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antonio di pietroA volte ritornano, anche a distanza di diciassette anni. Dal dossier “Achille” alle foto che ritraggono Antonio Di Pietro a tavola con l’allora numero tre del Sisde, Bruno Contrada, di acqua sotto i ponti ne è passata davvero tanta. Era il ’96, quando il Corriere sparò a nove colonne la notizia dell’esistenza di un dossier del Sisde, per l’appunto il dossier “Achille”, dal nome della gola profonda che lo aveva ispirato, che conteneva un bel po’ di notizie riservate su Di Pietro e sul pool di Mani Pulite. In sei cartelle - anche se l’autore, lo 007 Roberto Napoli, disse che erano molte di più - c’erano i rumors raccolti dagli agenti di via Lanza sul conto di Di Pietro nel corso di un’indagine compiuta non si sa ancora per conto di chi. Il Viminale, imbarazzato e travolto dalle polemiche, spiegò che non si trattava di indagini sull’allora pm, ma di una “copiosa documentazione” in cui erano stati rinvenuti “solo alcuni atti con incidentali riferimenti al nominativo del dottor Di Pietro”. Un dossier che era parte di un fascicolo, composto da almeno un centinaio di cartelle, che tecnicamente fu definito “galleggiante”. Quattro anni prima l’uscita di quelle maleodoranti veline, per l’esattezza il 15 dicembre 1992, l’attuale leader dell’Idv partecipò - lo racconta ancora il Corriere in un ampio servizio del 2 febbraio scorso - all’ormai famigerata cena, di cui ci sono le foto, insieme a Contrada e ad altri ufficiali dei Servizi e dell’Arma. Erano tutti più giovani: Di Pietro non c’azzeccava ancora nulla con la politica e Contrada era, anche se ancora per poco, il numero tre del servizio segreto civile (lo stesso che raccoglieva rumors sul pool). Ancora per poco, perché nove giorni dopo il funzionario palermitano finì in manette con la pesante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti (nel 2007 è stato definitivamente condannato a 10 anni). “Non sapevo neanche che esistessero le foto”, commenterà Di Pietro: “Ero in una mensa dei carabinieri non in un ristorante o in un night”. E poi ancora: “Sono orgoglioso che il 16 dicembre del 1992 o del 1993, non ricordo, a ridosso di Natale sono stato invitato dai carabinieri alla presenza di ufficiali e sottoufficiali e anche di alti esponenti delle istituzioni, quali anche il questore Contrada, a una cena natalizia. Io a differenza di chi va a cena con le veline di turno - dice ancora l’ex pm - sono andato a cena con i carabinieri che lavoravano con me a Mani Pulite. Se poi qualcuno, nella fattispecie Contrada, ha commesso reati per i quali successivamente è stato arrestato, è lui che ha sporcato quella cena, non certo io”. A quella cena c’era seduto anche un agente americano che poi ha fatto carriera, l’italiano Rocco Mario Mediati, che dalla multinazionale statunitense della sicurezza “Kroll”, dove lavorava all’epoca di quello scatto, è finito al “Secret Service” di via Veneto, dove lavora oggi. “Chi lo conosce?”, dice Di Pietro: “Mai avuto a che fare né con l'agenzia Kroll, né con la Cia, sia chiaro”. Vivaddio. Chi ha tirato fuori, diciassette anni dopo, le foto di quella cena? L’avvocato Mario Di Domenico, che ha scritto a quattro mani con Di Pietro lo statuto dell’Idv e dopo aver rotto con lui ha riempito un libro anche con quelle immagini, dice di averle avute da una persona che quella sera era a quel tavolo. Una barbafinta? Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 18 febbraio 2010 [pdf]

dia_agente_antimafiaGli analisti della Direzione investigativa antimafia le chiamano allogene. Sono le organizzazioni criminali straniere che operano sul nostro territorio, a volte a stretto contatto con quelle autoctone (mafia, camorra e ‘ndrangheta) altre in assoluta autonomia. Sono ramificate, fluide e in continua evoluzione e in alcuni casi hanno una struttura mafiogena, cioè di tipo verticistico, che assomiglia tanto alle mafie made in italy. Sono particolarmente specializzate in traffici illeciti, dalla droga al tabacco, passando per le armi, l’importazione di merci contraffatte, la tratta degli esseri umani e il riciclaggio di danaro sporco. Un fenomeno, quello delle infiltrazioni delle mafie straniere, che secondo la Dia non va perso di vista, anche se al momento non appare invasivo come quello nostrano. In cima alla classifica, dicono gli analisti dell’Antimafia, ci sono certamente gli albanesi, seguiti da cinesi, romeni, nigeriani, sudamericani, magrebini, russi, bulgari e progressivamente anche i serbi.
