Vai al contenuto

euro falsiNell’ultimo anno un cittadino italiano su 649 si è ritrovato tra le mani almeno una banconota falsa. Nel secondo semestre del 2011, secondo i dati diffusi dalla Banca d’Italia, ne sono state riconosciute e ritirate dalla circolazione oltre 145mila, il 5 per cento in più rispetto al 2010. Il taglio da 20 euro risulta ancora il più “taroccato”: con oltre 120mila pezzi ritirati rappresenta, infatti, il 61 per cento del totale dei falsi individuati (215mila), seguito dal taglio da 100 e da 50. In tutta l’Eurozona, riferisce la Banca centrale europea, nello stesso periodo sono state tolte dalla circolazione 310mila banconote false, oltre 5,5 milioni dalla nascita dell’euro. Tuttavia, sempre secondo la Bce, dal 2005, dopo un primo periodo di crescita “fisiologica” delle falsificazioni, il totale delle banconote contraffatte si è stabilizzato tra i 600 e i 700mila esemplari l’anno, salvo un picco di oltre 800mila banconote ritirate nel 2009. Il 98 per cento delle banconote false e stato ritirato nei Paesi dell’area dell’euro, l’1,5 per cento in altri Paesi dell’Unione e la quota rimanente al di fuori dell’Ue. Se si considera, poi, che il volume medio di banconote in circolazione nel primo semestre del 2011 e  stato pari a 13,8 miliardi di pezzi, il fenomeno della falsificazione dell’euro, a parere degli esperti, può essere considerato tuttora piuttosto contenuto. Non va meglio con le monete in metallo: oltre 45mila quelle false sequestrate nel 2011, di queste oltre 20mila esemplari erano da 1 euro, 12mila da 2, 11mila da 50 centesimi e 686 da 20 centesimi.
TRUCCHI DEL MESTIERE. I falsari preferiscono produrre tagli maggiormente spendibili (20, 50 e 100), molto meno quelli da 200 e 500, perché possono essere facilmente utilizzati in transazioni al dettaglio, talvolta anche tramite distributori automatici di beni o servizi. L’analisi delle tecniche di falsificazione monetaria mostra un deciso orientamento verso il metodo tradizionale della stampa offset (il 93 per cento dei casi), un processo planografico che utilizza matrici piane tipiche della fototipia e della litografia e che, a differenza dei sistemi digitali, richiede attrezzature e tecnologie ampiamente disponibili nelle tipografie. Ed è una tecnica molto utilizzata anche dai falsari made in Italy. Tuttavia una delle falsificazioni più diffuse, grazie anche alla maggiore disponibilità sul mercato di tecnologie di stampa a basso costo, è quella delle banconote da 20 euro prodotte in digitale. Il mercato del falso, secondo uno studio della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale, è dominato da un esiguo numero di “classi”, 7 in tutto, prodotte e distribuite in larga scala. Sulla base delle caratteristiche tecniche, i biglietti “tarocchi” appartengono alle classi “local” e “common”. Le prime, realizzate con tecniche di riproduzione digitale, hanno una produzione presumibilmente limitata e sono verosimilmente destinate a circolare in ambito nazionale. Le seconde, realizzate in offset su vasta scala, sono tendenzialmente diffuse in più Paesi.
