti giuridici modellati sulla criminalità locale che non riguardano la criminalità transnazionale, e quindi quello che è reato in Italia non lo è altrove. E’ il caso, classico, dell’associazione di tipo mafioso, oppure i presupposti che consentono di sequestrare e confiscare un bene in Italia, in base al sistema delle misure di prevenzione patrimoniali, che non sono riconosciute in altri Paesi europei, e questo, naturalmente, rende difficoltosa anche la caccia ai patrimoni mafiosi. Quello che manca è una piattaforma comune, che si costruisce solo passando attraverso una fase di omogeneizzazione delle legislazioni nazionali e attraverso sempre più efficaci ed efficienti strumenti di lotta transnazionali».
Immagina una super procura o, comunque, più coordinamento tra le forze di polizia?
«Credo occorra potenziare gli strumenti che già ci sono. Eurojust ed Europol svolgono questa funzione, cioè agevolano gli scambi d’informazioni tra stati, ma non hanno ancora quella forza e quel potere vincolante che ha, per esempio, la Procura nazionale antimafia in Italia. Bisogna esportare i modelli virtuosi italiani in ambito europeo. Modellare, per esempio, Eurojust sul modello della Procura nazionale antimafia, se non si vuole creare una super procura. Occorre creare un luogo dove si elaborino strategie comuni per affrontare a livello europeo la criminalità organizzata».
Pensa all’introduzione di un testo unico antimafia?
«Certamente possiamo dire che l’obiettivo finale, il traguardo da raggiungere, è l’adozione di un testo unico europeo delle leggi antimafia, così come la creazione di una procura europea antimafia. Ma non credo ci siano le condizioni politiche per raggiungere questi due obiettivi in tempi rapidissimi, e su questo bisogna lavorare creando i presupposti».
Recentemente è stato costretto, per motivi di sicurezza, ad annullare la partecipazione ad un incontro pubblico, a Teramo, e ha parlato di minacce «frutto di un’opera costante di delegittimazione».
«Quando si crea, con questa compagna di denigrazione, costante e martellante, questo humus di odio e di falsa etichettatura, offendendo il valore principale di un magistrato, cioè la sua imparzialità, il rischio che qualche testa calda, o qualche fanatico, se ne approfitti c’è. Occorre maggiore senso di responsabilità da parte di tutti, soprattutto dentro le istituzioni. Sono state parole al vento per anni, speriamo che, alla vigilia di quella che si chiama III repubblica, un po’ di senso di responsabilità possa finalmente tornare in questo Paese».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 17 maggio 2012 [pdf]

Li ho visti da vivi e li ho visti da morti. Ho conosciuto molti dei personaggi che hanno incrociato le loro esistenze tormentate, i pochi amici, i tanti nemici, il branco degli indifferenti. Prima di iniziare a scrivere, ho raccolto vecchie istruttorie e qualche sentenza. Ma poi ho provato un disagio profondo a leggere sempre gli stessi nomi, gli stessi mandanti delitto dopo delitto e strage dopo strage. Non sono arrivato in fondo. Non ce l’ho fatta. Sapevo già come finiva la storia di questi uomini soli». Attilio Bolzoni, giornalista de La Repubblica, esperto di mafia, nella premessa del suo ultimo libro, “Uomini soli” (Melampo Editore, 232 pagine 16,00 euro), accoglie così i suoi lettori. Il suo saggio è quasi un trattato di storia contemporanea, è un racconto collettivo su quattro uomini, lasciati soli dalle istituzioni e uccisi da Cosa Nostra. È la storia di Pio La Torre, il primo parlamentare (del Pci) ucciso dalla mafia, sparato giù a Palermo, il 30 aprile 1982. Lo ammazzano, scrive Bolzoni, perché, probabilmente, «aveva capito che la Sicilia stava cambiando padroni». Lo uccidono perché era pericoloso, tenace, intransigente. Insomma era uno «che non si piegava