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pietrino vanacore«Quando mai un suicida si getta in acqua con una corda che lo lega per le gambe?». Per l’ex senatore della Lega Erminio Boso, già vicepresidente del Copaco, Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile di via Poma, dove il 7 agosto ’90 fu uccisa con 29 coltellate Simonetta Cesaroni, sarebbe stato aiutato a uccidersi. Ma per gli inquirenti non ci sono dubbi: voleva morire. Il 12 marzo si sarebbe dovuto presentare davanti ai giudici della Corte d’Assise di Roma, dove si sta celebrando il processo all’ex fidanzato della Cesaroni, Raniero Busco. Vanacore, 78 anni, ha deciso di farla finita quattro giorni prima, l’8 marzo, gettandosi in mare, in provincia di Taranto dove da anni era tornato a vivere. Tre giorni dopo il delitto di via Poma diventò il sospettato numero uno dell'inchiesta sulla morte della 21enne ragioniera: fu arrestato con l'accusa di omicidio, ma in realtà gli inquirenti sospettavano che coprisse il vero assassino. Così, dopo un lungo interrogatorio, si aprirono per lui le porte del carcere, dove vi rimase per venti giorni. Pietrino raccontò che all'ora del delitto si trovava in un altro appartamento, a innaffiare fiori, ma nessuno confermò il suo alibi. Poi c’era quella macchia di sangue, sui suoi pantaloni, ma il Dna rimise tutto in discussione e il 16 giugno '93 venne prosciolto, decisione divenuta definitiva due anni dopo in Cassazione. Vent’anni dopo, Vanacore, non ce la faceva più e tutta la sua disperazione l’ha affidata a una serie di bigliettini dove ha scritto: “Vent’anni di sofferenze di sospetti portano al suicidio”. Dall’estate del ’90 il portiere non era più uscito dal tunnel del sospetto, per anni, infatti, il suo nome continuò a circolare insistentemente sui giornali, in tv e tra gli investigatori. Secondo la procura di Taranto, Vanacore, con “lucida follia”, avrebbe meticolosamente premeditato il suo suicidio. È morto per annegamento, come ha stabilito l'autopsia. Il corpo del portiere, ha spiegato l’anatomopatologo, sarebbe rimasto circa tre ore nello specchio di mare antistante il litorale di Torre Ovo. La dinamica, perciò, non lascia alcun dubbio: Vanacore ha legato a un albero una lunga corda, ha annodato l'altra estremità a una caviglia e si è immerso in mare a testa in giù, in un punto in cui l'acqua è alta poche decine di centimetri. Sua moglie, Giuseppa De Luca, - che quel 7 agosto consegnò alla sorella della Cesaroni le chiavi dell’ufficio dove, poco dopo, fu ritrovato il cadavere della ragazza - ha riferito ai carabinieri che suo marito ultimamente era molto amareggiato, soprattutto per la convocazione al processo. «Lo aveva infastidito - ha aggiunto sua moglie - soprattutto il fatto che avessero convocato anche nostro figlio Luca». L’enigmatico portiere se n’è andato portando con sé un bel po’ di misteri e, forse, anche un pezzo di verità su quanto accadde quel giorno in via Poma. Il suo spettro continuerà ad aleggiare nell’aula bunker di Rebibbia dove, venerdì scorso, la pm Ilaria Calò ha comunque sostenuto che il portiere fu il primo ad entrare in quell'appartamento dopo l'omicidio della Cesaroni. «Le chiavi sono uno snodo fondamentale in questa inchiesta - ha detto il pm -, Vanacore entrò per primo negli uffici dell'associazione Ostelli della Gioventù al terzo piano, trovando la porta socchiusa. Individuò il corpo della Cesaroni nella stanza del direttore. Pensando a un incontro clandestino effettuò tre telefonate al presidente degli Ostelli, Francesco Caracciolo, al direttore Corrado Carboni e al capo di Simonetta, Salvatore Volponi. Non allertò la polizia, prese le chiavi con il nastro giallo, che erano quelle di riserva per accedere agli uffici, e se ne andò - ha concluso la Calò - chiudendo l'ingresso».

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 25 marzo 2010 [pdf]

Le “facce da mostro” che giravano in Sicilia negli anni delle stragi di mafia erano due: un discusso agente segreto, con un piede nello Stato e l’altro nelle cosche, e un dipendente regionale vicino all’ex sindaco Ciancimino, che suo figlio Massimo avrebbe già identificato. Entrambi sarebbero morti: il primo nel 2004, il secondo due anni prima. Due ombre, tanti sospetti e solo poche certezze, in quanto soltanto uno di loro, il dipendente regionale, è stato recentemente identificato, attraverso una foto. A dare un nome a quel volto, con quella vistosa cicatrice sulla guancia destra, è stato, per l’appunto, Massimo Ciancimino, il figlio del boss don Vito, quello del “papello” e della trattativa tra Stato e mafia (leggi l’intervista). Due volti sfigurati, inguardabili e indimenticabili, rimasti impressi nella memoria di decine di testimoni e di cui - a distanza di vent’anni da quella stagione di sangue - si sa ancora davvero poco. ...continua a leggere "La doppia pista su “faccia da mostro”"