La mafia albanese e kosovara è strutturata in modo assai simile alle organizzazioni criminali autoctone e con esse ha storicamente contatti ben consolidati. La mafia albanese, come quella cinese e nigeriana, può essere definita stanziale, cioè che delinque stabilmente nel nostro Paese. Gli albanesi sono leader nel mercato degli stupefacenti: un’attività che hanno ereditato dai cugini kosovari, in particolare nel traffico di eroina dove si sono imposti sul mercato come intermediari tra la mafia turca e l’occidente, ma anche per la cocaina. In principio erano i migliori sul mercato per la marijuana, essendone stati per anni grandi coltivatori, poi si sono evoluti e si sono inseriti nel segmento del trasporto delle altre droghe. La mafia italiana ha sfruttato gli albanesi, come trasportatori, loro si sono fatti valere e hanno acquisito nel tempo contatti diretti con i produttori. Oltre i grandi gruppi, quelli che trafficano essenzialmente in droga, ci sono una miriade di satelliti, più piccoli, familiari, dediti allo sfruttamento della prostituzione e alla commissione di reati contro il patrimonio.
Poi ci sono i cinesi. Loro danno meno problemi dal punto di vista dell’ordine pubblico, perché commettono reati che, almeno per ora, non creano allarme sociale ma il loro silenzio non va sottovalutato. Tuttavia il problema più grosso - dicono dalla Dia analizzando ciò che succede ogni giorno - è costituito dalla principale attività che li tiene impegnati nelle Chinatown italiane (Firenze, Milano, Roma e Napoli): l’importazione di merce contraffatta. Gli analisti parlano di un vero e proprio “inquinamento del mercato regolare”. Un mercato tossico, che ha ormai affondato le sue radici nell'economia italiana diventando molto appetibile anche per la criminalità autoctona. La criminalità cinese, per la Direzione investigativa antimafia, ha ormai contatti e collaborazioni, comprovate e consolidate, con la camorra con cui condivide, grazie alla sua indubbia abilità, il business della contraffazione dei marchi. L’attività di sfruttamento dei connazionali, secondo le agenzie di intelligence, sembra essere finalizzata anche alla costituzione di strutture parabancarie: vere e proprie “banche clandestine” utilizzate dalla criminalità cinese per il trasferimento di fondi. Alla Dia, tuttavia, non amano parlare della secolare e temibile mafia gialla, le Triadi, la Tian Di Hui (società del cielo e della terra). Però collegamenti, anch’essi comprovati da indagini giudiziarie, parlano comunque di un’affermazione molto forte della criminalità cinese in Europa. Un’affermazione che ha i connotati di un’organizzazione transnazionale che si muove e delinque allo stesso modo dovunque si insedi.