LE CONTROMISURE. Le tecniche investigative sul fronte dell’antifalsificazione monetaria, dall’introduzione dell’euro, hanno fatto passi da gigante. Dal 2004 le forze di polizia hanno smantellato in Italia 11 stamperie clandestine, otto delle quali utilizzavano sistemi di stampa offset. Al loro fianco c’è un sistema d’indagine gestito dalla Banca centrale europea molto evoluto, il “Counterfeit Monitoring System”, che aiuta a individuare i falsi archiviando le perizie compiute dagli esperti della Banca d’Italia e dell’Istituto poligrafico e zecca dello Stato. Dalle indagini è emerso che il monopolio delle banconote false in Italia, ma anche nell’Eurozona, è nelle mani del “Napoli group”, così gli investigatori del Comando antifalsificazione monetaria dell’Arma hanno ribattezzato la filiera clandestina che smercia il maggior numero di banconote false. L’84 per cento di quelle in circolazione nel Belpaese (il 62 altrove) sono prodotte e smerciate da loro, e gli introiti derivanti sono ovviamente appannaggio esclusivo della Camorra. A Napoli, al dettaglio, i biglietti “verdi” da 100 euro falsi costano 35 euro, quelli “rossi” da 50, 25 euro, e quelli “celesti” da 20, 12 euro. Nell’elenco delle banconote most wanted ce ne sono due prodotte a Napoli e sequestrate, sempre più spesso, in tutta Italia: quella da 20 euro, serie V25590030352, e quella da 50, serie S20175422632, segnalata dalla Banca d’Italia in 41 città diverse. L’ultima indagine, conclusa la scorsa settimana dai carabinieri del Reparto operativo di Rieti in collaborazione con gli esperti della sezione operativa del Comando antifalsificazione monetaria di Roma, nell’arco di due anni ha portato all’arresto di 11 persone, identificate come manovalanza del “Napoli Group”, e al sequestro di oltre 700 banconote false, in gran parte da 20 euro.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 8 marzo 2012 [pdf]

Qui radio Viminale: movimenti in vista ai vertici dei servizi segreti, e forse anche della polizia. Mentre nella Capitale arrivano da Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, nominato dal Csm procuratore capo a Roma, e il super-poliziotto che arrestò il boss Bernardo Provenzano, Renato Cortese, che da capo della Squadra Mobile reggina approda al Servizio centrale operativo. Tuttavia la notizia che in queste settimane sta facendo discutere è un’altra, e riguarda un altro super-investigatore: il prefetto, già capo della polizia, Gianni De Gennaro. Il capo del Dis, il potente Dipartimento per le informazioni e la sicurezza che sovrintende l’attività dei due Servizi segreti, potrebbe lasciare il suo incarico in cambio di una nomina ministeriale a delegato per la sicurezza, oppure, ipotesi meno probabile e già vecchia, per approdare ai vertici del gruppo Finmeccanica. La notizia è tornata ad affacciarsi nei giorni scorsi, e a quanto pare sarebbe stato proprio lo stesso De Gennaro, in vista della scadenza del suo mandato iniziato nel maggio del 2008, a comunicare a Palazzo Chigi la scelta di abbandonare il vertice dei Servizi.
Al suo posto potrebbe arrivare Antonio Manganelli, attuale capo della polizia e anch’egli in procinto di lasciare la poltrona. Nessuna novità né avvicendamenti in vista, per quanto riguarda, invece, le direzioni delle due agenzie di spionaggio. A capo dell’ex Sisde, oggi Aisi, dovrebbe rimanere il generale dei carabinieri, Giorgio Piccirillo, in carica dal 2009. Mentre alla guida dell’ex Sismi, oggi Aise, resta il generale dell’Esercito, Adriano Santini, nominato da Palazzo Chigi nel febbraio del 2010. L’altra novità, come accennato, potrebbe riguardare direttamente la polizia di Stato. Antonio Manganelli, in carica dal giugno del 2007, secondo indiscrezioni, sarebbe in procinto di lasciare il proprio incarico per prendere il posto