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ADAMO BOVE«Un pensiero e una preghiera per colui che da un anno non è più con noi! Un sms perché non si dimentichi. Fatelo girare grazie». È un sms a ricordare ai dipendenti della sede romana della Telecom di via di Torre Rossa che è trascorso un anno da quando il loro collega, Adamo Bove, è precipitato da un viadotto della tangenziale di Napoli. Un sms inviato da un ignoto e firmato Sec Ti, Security Telecom Italia, che ha fatto il giro dei cellulari aziendali e che ha riportato la memoria a quel venerdì 21 luglio di un anno fa quando il corpo del manager della Security Governance fu rinvenuto in fondo a un cavalcavia al Vomero. Un volo di una trentina di metri, poi lo schianto, il silenzio, che lasciano tanti, troppi dubbi sulla sua morte. Quarantadue anni, laureato in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, commissario capo della polizia fino al 1998, con un passato alla Dia ricco di successi per la cattura di pericolosi latitanti del calibro di Francesco “Sandokan” Schiavone e Mario Fabbrocino. Adamo Bove quel 21 luglio, dopo aver posteggiato a lato della rampa di via Cilea la Mini di sua moglie, Wanda Acampa, oncologa al policlinico di Napoli, si sarebbe gettato nel vuoto schiantandosi su una carreggiata della tangenziale. Era solo, lo afferma un testimone, un motociclista che si trovava alla barriera della tangenziale e che ha assistito alla terribile sequenza. Un uomo che si sporge e un attimo dopo precipita. L’esperto in sicurezza aziendale lascia l’auto accesa con le quattro frecce che lampeggiano, all’interno nessuna lettera d’addio, il suo cellulare registra una sola telefonata in entrata fatta da un collega circa dieci minuti prima dello schianto. Sembra la cronaca di una decisione presa a freddo, di un suicidio premeditato da chissà quanto tempo. Non è così. La storia non è questa. Adamo Bove non aveva alcun motivo per togliersi la vita. A non crederci è lo stesso magistrato chiamato a occuparsi del caso, il pm Giancarlo Novelli della procura di Napoli, che apre un fascicolo a carico di ignoti con l’ipotesi di istigazione al suicidio. Non ci crede nessuno anche tra i familiari: la moglie, i genitori, il fratello gemello Guglielmo che in Telecom dirige l’ufficio legale. Un anno dopo la loro rabbia si sfoga sulle pagine di Repubblica, in un annuncio a pagamento: «Sappiamo che prima di morire Adamo ha conosciuto suo malgrado la vergogna. La peggiore cui può essere condannato un essere umano. Quella che subisce chi non ha commesso peccato. Adamo ha conosciuto la vergogna per il vociare infamante che lo ha circondato». Per raccontare la storia di quest’uomo è necessario fare un passo indietro e sottolineare alcune stranezze, almeno tre, che legano con un filo rosso gli ultimi mesi di vita del manager ad altrettante vicende che sono al centro dell’attenzione nazionale. È certo, infatti, che Bove si sia occupato, collaborando attivamente con gli inquirenti, di scovare i cellulari utilizzati dagli agenti della Cia (26 quelli identificati) e dai colleghi italiani del Sismi per portare a termine il sequestro dell’imam egiziano Abu Omar, compiuto il 17 dicembre 2003 a Milano. A dirlo sono gli stessi magistrati milanesi che indagano sul sequestro insieme alla Digos: Bove diede un contributo fondamentale indicando quali fossero i cellulari da intercettare in condizioni di estrema segretezza, trattandosi di utenze in uso ad agenti segreti. Almeno quattro di queste utenze, si saprà poi, hanno certamente a che fare con il sequestro: tre sim risulteranno in uso al Sismi e una al gruppo Pirelli/Telecom, a Tiziano Casali, il capo della sicurezza personale dell’allora presidente, Marco Tronchetti Provera. L’indagine, oltre a travolgere i vertici del servizio segreto militare con l’arresto del numero due, Marco Mancini, mina Telecom, i suoi vertici aziendali e la già assai discussa Security. Bove si ritrova in trincea, turbato, stretto in una morsa: da un lato sta aiutando la magistratura a far luce su una vicenda complicata con pesanti implicazioni internazionali, dall’altro sa che non si può fidare di nessuno dentro la sua azienda, essendo evidenti i legami di alcuni suoi colleghi, il capo della sicurezza Giuliano Tavaroli per primo, con il Sismi. Ma Bove ha fatto il suo dovere almeno in altre due occasioni: aiuta la polizia anche nelle indagini legate al cosiddetto Laziogate, l’inchiesta scattata dopo la scoperta di un caso di spionaggio ai danni dei candidati alla