Cho-hai, tradotto dal cinese vuol dire pescecane o anche succhiasangue. Sono loro i boss delle famigerate Triadi, la mafia cinese. Sono di poche parole, tanto che gli investigatori hanno scoperto che usano minacciare i conterranei recapitandogli mazzi secchi di gladioli rossi. Quando le buone maniere non bastano, poi, passano ai colpi di machete, raramente al piombo. C’è un responsabile per ogni territorio, ma non si sa con quale legame verso l’alto. Un’organizzazione verticistica, poco rumorosa, stanziale e ben radicata in Italia, che alimenta con i propri introiti un notevole flusso finanziario. Sono specializzati in estorsioni, sfruttamento della prostituzione, traffico di armi e di droga e, in particolare, nella contraffazione dei marchi. Nel novembre scorso, a Torino, la Mobile ha disarticolato una potente cosca "gialla", ramificata in tutta Italia, che faceva capo al 36enne RuiChun Zheng, il grande fratello, così come lo avevano ribattezzato in segno di rispetto i suoi connazionali. L’indagine era partita dall’uccisione del 22enne Hu Lubin, uno spacciatore di chetamina, ucciso a febbraio a Milano, a colpi ti machete, per uno sgarro. Dalle intercettazioni - un rompicapo per via del dialetto dello Zhejiang - si è arrivati al grande fratello, che aveva appena preso il posto di Hu Lubin. Più in generale, di loro, si dice che sono quasi immortali e sempre in buona salute. Zu-pin, vuol dire funerale. Dove? Quando? Non si sa. La loro vita è un mistero fin dalla nascita. Quando muoiono, poi, non esiste un registro né risultano cinesi sepolti in Italia. Vengono a lavorare da giovanissimi, tra i 15 e i 20 anni, e quando arrivano da clandestini sono wu-min, senza nome. È un ciclo continuo: i documenti dei morti finiscono ai vivi, riciclati per generazioni. Un passaporto di un cinese morto vale 15mila euro e lavorano giorno e notte per pagarsi il viaggio e per ottenerlo. Saldato il debito, diventano imprenditori, sfruttano se stessi, creano società schermo, le cosiddette scatole cinesi, e un’infinità di strutture parabancarie per esportare grandi capitali. Da dove arrivano tanti danari, è un altro mistero. Dietro quelle mazzette di eulo ci sarebbe la Repubblica Popolare Cinese, lo Stato, fortemente interessato a fare “cubatura” nel vecchio continente, ma anche la temibile mafia gialla. Le loro comunità sono omertose: un silenzio facilitato da una sessantina di impenetrabili dialetti.
Le stesse caratteristiche della criminalità cinese, provate da altrettante indagini, sono state individuate dalla Dia e dai Servizi analizzando un’altra organizzazione criminale, quella nigeriana. Una holding transnazionale del crimine presente in Italia e specializzata, così come quella albanese e magrebina, nel traffico degli stupefacenti. Anche le organizzazioni criminali africane hanno dimostrato grandi capacità nel crimine economico, in particolare quelle algerine, sia sul piano dell’attività di produzione e commercializzazione di generi contraffatti, con possibili saldature con le organizzazioni asiatiche, sia per quanto riguarda il riciclaggio del danaro, nel caso dei nigeriani, attraverso l’acquisizione di strutture commerciali e di money transfer. Anche i sudamericani contrabbandano droga sul suolo italiano, in ottimi affari con la mafia siciliana, in particolare per il mercato della cocaina, e ora anche con la ‘ndrangheta calabrese. Sulla mafia russa mancano attuali evidenze giudiziarie. Per gli analisti dell’Antimafia, in questo caso, il discorso va comunque allargato alle organizzazioni criminali dei paesi dell’ex blocco sovietico, come la criminalità romena e quella bulgara, dedite alla tratta degli esseri umani e allo sfruttamento della prostituzione, e in particolare quella ucraina, specializzata nel contrabbando di grandi quantitativi di sigarette.