mai» e che parlava due lingue, il siciliano e l’italiano. Di Pio La Torre, resta una legge, la Rognoni- La Torre, uno strumento decisivo nella lotta alla mafia, nata grazie al suo sacrificio e a quello di altri uomini rimasti soli, come lui. Quattro mesi dopo tocca a un altro uomo dello Stato, a un generale dei carabinieri che non piace al potere. Quando ammazzano Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie, Emanuela Setti Carraro, la sera del 3 settembre 1982, a Palermo in via Isidoro Carini, i detenuti dell’Ucciardone brindano con lo champagne. È il cadavere – scrive Attilio Bolzoni – di un generale «fatto a pezzi dallo Stato, diventato troppo ingombrante ». «Una leggenda per i suoi carabinieri, un mito della lotta al terrorismo degli Anni Settanta, una minaccia permanente per l’Italia che sopravvive fra patti e ricatti». Anche lui, giù a Palermo, era un uomo solo. Come Giovanni Falcone, il giudice simbolo, l’uomo che faceva tremare la mafia. Quando muore, a Capaci il 23 maggio 1992, insieme a sua moglie, Francesca Morvillo, e agli agenti della sua scorta, anche lui era rimasto solo. Falcone – scrive ancora Bolzoni – era il magistrato «più amato e più odiato d’Italia». «Detestato, denigrato, guardato con sospetto dagli stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla politica, resiste fra i tormenti schivando attentati dinamitardi e tranelli governativi. Per tredici lunghissimi anni provano ad annientarlo in ogni momento e in tutti i modi. Per quello che fa e per quello che non fa». Cinquantasei giorni dopo tocca al suo erede, all’uomo che ne ha appena raccolto il testimone, Paolo Borsellino. La morte lo attende il 19 luglio, siamo ancora giù a Palermo, in via Mariano D’Amelio. Alle 16.58 e 20 secondi, narra Bolzoni raccontando la storia dell’ultimo uomo solo, il procuratore salta in aria con i cinque poliziotti della sua scorta. Un attentato libanese. «Fumo, urla, fiamme, sirene, terrore. Cinquantasei giorni dopo Capaci, hanno ammazzato anche Paolo Borsellino». Gli uomini soli di Attilio Bolzoni, come Borsellino e Falcone, sapevano che li avrebbero fermati, prima o poi. «Facevano paura al potere». Perché erano italiani «troppo diversi e troppo soli per avere un’altra sorte». «Una solitudine generata non soltanto da interessi di cosca o di consorteria. Ma anche da meschinità più nascoste e colpevoli indolenze, decisive per trascinarli verso una fine violenta. Vite scivolate in un cupo isolamento pubblico e istituzionale». Trent’anni dopo la morte di Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, e vent’anni dopo quella di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non sappiamo ancora chi li ha voluti morti, ma, di certo, sappiamo che erano uomini soli.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto [pdf]

«Altro che falsi, quei titoli sono veri e ancora validi, ecco perché fanno tanta paura agli americani. Al mio assistito li ha consegnati un cittadino spagnolo con tanto di procura a vendere, doveva provare a piazzarli sul mercato dietro riscontro di una percentuale». A parlare è l’avvocato dell’agricoltore viterbese, fermato dalla Guardia di Finanza il 21 aprile scorso nel capoluogo della Tuscia, mentre se ne andava in giro sulla sua macchina con una valigetta piena zeppa di titoli di Stato e certificati di deposito in oro statunitensi per un valore di quasi 4 miliardi di euro. «Il mio assistito – spiega a Il Punto l’avvocato Franco Taurchini – aveva con sé anche alcuni documenti che certificano l’autenticità dei titoli e dei certificati di deposito. Glieli aveva affidati uno stimato imprenditore della Costa Brava, che tra l’altro ha da tempo intentato causa alla Federal Reserve. Sono autentici, e visto il loro valore, è ovvio che le autorità americane si affrettino a dichiararli falsi».