presidenza della Regione Lazio, Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini, nel tentativo di favorire Francesco Storace. Abu Omar, Laziogate, l’attività illecita di dossieraggio avviata dalla Security Telecom/Pirelli: il quadro è quasi completo. Bove intuisce, per primo, che il marcio è proprio dentro Telecom, ma è troppo tardi. Il Garante della privacy contesta alla compagnia l’esistenza di un sistema informatico fuori dagli standard, in grado di spiare i tabulati telefonici di utenze fisse e mobili senza lasciare traccia. Il sistema si chiama Radar, è a Padova: è la “porta senza firewall” lasciata appositamente aperta e da cui è uscito di tutto. Radar, secondo gli inquirenti, è l’applicativo, interrogabile dalla intranet fin dal 1999, di cui si sarebbe servito per anni anche il Sismi, grazie all’amicizia di Tavaroli con Mancini, per spiare migliaia di cittadini, imprenditori, politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo. La Telecom corre ai ripari: denuncia l’esistenza di un’immensa falla nei suoi sistemi e Bove contribuisce a segnalare ogni abuso, è il suo lavoro. Tavaroli - che finirà in manette con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di pubblici ufficiali per l’acquisizione di informazioni coperte dalla privacy - esce di scena. Bove, verosimilmente, finisce nel mirino dell’Internal Auditing: il servizio ispettivo della compagnia telefonica getta ombre sulla sua figura, perché dal suo ufficio è possibile «operare con modalità anomale e non certificabili» sui sistemi informatici, su Radar. L’Audit che incastra Bove porta la firma del super esperto in sicurezza informatica Fabio Ghioni (che finirà poi in manette per l’attacco ai computer dell’ex Ad di Rcs, Vittorio Colao, e del giornalista Mucchetti). Siamo al paradosso, alla beffa: Bove passa da Telecom a Tim nel 2002, quando Radar è operativo già da tre anni e, quattro anni dopo, nel 2006, l’azienda gli sta contestando di aver coperto il suo illecito utilizzo. È il 10 giugno 2006, Bove è assediato, nervoso, amareggiato, si sente tradito, scomodo. Il Sole 24 ore anticipa i contenuti dell’inchiesta dell’Internal Auditing, fa il suo nome, il manager appare turbato ai suoi familiari. Prova vergogna, ma senza aver commesso peccato. Si accorge di essere pedinato. A Roma, vicino la sua abitazione in via Federico Cesi, mentre sta rientrando con la moglie nota un furgone bianco. Si ricorda che è lì da giorni, è aperto, fruga all’interno e scopre che è intestato a un autonoleggio. Stranezze. Anche a Napoli, racconta a suo padre, qualcuno lo segue con modalità anomale, quasi volesse farsi notare. Il 15 luglio, sei giorni prima della sua morte, Bove blocca in strada un misterioso personaggio che risponde con un what? alla domanda “Chi sei? Che vuoi?”. Ma c’è una certezza: Bove, contrariamente a quanto verrà diffuso, non è indagato da alcuna procura. Quel 21 luglio si congeda dalla moglie con un sereno «ci vediamo dopo», sono le 11.30 e la coppia è a Parco Margherita, dove ha acquistato casa e dove vuole trasferirsi. Bove, stranamente, per raggiungere la vecchia abitazione, in via Luigia Sanfelice al Vomero, cioè a circa cinque chilometri da Parco Margherita, sceglie il percorso più lungo: prende la tangenziale a Fuorigrotta e attraversa Napoli, poi esce a via Cilea. Qualcuno lo pedina? Alle 12.40, il cacciatore di latitanti, l’uomo che fino al quel momento sa di aver fatto fino in fondo il suo dovere, è giunto all’appuntamento con la morte. Per mania di persecuzione o per mano assassina?
Guglielmo Bove, il fratello di Adamo. «Non ci arrendiamo, vogliamo la verità e continueremo a seguire le indagini con la massima fiducia». Parla a left a nome di tutta la famiglia, Guglielmo. «Non abbiamo una spiegazione, Adamo aveva un terrore pazzesco del vuoto, soffriva di vertigini, una condizione incompatibile con la ricostruzione della sua morte. Era assediato da vivo e lo è ancora adesso, basta digitare il suo nome su Google per rendersi conto che tutti i personaggi coinvolti nello scandalo intercettazioni continuano ad accusare esclusivamente lui. Adottano tutti la stessa linea difensiva: nessuno accusa nessuno, né verso l’alto né verso il basso, perché il capro espiatorio è stato già individuato. Abbiamo massima fiducia nei magistrati che stanno indagando sulla morte di Adamo, a Napoli e a Milano, siamo consapevoli che è assai difficile provare l’istigazione al suicidio, tuttavia molto lavoro è stato fatto e ce n’è ancora altrettanto da fare».