via poma«Per piacere, vi prego, non ne posso più. Mio marito in questa storia non c’entra nulla perché a quelle due telefonate ho risposto io. La prima arrivò a casa nostra a ora di cena, saranno state massimo le otto e mezza, la seconda intorno alle undici e mezza. Era un uomo, ma non posso dire se era Vanacore, cercava l’avvocato Caracciolo, disse solo: «”Cerchiamo l’avvocato, è urgente, siamo degli Ostelli della Gioventù”». A parlare è Anna, la moglie di Mario Macinati, giardiniere factotum dell’avvocato Francesco Caracciolo, il presidente dell’Associazione degli ostelli per la gioventù. La coppia di anziani vive nella stessa casa dove la sera del 7 agosto ‘90 arrivarono quelle due misteriose telefonate partite dall’ufficio di via Poma degli Ostelli della Gioventù, dove Simonetta Cesaroni era stata appena uccisa. La famiglia Macinati da quelle parti la conoscono tutti: al bar del paese dicono che sono brava gente, che pensano solo a lavorare. Conoscono bene anche l’avvocato Francesco Caracciolo che a Tarano, a una dozzina di chilometri da lì, ha una villa che da qualche anno è stata trasformata in un lussuoso agriturismo. Macinati è un uomo semplice, ha la quinta elementare, ha fatto per quarant’anni il muratore a Roma, sta in piedi a fatica, è poliomielitico. E ha le mani che gli tremano, segnate dalla terra e dal cemento. Quando sente parlare di via Poma si agita a tal punto che suo figlio, Giuseppe, ha paura che alla fine morirà di crepacuore. «Per diciotto anni - aggiunge proprio il figlio - nessuno ci è venuto a dire nulla su questa storia. Quella mattina, quella dell’8 agosto, mio padre corse alla villa dell’avvocato dove faceva il giardiniere nei fine settimana e lo avvertì che la sera prima l’avevano cercato al telefono, per due volte. Succedeva spesso - prosegue il figlio di Mario Macinati - perché Caracciolo non aveva il telefono e dava sempre il numero di casa nostra. Andò così: mia madre rispose, ma quell’uomo disse solo “Siamo degli Ostelli” , come era avvenuto altre decine di volte, tanto che mia madre si incavolava perché chiamavano a tutte le ore senza mai dire un nome. Ho sempre pensato che era stata la polizia a fare quelle due telefonate a casa mia. Questo abbiamo raccontato ai magistrati - continua - Mio padre si sentiva trattato male, me lo lasci dire, come un cane, come se l’avesse ammazzata lui quella povera ragazza. Mia madre e mio padre non hanno coperto nessuno, potevano nascondere il fatto delle due telefonate ma hanno detto subito quello che sapevano. Lasciateli in pace, alla fine - chiosa Giuseppe Macinati - mio padre ci morirà per colpa di questa storia». L’avvocato Caracciolo a Tarano si fa vedere solo nei fine settimana, come racconta anche Alessandra, l’unica presente ieri alla fattoria del professionista che è a un paio di chilometri dal bar, prendendo una stradina sterrata che attraversa pioppeti e uliveti. Si chiama ”Fattorie Caracciolo”; è una villa con piscina, immersa nel verde, dove fino a dieci anni fa Mario Macinati curava il giardino prima che il complesso, a fine anni Novanta, fosse trasformato in agriturismo.

di Fabrizio Colarieti per Il Messaggero del 11 marzo 2010 [pdf]

intercettazioni«Non conosco Gennaro Mokbel. Ho letto il suo nome sui giornali e apprendere che due software per lo spionaggio elettronico, che ho personalmente ideato, tuttora in uso a procure e servizi segreti, impiegati anche per dare la caccia ai brigatisti che hanno ucciso D’Antona e Biagi, sarebbero finiti nelle sue mani mi lascia molto perplesso». Fabio Ghioni, l’hacker più famoso d’Italia, per via delle incursioni informatiche compiute quando era nella security di Telecom Italia, per le quali ha patteggiato una pena di tre anni e sei mesi, non usa mezzi termini commentando la notizia che la “Ikon Srl”, la software house di Garbagnate Milanese da lui stesso fondata nel 2000, dopo essere stata ceduta dopo sette anni alla “Digint Srl”, sarebbe finita, secondo gli inquirenti che indagano sul maxi riciclaggio targato Fastweb e Telecom Italia Sparkle, sotto il controllo del gruppo Mokbel. «È proprio così, non ho problemi a spiegarlo - afferma ancora Ghioni - le applicazioni che ho progettato e che “Ikon” ha venduto esclusivamente a enti governativi,come “IK webmail”, “IK spy”e altre sonde di intercettazione, utilizzabili in teoria solo dall’autorità giudiziaria, servivano a dare la caccia a terroristi e pedofili. Inorridisco pensando che uno come Mokbel, personaggio che conosco solo per aver letto le sue vicende sui quotidiani, che, tra l’altro, lo accreditano vicino a personaggi della banda della Magliana, abbia potuto godere delle funzionalità di questi delicati strumenti investigativi». I due software inventati da Ghioni erano delle versioni molto evolute di “cavalli di Troia” (in gergo trojan e spyware), utilizzati da procure e Servizi per spiare caselle di posta elettronica e pedinare computer in rete. Una decina di software “segugio”, altamente all’avanguardia, invisibili a qualunque tipo di antivirus, concepiti per annidarsi nei sistemi operativi e “sniffare”, in silenzio, dati e informazioni. «Quei software, per fare solo qualche esempio, - aggiunge Ghioni – sono stati utilizzati nelle indagini sulle nuove brigate rosse, sulle cellule islamiche e per combattere la pedopornografia e il traffico in rete di materiali coperti da copyright. Queste tecnologie in mano a persone senza scrupoli, che da quanto ho appreso non mi pare operino per conto delle autorità dello stato, sono armi che possono essere tranquillamente utilizzate per spiare chiunque e questo - chiosa l’hacker dello scandalo Telecom - è decisamente inquietante».

di Fabrizio Colarieti per Il Messaggero del 1 marzo 2010 [pdf]