di De Gennaro al Dis. E in lizza verso la direzione generale del Dipartimento della pubblica sicurezza ci sarebbero già diversi nomi. Innanzitutto i più quotati, due prefetti-poliziotti: Giuseppe Caruso, già questore a Roma e Palermo, di cui è stato anche prefetto e attuale direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati alla criminalità organizzata, e Giuseppe Pecoraro, attuale prefetto di Roma la cui candidatura sarebbe fortemente caldeggiata dal Pdl. Ma in corsa ci sarebbe anche l’attuale questore di Roma, Francesco Tagliente. Tra i papabili capi della polizia ci sono, inoltre, altri due prefetti, anche loro già investigatori di lungo corso: Nicola Cavaliere, oggi vicedirettore operativo dell’Aisi, e l’attuale capo del Dipartimento della protezione civile, già direttore del Sisde e prefetto de L’Aquila dopo il sisma del 6 aprile 2009, Franco Gabrielli. Il nome di Gabrielli, nel 2003 promosso sul campo al grado di Dirigente superiore della polizia per il contributo dato alle indagini sulle Nuove Brigate Rosse, è in pole position dopo lo scontro con il sindaco di Roma Alemanno sull’emergenza neve. Nel Pdl in molti scommettono che il numero uno della protezione civile sia in corsa per succedere a Manganelli, un sospetto che lo stesso Alemanno ha sollevato nel corso di una recente puntata di “In onda”, quando, rispondendo alle domande di Telese e Porro, ha detto che «anche Gabrielli deve prendere i voti». ...continua a leggere "Rimpasto di polizia"

los-roques-mappaIl prossimo 20 febbraio, a quattro anni dalla tragedia di Los Roques, potrebbero finalmente iniziare, in mare, le ricerche del bimotore della compagnia Transaven scomparso nel nulla il 4 gennaio del 2008, insieme ai suoi 14 passeggeri (otto erano italiani), mentre sorvolava l’arcipelago caraibico per raggiungere Gran Roque. Uno staff italiano, coordinato dall’ammiraglio Giovanni Vitaloni del Dipartimento della Protezione civile, grazie a un accordo tra il governo italiano e quello di Caracas, raggiungerà il Venezuela per imbarcarsi su una nave oceanografica di un’impresa di Lafayette, accreditata presso la Us Navy e altamente specializzata in ricerche sottomarine.
LA VICENDA. Quella mattina del 4 gennaio 2008 il bimotore a elica Let-410 decollò proprio dall’aeroporto Maiquetía di Caracas e sarebbe dovuto atterrare, circa mezz’ora dopo, a Gran Roque, l’isola più grande dell’arcipelago caraibico. Il pilota era un venezuelano di 36 anni, Esteban Lahoud Bessil Acosta. L’ultima comunicazione con la torre di controllo avvenne intorno alle 9.28, quando il volo YV-2081 era a 45 miglia (circa 83 chilometri) dal punto d’arrivo, livellato a una quota di 7.500 piedi (circa 2.290 metri). Ai comandi del velivolo, insieme ad Acosta, c’era il copilota, Osmel Alfredo Avila Otamendi, 37 anni, e 12 passeggeri, di cui 8 italiani: Stefano Fragione, 33 anni, sua moglie, Fabiola Napoli di 34, romani in viaggio di nozze. C’era la famiglia di Ponzano Veneto: Paolo Durante, la moglie Bruna Guernieri e le due figlie, Sofia di 6 anni ed Emma di 8; poi Annalisa Montanari di 42 anni e Rita Calanni, di 46, di Bologna. Con loro anche un turista svizzero, Alexander Niermann, e tre cittadini venezuelani: Karina Ruiz, Yza Rodriguez Fernandez e Patricia Estela Alcala Kirschner. Il mayday venne lanciato alle 9.38, quando il bimotore era a circa 30 chilometri da Los Roques, livellato a 3.000 piedi e già in fase d’atterraggio. Il mare, finora, ha restituito solo il corpo del copilota, Osmel Alfredo Avila Otamende, e nient’altro. Alcuni pescatori lo recuperarono dieci giorni dopo la sciagura, a una decina di miglia al largo delle coste della penisola del Paraguay, in un punto che si trova a oltre 300 chilometri da Caracas. E’ stato identificato attraverso le impronte dentarie e un orologio.