Cristina Sivieri Tagliabue, giornalista, ex collega di Adamo Bove, per cinque anni responsabile editoriale Telecom. Il giorno della sua morte gli ha scritto una poesia sul blog criativity.com. Adamo l’aveva conosciuto in Tim: «Ci siamo divertiti – racconta la giornalista a left- sì, la parola giusta è divertiti. Era ironico. Una persona squisita, piacevole al contrario di altri dirigenti Tim. Con lui si parlava bene, al di fuori dei ruoli». Cristina lascia la Telecom nel 2005 ma continua a sentirsi con Bove: «Fino a quando sono iniziati a uscire i primi articoli sulla questione delle intercettazioni, da quel momento era diventato impossibile parlarci, avevamo entrambi paura di essere intercettati. Lo sentivo turbato, cambiato, temeva di dirmi cose troppo riservate. Sono tornata in Telecom il mese scorso, ho chiesto agli ex colleghi cosa pensassero di tutta questa vicenda. C’è molto scetticismo sull’ipotesi del suicidio, l’aria che si respira è pesante, uno strano silenzio».

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 3 agosto 2007 [pdf]

Luciano PetriniQuando le umane debolezze diventano un alibi per non indagare a fondo, accade che un caso rimanga irrisolto. Diventa un mistero. Uno dei tanti gialli che ci hanno appassionato e indignato per un periodo che, poi, abbiamo messo da parte. Questa è la storia di un uomo “perbene”, di uno stimato tecnico informatico di 37 anni trovato il 9 maggio 1996 nella sua casa-ufficio con il cranio fracassato dai colpi di un portasciugamani in ferro. È la storia di un delitto irrisolto. Siamo a Roma, al quarto piano del civico 30 di via Giorgio Pallavicino, zona Villa Bonelli, al Portuense. L’uomo è Luciano Petrini, ingegnere elettronico, responsabile tecnico di una software house romana, la Microimage. Petrini è scapolo, riservato, estremamente elegante. Non è un tecnico qualunque. È bravo. Conosce i segreti dei computer. Progetta sofisticati software, in passato ha lavorato anche per il Dipartimento di informatica e sistemistica dell’Università La Sapienza, ed è consulente tecnico di numerose procure. Prima di raccontare le ultime ore di vita di Petrini, però, è necessario fare un passo indietro: all’8 gennaio dello stesso anno. L’ingegnere è a Caltanissetta a deporre in un processo molto importante, in qualità di consulente tecnico incaricato di compiere una perizia, è dinanzi alla Corte d’Assise: si tratta del processo di primo grado ai presunti mandanti ed esecutori della strage di Capaci. A Petrini nel luglio 1992, a poche settimane da quei tragici fatti, la procura nissena ha affidato un importante e delicato incarico: scoprire se i computer del giudice Giovanni Falcone sono stati manomessi e decifrare il contenuto delle memorie. Il tecnico romano, insieme a Gioacchino Genchi, un funzionario di polizia anche lui consulente informatico, tra i massimi esperti italiani in analisi dei traffici telefonici, porta a termine il suo lavoro in poco meno di sei mesi: i risultati fanno tremare i polsi. Tre anni dopo, quando comincia a parlare ai giudici, Petrini, è ascoltato da boss del calibro di Totò Riina e Giovanni Brusca, l’uomo che ha premuto il pulsante del congegno telecomandato che ha squarciato l’autostrada al passaggio delle auto blindate con a bordo Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta. Petrini e Genchi hanno analizzato duecento milioni di byte di dati, trentamila pagine di documenti, tre computer (un personal da tavolo e due notebook), due databank, una trentina di floppy disk e consegnato ai giudici una consulenza le cui conclusioni stanno in 47 volumi. I due esperti evidenziano numerosi “interventi” eseguiti certamente in epoca successiva alla strage: file personali editati da Falcone, come “orlando.bak”, aperti e salvati – ma non alterati nei contenuti - sette giorni dopo la strage di Capaci e in almeno altre tre occasioni, l’1, il 19 e il 26 giugno. Petrini quell’8 gennaio 1996, mentre siede davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta, non sa che a molti chilometri di distanza, a