Il 70enne Andrea Cherchi, così si chiama l’agricoltore finito sotto inchiesta per il contenuto di quella valigetta, non è stato arrestato (come chiarisce il suo legale), anche se nei suoi confronti è stato ipotizzato il reato di introduzione nel territorio dello Stato di monete e titoli presumibilmente falsi. In passato l’agricoltore viterbese di origini sarde aveva già avuto molti problemi con la giustizia, ed è la sua fedina penale a raccontare tutto il resto: rapina, estorsione, reati contro il patrimonio, traffico di stupefacenti e riciclaggio di denaro. Gli investigatori pare indagassero sul suo conto da mesi, anche se la genesi dell’indagine Million dollar, che ha portato al sequestro della valigetta contenente il tesoretto in titoli americani, è ancora poco chiara, così come tutto ciò che ruota attorno a questa spy story. Stando a quanto ha fatto sapere la Guardia di Finanza i documenti sequestrati all’agricoltore sono ritenuti «di dubbia provenienza», cioè sarebbero falsi. I titoli di credito americani, emessi “al portatore” dalla Federal Reserve negli anni Trenta, che l’uomo aveva con sé valevano complessivamente 1,5 miliardi di dollari e oltre 3 miliardi di euro gli altri certificati di deposito, per circa mille tonnellate di oro, trovati in suo possesso. Secondo le fiamme gialle i titoli erano destinati a garantire prestiti «ovvero opache transazioni finanziarie internazionali», così come altri documenti finanziari e scritture notarili che Cherchi aveva in auto nel momento in cui la finanza lo ha bloccato a Viterbo. Sull’autenticità dei documenti sono ancora in corso accertamenti, cui stanno collaborando i funzionari della Banca centrale americana e dell’Ambasciata degli Stati Uniti. «Accertamenti - spiega una nota diffusa dalle fiamme gialle - volti a verificare l’autenticità, la natura e la provenienza dei titoli, nonché la loro destinazione ed eventuali collegamenti dell’uomo con organizzazioni criminali».
Via Veneto conferma. Ecco quanto ha riferito a Il Punto il portavoce dell’Ambasciata americana di Roma: «Per quanto riguarda le recenti notizie di falsi/fittizi titoli di Stato degli Stati Uniti, posso solo dire che i Servizi segreti stanno collaborando regolarmente con i funzionari italiani delle forze dell'ordine e ci complimentiamo con la polizia italiana e i magistrati per la collaborazione. I 6.000 miliardi di dollari in titoli sequestrati a febbraio erano fittizi e il Servizio segreto ne ha dato conferma alle autorità italiane». Secondo quanto ha appreso Il Punto, gli esperti del U.S. Secret service, dopo aver visionato i titoli sequestrati a Cherchi, hanno trasmesso alla Guardia di Finanza un dettagliato rapporto in cui si conferma, come avvenuto in occasione di altre decine di sequestri di questo tipo, che quei titoli sono «fittizi», cioè falsi. La verità, secondo le autorità americane, è nelle loro caratteristiche: colori sbagliati, tagli desueti, carta e inchiostro di produzione successiva agli anni Trenta, varie imperfezioni e iscrizioni mai usate nelle emissioni reali. Senza tralasciare – come più volte segnalato dalla stessa Federal Reserve – che l'esagerato taglio dei bond sequestrati (1 miliardo di dollari) è di gran lunga superiore a quello massimo (100.000), effettivamente utilizzato dal governo statunitense, che, tra l’altro, nel ‘34 non immise sul mercato obbligazioni di questo tipo.