LA TRATTATIVA. La ricostruzione ufficiale, fornita dai venezuelani, dirà che l’aereo aveva entrambi i motori in avaria, forse per un problema con il carburante, e che il comandante, prima di tentare l’ammaraggio, fece appena in tempo ad avvisare la torre. Poi il silenzio assoluto, nessun’altra comunicazione radio. Mezz’ora dopo un altro bimotore, gemello di quello scomparso, sorvolò la zona riportando alla torre di Gran Roque la posizione di una vasta macchia d’olio e carburante in corrispondenza delle coordinate dell’ultimo contatto radio lanciato dal volo YV-2081. Il 5 gennaio, 24 ore dopo la scomparsa del volo Transaven, nessuno sa dire cosa sia accaduto, né le autorità locali né i familiari dei 14 dispersi. C’è solo un’ipotesi, la stessa che tiene banco ancora oggi: l’aereo potrebbe aver ammarato ma a causa dell’impatto con l’acqua, e dei danni causati alle strutture, nessuno degli occupanti sarebbe riuscito ad abbandonare l’aeromobile. A quattro anni dalla tragedia di Los Roques, dopo una lunga ed estenuante trattativa tra il governo italiano e quello venezuelano, si riaccende, perciò, la speranza dei familiari dei passeggeri che le ricerche, tanto attese finora, possano finalmente arrivare a individuare la carlinga dell’aereo, e ciò che rimane dei corpi di chi era a bordo. L’operazione, coordinata dalla statunitense “C&C technologies”, costerà 4,6 milioni di dollari, coperti in parti uguali dal governo italiano e da quello venezuelano. A vigilare sulle operazioni di ricerca ci saranno i membri di una speciale commissione, mista Italia-Venezuela, di cui fa parte anche un consulente dei familiari delle vittime, il comandante Mario Pica, ex ufficiale dell’Aeronautica militare esperto in incidenti aerei. A coordinare le operazioni, oltre l’ammiraglio Vitaloni in rappresentanza del governo italiano, ci sarà anche Ugo Marino, il rappresentante della società “Andi Latinoamericana”, associata della “C&C Tecnology” che nel 2010 tentò di avviare le ricerche, impiegando un’altra nave che però rimase bloccata nel Golfo del Messico a causa dell’uragano Earl.
LE RICERCHE. Dal prossimo 20 febbraio sarà la nave Northern Resolution a scandagliare i fondali per diciotto giorni con un sofisticato sonar. Le ricerche si concentreranno a nord di Los Roques, intorno all’ultima posizione del volo registrata dai radar, in un’area di circa 94 miglia quadrate, dove il mare raggiunge una profondità anche di 1500 metri. Sarà anche la stessa commissione a dare il via libera allo sblocco dei fondi, a garanzia che le ricerche verranno condotte seriamente, e non come avvenne nei giorni successivi alla tragedia quando i venezuelani si dimostrarono inadeguati e poco interessati a fare luce sull’incidente che si era appena consumato nei loro mari. Della vicenda del volo Transaven se n’era occupato direttamente anche il presidente venezuelano, Hugo Chavez, che s’impegnò, incontrando l’allora presidente del Senato Fausto Bertinotti, a fare tutto il possibile affinché riprendessero le ricerche. «L’unità navale Northern Resolution, dopo aver fatto sosta a Trinidad per il rifornimento e il controllo delle apparecchiature, si trasferirà a Los Roques», ha confermato nelle scorse settimane all’Ansa Romolo Guernieri, padre di Bruna e nonno di Emma e Sofia, le due bimbe che, con la madre e il padre, sono scomparse assieme all’aereo. «Le operazioni di ricerca dell’aereo verranno condotte con apparecchiature tecnologicamente avanzate e particolarmente adatte ad operare in questo tipo di fondale. Si tratta di piccoli veicoli subacquei con guida autonoma dotati di apparati per la scoperta di oggetti in fondali anche superiori a mille metri. A compiere le ricerche sarà la società Andi Latinoamerica, che in Venezuela rappresenta la C&C Technology».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 23 febbraio 2012 [pdf]

La-Rettondini-sul-Costa-Concordia-per-il-reality-Professional-Lookmaker-638x425Per la Capitaneria non sarebbe stato possibile, con gli strumenti a disposizione, prevedere il naufragio della Costa Concordia». Ne è convinto il comandante generale del Corpo delle capitanerie, l’ammiraglio Marco Brusco. Per il vertice della Guardia Costiera nulla e nessuno, tranne chi era al timone della Concordia, avrebbe potuto evitare quanto è accaduto la sera del 13 gennaio all’Isola del Giglio. Neanche se la Capitaneria di porto di Livorno avesse interrogato l’Ais, il sistema di geolocalizzazione delle navi, prima delle 22.12, cioè ben mezz’ora dopo la collisione tra la nave Costa e lo scoglio de Le Scole. «L’Ais non è un sistema preventivo - ha spiegato Brusco alla Commissione Lavori pubblici del Senato - ma fa parte di una rete di monitoraggio ben più complessa che è collegata al Vts, ma la zona in cui si è verificato l’incidente, non è area Vts. L’Ais - ha aggiunto l’ammiraglio - è come una videocamera davanti a una banca o in autostrada: si va a verificare dopo quello che è successo, se serve».