Roma, qualcuno sta per aprire la porta di casa sua, senza forzare la serratura, e gli sta portando via un computer portatile, duecento cd di musica classica, la sua grande passione, una coppia di gemelli in oro e un sofisticato impianto hi-fi. Stranezze. Coincidenze. Non lo saprà fino al momento in cui infilerà lui stesso la chiave nella toppa rientrando a casa dalla missione in Sicilia. Esattamente quattro mesi dopo, il 9 maggio, un suo amico, il quarantenne Maurizio Scibona, farà lo stesso trovandosi di fronte a una scena straziante che non dimenticherà facilmente. Luciano Petrini è a terra, nella sua camera da letto dipinta di rosa pastello, indossa una canottiera e un paio di boxer. È ai piedi del letto, in una pozza di sangue, avvolto in un lenzuolo, con le gambe poggiate sul materasso, e la testa coperta da un mucchio di indumenti inzuppati di sangue. Vicino al corpo c’è una pesante piantana portasciugamani che, secondo quanto dirà il medico legale, sarebbe stata utilizzata per spaccargli la testa: un solo colpo vibrato tra la zona orbitale e lo zigomo sinistro. Gli effetti di tanta ferocia sono devastanti. Sono da poco passate le 17 quando Scibona, sconvolto, chiama il 113. Piombano nell’appartamento di via Pallavicino gli agenti del commissariato San Paolo, quelli della sezione omicidi della Squadra Mobile di Roma e, poco dopo, il sostituto procuratore Leonardo Frisani. Il trentasettenne è morto così. In casa non manca nulla, è tutto in ordine, anche questa volta la serratura non è stata forzata e i vicini non hanno sentito nulla. Il delitto è avvenuto al mattino, almeno otto ore prima del l’arrivo di Scibona, e probabilmente chi ha ucciso deve aver colto l’esperto informatico nel sonno. Scibona era il compagno di Petrini. Sì, era una coppia gay. Avevano passato insieme cinque anni, poi la crisi e una mezza separazione che, tuttavia, non aveva compromesso la loro amicizia. Scibona, infatti, aveva ancora le chiavi di casa. Questo racconterà agli inquirenti nel corso di un lungo e drammatico interrogatorio durato sette ore. Gli inquirenti scavano, forse non troppo, e la prima conclusione a portata di mano è già servita il 15 maggio. Interrogano per giorni familiari, colleghi e amici. Ripercorrono gli ultimi giorni di vita dell’esperto, i suoi spostamenti, le sue frequentazioni. Non servono neanche le parole delle due sorelle dell’ingegnere, Daniela e Antonella, a far cambiare idea alla procura: quello che è accaduto sembra loro assai strano, non li convince. Luciano era riservato, non parlava mai del suo lavoro né, tanto meno, della sua vita privata. Viveva la sua omosessualità con grande discrezione ed eleganza anche se in tanti conoscevano il suo segreto. E poi la memoria del suo telefonino rinvenuto vicino al cadavere: un mistero nel mistero. Dei 99 numeri memorizzati nella rubrica solo 60 sono visibili, gli altri risulteranno criptati, indecifrabili. Per gli inquirenti il caso è chiuso dopo poche settimane: è stato un portoghese, un gay, un ragazzo di vita, e non importa che sia sparito nel nulla. Come Pier Paolo Pasolini, Petrini ha rimorchiato chissà dove questo bel giovane dai capelli biondi fuggito dopo il delitto, forse, a bordo di una Fiat Tipo bianca. Tutto qui. Nessun mistero. Nessuna stranezza. Non serve a nulla neanche il fatto che nel curriculum di Petrini spunti un’altra consulenza “sensibile” prestata nel tentativo di fare luce su un altro delitto irrisolto, quello di via Carlo Poma. Petrini indagò anche sul computer su cui lavorava la giovane Simonetta Cesaroni uccisa, il 7 agosto 1990, con 29 coltellate. Gli ingredienti ci sono tutti, non manca neanche la pista legata ai soliti Servizi. Anche loro, gli 007, entrano dappertutto e chissà che non c’entrino anche in questo mistero. Ma la storia dell’ingegner Petrini, l’uomo con gli occhiali dalla montatura d’oro e una scia di profumo sempre dietro di sé, s’interrompe così: un altro giallo da consegnare agli appassionati del noir. La sua storia finisce senza dare risposte a dubbi e sospetti.