La criminalità russa, è una mafia di transito, o meglio ancora d’affari, perché particolarmente dedita, su scala mondiale, al riciclaggio e al traffico di armi. Le poche evidenze giudiziarie parlano, infatti, di enormi flussi di danaro da riciclare all’estero, attraverso massicce acquisizioni immobiliari anche in Italia. Inquietante e drammatico, il tema della tratta degli esseri umani a cui, alcuni mesi fa, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica dedicò uno studio sottolineando implicazioni e rischi per la sicurezza nazionale. L'organizzazione mondiale del lavoro stima che nel mondo ci siano oltre 12 milioni di persone sottoposte a sfruttamento sessuale e lavorativo. Questo fenomeno è diventato il secondo business illecito globale, dopo il narcotraffico, che vede in prima linea sia organizzazioni mafiose - presenti stabilmente anche sul territorio italiano (albanesi, cinesi, romeni e bulgari) - che holding terroristiche. 

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 11 febbraio 2010 [pdf]

Riemerge dagli annali ingialliti, grazie alle parole di un "infame" della banda della Magliana, una storia che in Sabina in molti ricorderanno e che, altri ancora, preferirebbero saperla definitivamente archiviata. Sono gli 8 miliardi del vecchio conio, a dirla con le parole di Bonolis, concessi nei primi anni '90, attraverso un fido, dalla Cassa di risparmio di Rieti al boss della banda della Magliana Enrico Nicoletti. Una storia chiacchierata e risaputa: roba da archeologia giudiziaria. Una muffa finita anche nelle pagine di alcune relazione della Commissione parlamentare antimafia. Carte ingiallite sì, ma ancora oggi rintracciabili su Internet, come quelle scritte nel corso di un decennio di indagini patrimoniali condotte dalla Dia e dalla Finanza. Così la banca reatina si è ritrovata accusata, anche in ambito parlamentare, di compiere strane attività finanziarie e movimenti in "odor di mafia" che andavano dal riciclaggio di danaro sporco all'erogazione non motivata di fidi a persone "sospette di far parte di organizzazione criminali". Nicoletti, si saprà poi, era una di queste: un "cliente", certamente non uno qualunque, a cui la Cassa di risparmio concesse tramite l'agenzia numero uno - quella che si trova tuttora a piazza Montecitorio a Roma - un fido di 8 miliardi, che nel '90 non erano bruscolini. Glielo concesse trattandolo con i guanti bianchi, nonostante il boss fosse stato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e sottoposto a misure di prevenzione. Difficile scambiare il cassiere di una banda di criminali per un affidabile imprenditore, ma così andò, probabilmente alla direzione della banca non leggevano i giornali. Oggi questa storia è tornata a rivivere sulle colonne di Repubblica (edizione del 14 febbraio scorso), vent'anni dopo, con un'inchiesta dal titolo "Finanza sporca e omicidi, torna la banda della Magliana" a firma di Carlo Bonini che ripercorre la carriera di Nicoletti, della sua banda e delle sue misteriose fortune, tornando anche sul quel fido concesso senza batter ciglio. Le novità arrivano dalle parole di un pentito, Antonio Mancini, un altro della batteria criminale, uno di quelli "seri" che terrorizzò la Capitale per un ventennio. "Nino l'accattone", così è soprannominato Mancini, agli occhi di chi non lo conosce potrebbe sembrare uno uscito direttamente dalle pagine di "Romanzo criminale" - come "il Freddo" o "Libano" - invece è uno in carne e ossa, ed è anche l'unico che parla. Parla, l'''infame'', del sequestro di Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno '83, e parla anche di un fiume di danari sporchi (1 miliardo di euro solo quelli riconducibili a Nicoletti). Una storia, che riannodando i fili, arriva ai giorni nostri e finisce dritta dritta agli affari, più recenti, del "furbetto" Danilo Coppola.