I PUNTI DA CHIARIRE. Quindi Livorno, pur avendo la facoltà di seguire in diretta la rotta della Concordia, perché a questo serve l’Ais (lo può fare chiunque anche consultando il sito marinetraffic.com), non era a conoscenza degli “inchini”, né, tantomeno, che quella sera la nave della Costa crociere, ai comandi di Francesco Schettino, era finita sugli scogli del Giglio. Se ne accorgono alle 22.06 quando alla sala operativa della Capitaneria arriva una telefonata dei carabinieri di Prato, contattati dai familiari della signora Concetta Robi che dalla Concordia aveva chiamato sua figlia dicendogli che a bordo c’era qualcosa che non andava. Solo sei minuti dopo Livorno interroga l’Ais e individua la nave. «Non sapevamo assolutamente nulla degli “inchini” - ribadisce Brusco -, ma neanche in altre occasione la Capitaneria è stata avvertita, perché è una manovra che rientra nell’ambito della responsabilità del comandante, che nella sua navigazione, purché rispetti le regole e non condizioni la sicurezza di coloro che stanno a bordo, può fare la sua manovra». Certo, Schettino ha le sue responsabilità, quelle che del resto ha già ammesso rispondendo alle domande dei magistrati della procura di Grosseto, ma, “inchini” a parte, perché la Capitaneria di porto di Livorno abbia perso così tanto tempo, prima di individuare una nave lunga 300 metri che stava affondando con a bordo 4.200 passeggeri, resta un mistero. Che l’Ais serva anche a questo è la stessa azienda che l’ha progettato e venduto alle Capitanerie di Porto, la Elman di Pomezia, ad affermarlo dopo la tragedia: «Se fosse stato utilizzato come si doveva, facendo scattare l’allarme con l’avvicinamento all’isola - hanno dichiarato i suoi tecnici a Repubblica e la Stampa - forse l’incidente della Concordia non sarebbe accaduto». Dalla Capitaneria di Livorno affermano che gli operatori in servizio nella sala operativa eseguono controlli al terminale Ais ogni mezz’ora, e così facendo, per esempio, la notte del 18 gennaio scorso hanno notato un cargo battente bandiera della Tanzania fermo, con i motori in avaria, tra l’isola del Giglio e quella di Montecristo. Quel cargo è stato poi soccorso e trainato fino al porto di Piombino. Perciò, almeno in questo caso, interrogando prontamente l’Ais si è scoperto che una nave era nei guai e si è intervenuti nel giro di pochi minuti. La notte del 13 gennaio, se la regola vale sempre, la sala operativa di Livorno annotò sul brogliaccio che alle 22 in punto il «traffico marittimo era regolare». Così non era, perché da almeno un quarto d’ora la Concordia aveva impattato sugli scogli e cambiato rotta di 180 gradi. ...continua a leggere "I buchi neri della Concordia"