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 20 luglio 2007 [pdf]

Cervia_DavideLo aspettavano sotto casa, erano pronti a tutto pur di rapirlo. Lo hanno spinto, poi picchiato e prima di farlo salire con la forza su un’auto lo hanno narcotizzato avvicinandogli un fazzoletto alla bocca. Davide Cervia è scomparso così, diciassette anni fa. È la ricostruzione più plausibile di un’azione che assomiglia tanto all’extraordinary rendition con cui la Cia ha sequestrato, nel 2003 a Milano, l’imam Abu Omar. Questa è la storia di un uomo sparito nel nulla, diventato “indispensabile” a chi trafficava in armamenti e sofisticate apparecchiature elettroniche per la difesa made in italy mentre le truppe di Saddam Hussein invadevano il Kuwait. Urlava, si dimenava, Davide Cervia ha tentato fino all’ultimo istante di richiamare l’attenzione di un suo vicino di casa, ma non ce l’ha fatta. Da quel mercoledì 12 settembre 1990 di lui non si sa più nulla. Siamo a Velletri, in provincia di Roma, all’altezza del civico 28 della Contrada Colle dei Marmi. Davide Cervia sta rientrando a casa, dove lo aspetta sua moglie, Marisa Gentile, insieme ai suoi due figli, un bimbo di 4 anni e una bambina di 6. Sono le cinque del pomeriggio. Un agricoltore, Mario Cavagnero, è il primo testimone oculare ad assistere alle fasi successive al sequestro. L’uomo ha un fondo vicino all'abitazione di Cervia e quel pomeriggio, mentre è intento ad annaffiare una siepe, come dirà agli inquirenti, sente le urla di Cervia. Lo sente pronunciare, per almeno tre volte, il suo nome: «Mario… Mario… Mario…». Tutto avviene mentre un’auto di colore chiaro percorre in direzione della via Appia Nuova il viale che porta a casa di Cervia. Cavagnero, oggi scomparso, racconta prima ai familiari di Cervia poi ai Carabinieri di avere avuto la sensazione che dentro quell’auto ci fosse proprio il suo vicino di cui ha riconosciuto la voce, alta e concitata. C’è un altro testimone: è un autista delle autolinee Acotral, Alfio Greco. Il conducente è alla guida del pullman sulla linea Torvajanica-Velletri ed è costretto a frenare bruscamente proprio nel punto dove la Contrada Colle dei Marmi si immette sulla Via Appia Nuova. Un’auto, una Wolkswagen Golf bianca, con alla guida un giovane dalla carnagione chiara e con i baffi, non gli dà la precedenza. Lui è costretto a lasciarlo passare. L’auto è seguita, a brevissima distanza, da un’altra Golf verde scuro con a bordo almeno altre tre persone. Sui sedili posteriori, dirà l’autista del pullman agli inquirenti, c’è seduto qualcuno che ha le spalle poggiate al vetro quasi a voler coprire qualcosa o qualcuno. Le due auto, superato l’incrocio, prima di scomparire nel nulla si immetteranno a forte velocità sull’Appia Nuova in direzione Genzano-Roma. Ma chi è Davide Cervia? Nato a Sanremo nel ’59, nel settembre 1978 si arruola come volontario in Marina dove rimane, prima di congedarsi rinunciando ai ruoli permanenti, fino a tutto l’83, anno in cui conosce la donna che di lì a poco diventerà sua moglie. Fino all’agosto 1980 Cervia frequenta un corso biennale, come tecnico elettronico, alla Scuola della Marina di Taranto. Nel settembre dello stesso anno è trasferito a La Spezia e imbarcato sulla nave officina Moc 1204 e successivamente partecipa, nelle stesse officine, all’allestimento della nave Maestrale. Le sue eccellenti capacità nel campo dell’elettronica gli permettono subito di distinguersi. Terminato con ottime valutazioni l’iter addestrativo, Cervia, con la qualifica di “addetto Elt/Ete/Ge”, viene impiegato nella manutenzione e nell’utilizzo di particolari apparecchiature radar di “intercettazione” e “inganno”. In parole povere il sottufficiale è un esperto di guerra elettronica. Frequenta anche alcune aziende specializzate nella progettazione di apparecchiature per scopi militari, in particolare la Elettronica Spa di Roma e la Sma di Firenze, e gli viene rilasciato anche un apposito nulla osta di sicurezza (Nos segreto-Nato). Era abilitato - scriverà lo Stato Maggiore della Marina nel ’91, fornendo più versioni del suo foglio matricolare nel corso delle indagini - all’uso di sottosistemi di guerra elettronica installati sulle fregate della Marina. Sono tutte apparecchiature il cui