di Fabrizio Colarieti per Il Messaggero [articolo originale]

134357228-7d8ac181-bffe-41ea-81a6-add3e0ab1030Vent’anni. Come tanti gialli italiani il delitto di via Poma c’ha tutto questo tempo ad approdare in un’aula di tribunale. Tanti ne sono trascorsi dalla morte della giovane Simonetta Cesaroni, uccisa a coltellate il 7 agosto del ’90. Sul banco degli imputati siederà un solo presunto assassino: Raniero Busco, l’ex fidanzato della ragazza, oggi 45enne. L’unico, per esclusione, a dover rispondere di omicidio volontario secondo le indagini condotte della procura di Roma. Il dibattimento - atteso dalla famiglia Cesaroni e dagli esiti per nulla scontati secondo la difesa di Busco - comincerà il prossimo 3 febbraio nell’aula bunker di Rebibbia davanti alla terza Corte d’Assise di Roma.
Questa storia vale la pena raccontarla tutta, vent’anni dopo, da quel martedì 7 agosto 1990. Roma è schiacciata dall'afa, la colonnina di mercurio è inchiodata sulla tacca dei trenta gradi e il meteo dice che in serata potrebbe esserci qualche scroscio d’acqua. Fa caldo al civico due di via Carlo Poma, un palazzone a tre cortili, stile fascista, nel quartiere Prati. Simonetta Cesaroni, 21 anni ancora da compiere, sta lavorando nell’ufficio dell’Associazione italiana alberghi della gioventù. In quello stabile a Prati ci va ogni tanto, solo di pomeriggio, per conto della Reli Sas per cui lavora come segretaria contabile. È una ragioniera, un lavoretto senza troppe pretese che gli permette di sognare una vita indipendente. Fa talmente caldo tra quelle quattro mura che la ragazza se ne sta seduta davanti al computer senza indossare né scarpe né calzini. A rendere meno pesante l’aria c’è solo un ventilatore che gli gonfia i capelli e fa volare qua e là le carte sulla scrivania. In quell’ufficio non c’è mai nessuno di pomeriggio, come per le strade di Roma, deserte dopo l’ubriacatura dei mondiali di calcio, archiviati e persi da appena un mese. Sono andati tutti in ferie, tranne lei.
È davvero una bella ragazza, Simonetta. Acqua e sapone, senza troppi grilli per la testa, di sani principi, cresciuta nel quartiere Don Bosco in una famiglia modesta: il papà è un autista dell’Acotral, la mamma fa la casalinga. Da qualche tempo ha una relazione altalenante, non idilliaca, con Raniero Busco, un 25enne operaio romano che lavora all'Alitalia.
Quell’ufficio, dove Simonetta sta trascorrendo il pomeriggio, si trasforma nella scena di un crimine tra le 17.30 e le 18.30 di quel 7 agosto. Nessuno sente nulla. La 21enne, dopo essere stata stordita da un colpo in testa, viene uccisa con ventinove coltellate. Una ferocia crudele e inaudita. Il cadavere è sul pavimento, vicino l’ultima stanza in fondo al corridoio, quasi completamente nudo, indossa solo una canottiera arrotolata verso l’alto e il reggiseno. Il coroner dirà che chi l'ha ammazzata, tuttavia, non ha abusato di lei. A ucciderla è stato quel colpo sull'arcata sopracciliare, poi la furia: le ventinove coltellate inferte dovunque. Vibrate con un tagliacarte sul petto, sulla giugulare, sul cuore, sul fegato, sulle orbite degli occhi e per ben quattordici volte sul pube. Il reggiseno copre solo in parte i seni, una delle coppe fa vedere un capezzolo, quello sinistro, che intorno ha una lesione a forma di "V", che sembra tanto un morso.
Gli inquirenti dicono che Simonetta si è alzata, forse proprio per aprire la porta al suo carnefice. Eppure in quell’ufficio pare tutto in ordine: le scarpe sono una accanto all’altra vicino alla scrivania ma mancano i vestiti che la ragazza indossava (un paio di fuseaux bianchi e una camicetta) e le chiavi dell'appartamento, utilizzate dall'assassino per richiudere a diverse mandate la porta. Il colpevole ha ripulito tutto, molto accuratamente. È un delitto perfetto.