Prima del blitz della Guardia di Finanza a Viterbo, anche la Direzione distrettuale di Potenza aveva messo a segno un colpo analogo. Proprio nel febbraio scorso, il 17, il Ros dei carabinieri nell’ambito dell’operazione Vulcanica aveva sequestrato a Zurigo altri titoli Usa del valore di 5.975 miliardi di dollari. In quell’occasione era finito in manette, insieme ad altre 7 persone, un promotore finanziario di Codogno, che interrogato aveva anch’egli dichiarato che quei titoli erano autentici ma scaduti. Il professionista codognese, secondo gli inquirenti della Dda di Potenza, era l’intestatario del contratto di deposito in Svizzera delle casse che contenevano i bond, aperte dai militari del Ros grazie alla collaborazione dell’istituto di credito elvetico che le custodiva. I titoli erano stati emessi nel 1934 (come quelli sequestrati all’agricoltore viterbese) e avevano una validità di trentatré anni. I pm Francesco Basentini e Laura Triassi sono arrivati alle tre casse partendo dalla Basilicata e indagando su faccende di usura e mafia. Il prezioso contenuto dei bauli avrebbe raggiunto Zurigo dopo un lungo peregrinare: prima Roma, poi Londra, Hong Kong e infine la Svizzera, e a veicolare fin lì i titoli sarebbe stata una fiduciaria elvetica fondata all’indomani della seconda guerra mondiale. All’interno di ognuna delle tre casse gli investigatori hanno trovato, ben custoditi dentro dei cilindri di piombo, anche una copia del trattato di pace di Versailles (1919). E quei Bond, secondo il gruppo di falsari che stava tentando di immetterli sul mercato, rappresentavano la «riparazione» delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale per i danni causati all’Europa. Le tre casse di legno erano chiamate con il nome in codice mother box, pesavano oltre un quintale l’una e avevano impresse sulla parte superiore le scritte in bronzo “Chicago” e “Federal Reserve”. Al loro interno i titoli erano a loro volta stipati e accuratamente catalogati in piccoli box di ferro in grado di ospitare 250 documenti ciascuno. Dopo una prima analisi, gli inquirenti hanno potuto accertare che i bond erano stati trattati con la paraffina, per garantire una migliore conservazione, ed erano di ottima fattura, ma certamente falsi secondo la perizia trasmessa al Ros dagli esperti dell’ufficio di Roma dell’U.S. Secret service. Secondo gli investigatori l’organizzazione, di cui facevano parte oltre il promotore finanziario di Codogno anche tre piemontesi, due romani, un lucano e un siciliano, avrebbe comunque tentato di “piazzare” titoli americani simili a quelli sequestrati a Zurigo, anche avviando trattative con «alcune non ben individuate autorità americane», interessate, guarda caso, a «intercettare» il tesoro prima che fosse messo in circolazione.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto [pdf]

«Li ho visti da vivi e li ho visti da morti. Ho conosciuto molti dei personaggi che hanno incrociato le loro esistenze tormentate, i pochi amici, i tanti nemici, il branco degli indifferenti. Prima di iniziare a scrivere, ho raccolto vecchie istruttorie e qualche sentenza. Ma poi ho provato un disagio profondo a leggere sempre gli stessi nomi, gli stessi mandanti delitto dopo delitto e strage dopo strage. Non sono arrivato in fondo. Non ce l’ho fatta. Sapevo già come finiva la storia di questi uomini soli». Attilio Bolzoni, giornalista de La Repubblica, esperto di mafia, nella premessa del suo ultimo libro, Uomini soli (Melampo Editore, 232 pagine 16,00 euro), accoglie così i suoi lettori. Il suo saggio è quasi un trattato di storia contemporanea, è un racconto collettivo su quattro uomini, lasciati soli dalle istituzioni e uccisi da Cosa Nostra.
È la storia di Pio La Torre, il primo parlamentare (del PCI) ucciso dalla mafia, sparato giù a Palermo, il 30 aprile 1982. Lo ammazzano, scrive Bolzoni, perché, probabilmente, «aveva capito che la Sicilia stava cambiando padroni». Lo uccidono perché era pericoloso, tenace, intransigente. Insomma era uno «che non si piegava mai» e che parlava due lingue, il siciliano e l’italiano. Di Pio La Torre, resta una legge, la Rognoni-La Torre, uno strumento decisivo nella lotta alla mafia, nata grazie al suo sacrificio e a quello di altri uomini rimasti soli, come lui. ...continua a leggere "Uomini soli"