funzionamento risultava classificato “riservatissimo”. Cervia con il grado di sergente lascia la Marina nell’84. Ha un bel curriculum e alle spalle cinque anni di formazione. Negli anni Ottanta-Novanta, quando la discussa industria militare italiana vantava commesse da tutto il mondo, fa presto a trovare lavoro nel privato. Si fa assumere dalla Enertecnel Sud, una società che produce componenti elettronici ad Ariccia, un altro comune dell’hinterland romano a mezz’ora da Velletri dove Cervia nell’88, ormai sposato, si è trasferito. Il tecnico lavora e pensa alla sua famiglia a cui è molto attaccato, non ha nessun motivo per mettere in pratica insani gesti. Chi lo ha rapito può essere interessato solo alle sue capacità tecnico-militari acquisite in Marina e dentro quelle aziende della cosiddetta Tiburtina Valley. Chi lo ha rapito ha bisogno di lui per far funzionare qualcosa che lui conosce come le sue tasche: i radar. Marisa Gentile, la moglie che ancora oggi si batte nella ricerca della verità, si reca a denunciare la scomparsa del marito il giorno successivo e da allora attende di sapere perché glielo hanno portato via. Il coraggio, l’ostinazione di Marisa e della sua famiglia hanno permesso che si scrivesse, nero su bianco, che Davide Cervia fu vittima di un sequestro. Lo ha scritto l’allora sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Luciano Infelisi,chiedendo nel novembre del ’99 l’archiviazione «perché ignoti gli autori del reato» dell’unica indagine che sia riuscita ad arrivare a una conclusione pur non facendo piena luce sul caso. C’è voluta l’ostinazione di Marisa Gentile, del giornalista Gianluca Cicinelli, che sul caso ha scritto un libro e costituito insieme alla moglie di Cervia un Comitato per la verità, e dell’avvocato Nino Marazzita affinché la Procura generale avocasse a sé l’indagine avviata dalla Procura di Velletri che non riusciva ad esercitare l’azione penale «per carenza di organico». Eppure Marisa Gentile e Gianluca Cicinelli sono finiti sul banco degli imputati accusati - e poi assolti perché il fatto non costituisce reato – per i contenuti di quel libro pubblicato nel ’94 che ruppe il silenzio sul caso Cervia. Secondo il procuratore Luciano Infelisi, Cervia non aveva motivo di allontanarsi volontariamente dalla sua abitazione, né di togliersi la vita. Quel pomeriggio tornava a casa dove aveva dato appuntamento ad alcuni tecnici dell’Enel che dovevano eseguire dei lavori e per la mattina successiva aveva chiesto a un suo collega delle uova fresche per i bambini. Ci sono i due testimoni oculari le cui deposizioni sono risultate attendibili nel ricostruire quanto accadde quel giorno a Velletri, ma manca qualcosa. Manca la volontà di scavare. La storia di Davide Cervia, come tanti altri casi in cui lo Stato si è trovato a interrogare lo Stato, è scandita da inquinamenti, omissioni, depistaggi e colpevoli silenzi che non hanno permesso alla magistratura di raggiungere alcun obiettivo se non quello di lasciare aperto il caso. È inquietante come la Marina militare ha trattato il caso Cervia e come sia arrivata, in alcuni casi, anche a smentire se stessa nel comunicare agli inquirenti le reali mansioni del sottufficiale, quasi a voler nascondere le sue capacità. È inquietante l’inerzia incontrata dentro quei palazzi dove i familiari di Cervia hanno tentato di trovare delle risposte. Sono inquietanti i contenuti delle lettere anonime giunte in questi anni alla famiglia Cervia che in alcuni casi arrivano ad avvalorare la tesi secondo cui l’uomo sarebbe stato rapito da agenti segreti di una potenza straniera per sfruttarne la sua specializzazione. E poi, ancora, che il sottufficiale avrebbe perso la vita il 4 febbraio 1991 in un centro radar a nord di Bassora (Iraq) colpito da un missile. Poi lo segnalano, insieme ad altri esperti italiani, in una struttura dell’intelligence irachena a Zawra Park sulle rive del Tigri bombardata dagli americani nel luglio del ’93. Tre anni dopo le lettere anonime arrivano a segnalare che l’esperto sarebbe vivo e si troverebbe in una base sotterranea segreta dell’Iraq a 110 chilometri da Baghdad, ma l'Ambasciata irachena presso la Santa Sede smentirà subito che Cervia si trovi lì. Le cronache dei primi anni Novanta