Passano diverse ore prima che qualcuno si accorga che la ragazza acqua e sapone è stata uccisa. Intorno alle 20.30 Paola, la sorella maggiore di Simonetta, comincia a preoccuparsi perché sua sorella di solito è a casa per le 20. Con il fidanzato, Antonello Baroni, ripercorre inutilmente la strada fino alla fermata della metro Subaugusta dove avevano accompagnato Simonetta. Poi chiama Salvatore Volponi, il datore di lavoro della sorella, che però non conosce l'indirizzo di quell'ufficio. Sarà proprio Paola a trovarlo sull'elenco telefonico. A questo punto vanno in via Poma e costringono Giuseppa De Luca, la moglie del portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, ad aprire la porta dell’ufficio. Sono le 23,30 quando trovano il corpo di Simonetta in una pozza di sangue.
Ha un aspetto sinistro quel palazzone di via Carlo Poma, tra l’altro non nuovo a fatti di sangue. Sei anni prima del caso Cesaroni, era l’84, un’anziana aristocratica, Renata Moscatelli, fu uccisa proprio lì dentro. Qualcuno la soffocò sul letto, con un cuscino, e nessuno ha mai scoperto chi fu a ucciderla. Più di recente, il 14 novembre 2009, sempre lì, un noto avvocato, Massimo Buffoni, si è sparato in testa nel suo studio. Poi c’è il solito zampino dei Servizi, che più volte faranno capolino in questa storia. Prima per i presunti rapporti tra l’Associazione ostelli e alcuni funzionari del servizio segreto civile, poi per la probabile presenza in quello stesso palazzo di una sede coperta del Sisde. I portieri dei grandi condomini, si sa, ne sanno una più del diavolo e Pietrino Vanacore, il portiere di quel misterioso condominio, quei giorni se li ricorderà per tutta la vita. Il 10 agosto scattano le manette ai suoi polsi perché sarebbe coinvolto nel delitto. Ma a uccidere Simonetta, secondo la procura, non è stato il portiere bensì Federico Valle, il nipote dell'architetto Cesare Valle, che abita in quel palazzo. Valle è coinvolto anche dalle dichiarazioni dell'austriaco Roland Voller, un tipo strano, dicono legato ai Servizi, implicato anche in un altro misterioso delitto, quello della contessa Alberica Filo della Torre, avvenuto nel ‘91 all'Olgiata. L’accusa, per Valle e Vanacore, però non regge (verranno prosciolti definitivamente nel 1995). Poi c’è un altro sospettato, è Salvatore Volponi, il datore di lavoro della ragazza, ma anche lui esce di scena qualche mese dopo. Tutto deve ricominciare dall'inizio e di anni, prima che il delitto di via Poma torni in prima pagina, ne passano dodici.
A febbraio 2005, la procura tira le somme e dispone il test del Dna per 31 sospettati, tra loro c'è anche l’ex fidanzato di Simonetta, Raniero. Le indagini, dopo essere ripartite daccapo, arrivano a una svolta diciassette anni dopo il delitto: la comparazione del Dna estratto dalla traccia di saliva repertata sul reggiseno di Simonetta è compatibile solo con il codice genetico del suo ex fidanzato che si ritrova indagato. C’è traccia del suo Dna anche in una macchia di sangue, misto a quello di Simonetta, e su Busco pesa anche un alibi che non tiene: sotto interrogatorio disse che quel pomeriggio l'aveva passato con un amico, ma questi negò. A dicembre 2008 viene prelevata anche l’impronta della sua arcata dentaria per confrontarla col segno a forma di "V" fotografato sul capezzolo sinistro della vittima. La struttura dentaria di Busco, secondo i periti, è compatibile con quella ferita. È maggio 2009 e il pm Ilaria Calò ha in mano tre indizi: Raniero Busco deve essere rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio volontario (richiesta accolta dal gup il 9 novembre 2009). Ma la verità è ancora tutta da scrivere.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 4 febbraio 2010 [pdf]