raccontano delle truppe di Saddam Hussein che invadono il Kuwait, di una prima Guerra nel Golfo, scoppiata appena un mese prima della scomparsa di Cervia, ma anche di traffici internazionali di armamenti e apparecchiature elettroniche destinate alla Difesa. Raccontano di importanti società italiane (Fincantieri, Oto Melara, Aeritalia, Selenia, Elettronica, Sma e Meteor) in commercio con il Medio Oriente e con il Nord Africa e di esperti italiani “noleggiati” alla Libia di Gheddafi e all’Iraq di Saddam per addestrare militari all’utilizzo di apparecchiature “made in Tiburtina Valley”. Ma le nostre apparecchiature, le stesse su cui Cervia si era fatto le ossa in Marina, come il sistema missilistico antinave Otomat-Teseo, finivano anche in Iran, Venezuela, Perù, Ecuador, Malesia e Nigeria. Oggi a diciassette anni dalla scomparsa di Cervia, la moglie Marisa non se la sente più di parlare, affida tutto a un malloppo di carte che raccontano anche che i nostri servizi, in particolare il Sismi, definirono “credibile” la tesi che Cervia fu rapito per interessi commerciali-militari legati alla sua competenza professionale. Ma la realtà è un’altra. Le indagini sono ferme al 5 aprile 2000 quando la gip Paola Astolfi del Tribunale di Velletri, ritenuti ignoti gli autori del sequestro, ha archiviato l’inchiesta della Procura generale di Roma.

di Fabrizio Colarieti per Left-Avvenimenti del 1 giugno 2007 [pdf]

Jolly2«Con i traffici di rifiuti e gli affondamenti delle navi non c’entriamo nulla». Sono in mare dal 1921 e non ci stanno proprio a farsi etichettare come trafficanti di scorie e affondanavi. La Ignazio Messina & C. Spa, una flotta di quindici navi che collegano i principali porti del Mediterraneo, è la società armatrice della Jolly Rosso. Dal quel 14 dicembre 1990, quando la loro motonave portacontainer si arenò nella spiaggia cosentina di Formiciche di Amantea, i vertici aziendali della compagnia respingono con forza ogni accusa. La procura di Paola - che seguendo le rivelazioni di un pentito della ‘ndrangheta nei giorni scorsi ha individuato sul fondo del basso Tirreno un altro misterioso relitto - punta il dito contro l’armatore genovese che avrebbe tentato di affondare la sua nave per smaltire illegalmente un carico di scorie. La linea difensiva della Ignazio Messina, tuttavia, è sempre la stessa da sedici anni: è scritta in un dossier di quasi quattrocento pagine redatto nel 2004. La verità, che prova a demolire pezzo per pezzo il teorema della procura, è tutta nella ricostruzione dei fatti: la nave, di ritorno da Malta per La Spezia con un carico di tabacco, nylon e prodotti per bevande, si arenò a causa di alcune falle create nello scafo da un semi-rimorchio, ospitato nella stiva, che ruppe gli ancoraggi e sbatté più volte contro la paratia di sinistra. Quindi nessun tentativo doloso di affondarla. Nessun carico di rifiuti o scorie radioattive da occultare in fondo al mare. Tutto ciò avvenne a causa delle pessime condizioni meteo (mare forza 8/9). Da quelle falle entrò acqua, erano circa le 7, il comandante avvertì un rumore proveniente dalla stiva, la nave sbandò, si inclinò e finì per spiaggiarsi lungo il litorale di Amantea. «La Messina - spiega ad Avvenimenti il suo amministratore delegato Andrea Gais - ha la coscienza pulita. L’immagine della nostra società è stata infangata, calunniata e massacrata per sedici anni da una campagna di stampa di cui evidentemente ci sfuggono le origini». Quella mattina nel mare di Calabria c’era anche un’altra nave della stessa compagnia: la Jolly Giallo in navigazione verso Tripoli. I magistrati sono arrivati ad ipotizzare un suo coinvolgimento: in sostanza questa seconda nave faceva da appoggio al piano di affondamento. «Nessun mistero. È la balla più grossa che abbiamo sentito finora - la secca replica di Gais -, la Giallo era stata dirottata in quella zona dalle autorità marittime, è stata l’ultima nave ad arrivare lì dopo l’Sos ed era obbligata ad avvicinarsi ed intervenire. Fu un ultimo tentativo di salvare nave e carico: la Giallo doveva agganciare la Rosso e trainarla al largo ma l’operazione di soccorso purtroppo non andò a buon fine». E quelle mappe, quei documenti trovati a bordo della Rosso con il marchio della Oceanic disposal management Inc., la holding del faccendiere, “affossascorie”, Giorgio Comerio? «Sulla nostra nave - aggiunge l’amministratore delegato della Ignazio Messina - , lo ribadiamo, non c’erano documenti della Odm. Quella società è nata nel 1993, tre anni dopo l’incidente della Rosso». Ma la Ignazio Messina deve difendersi anche dalle pesanti rivelazioni di un pentito: un ex boss della ‘ndrangheta, che in un memoriale consegnato all’Antimafia dice di essersi occupato, nell’ottobre del 1992 e su loro mandato, di affondare tre navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi proprio al largo della Calabria. «Nell’arco di un paio di settimane - scrisse il boss - abbiamo affondato tre navi indicate dalla società Messina. La Yvonne A, ci disse la Ignazio Messina, trasportava 150 bidoni di fanghi, la Cunski 120 bidoni di scorie radioattive e la Voriais Sporadais 75 bidoni di varie sostanze tossico-nocive. Ci informò anche che le imbarcazioni erano tutte al largo della costa calabrese in corrispondenza di Cetraro, provincia di Cosenza». E ora le novità. L’8 gennaio scorso i tecnici di una società, la Blue Tek, incaricata di effettuare le ricerche dalla procura di Paola hanno individuato proprio al largo di Cetraro, a circa quattro miglia dalla costa, una nave, lunga circa cento metri e larga almeno quindici, adagiata ad una profondità di circa quattrocento metri. Il relitto è danneggiato nella parte centrale e il sofisticato Side Scan Sonar utilizzato per scandagliare il fondo del Tirreno ha individuato, nel raggio di alcune centinaia di metri attorno al relitto, una misteriosa macchia scura. Più a nord di questo punto, a circa dieci miglia dalla costa di Belvedere, quasi in acque internazionali, gli esperti hanno riferito al magistrato Francesco Greco di aver individuato un altro corpo, definito “estraneo”, lungo circa centotrenta metri, che si trova a cinquecento metri di profondità. È la conferma che aspettavano gli inquirenti dopo le rivelazioni del boss? «Che un non meglio identificato pentito – controbatte Andrea Gais - abbia detto di aver avuto rapporti con noi lo smentiamo nella maniera più assoluta e categorica. Non sappiamo neanche chi è questo personaggio e questo fantomatico memoriale noi non l’abbiamo mai letto, ce l’ha L’espresso, noi no... Su quali prove si basa la nostra colpevolezza? La nostra compagnia ha più di ottantanni - prosegue – non accettiamo che un boss ci venga a dire che quelle navi le abbiamo fatte affondare noi. Non possiamo accettarlo. Questo boss mente, è stato foraggiato da qualcuno che vuole continuare a tirarci in ballo e non sappiamo per quale motivo». Tutte accuse da provare. Sarà necessario immergersi in mare e capire cosa c’è sotto. Come sarà necessario scavare nelle discariche nell’entroterra di Amantea, dove sono state trovate tracce di metalli pesanti e altre sostanze tossiche e dove secondo il pm Greco sarebbero stati smaltiti, cioè sotterrati illecitamente, i rifiuti trasportati dalla Rosso. Stando ai riscontri dei Lloyd’s di Londra e di Legambiente sono almeno venticinque le navi affondate dolosamente nel Tirreno e nel mar Ionio. «Nel maggio 1993 all’altezza del Canale di Sicilia - ricorda Enrico Fontana dell’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente - affondò certamente la Marco Polo. Come per la Koraline, affondata al largo di Ustica, in alcuni container ritrovati, fu riscontrata una radioattività da torio 234. Navi fantasma sono anche la Mikigan, affondata il 31 ottobre 1986 nel mar Tirreno calabrese, con il suo carico misterioso e la Rigel affondata il 21 settembre del 1987 al largo di Capo Spartivento. Le dinamiche del loro naufragio e di come si siano “lasciate andare” verso i fondali presentano impressionanti analogie». La Yvonne A, la Cunski e la Voriais Sporadais che fine hanno fatto? Sono lì, sul fondo del Tirreno? Secondo il Lloyd’s Marine Intelligence Unit, l’unità che svolge indagini sulle navi per conto dell’assicuratore marittimo londinese, la Yvonne A e la Cunski non risultano disperse: sono state demolite rispettivamente nel 2004 e nel 1991, mentre non è stata trovata alcuna nave che abbia mai avuto il nome Voriais Sporadais.

di Fabrizio Colarieti per Avvenimenti del 3 febbraio 2006 [pdf]