Spatuzza per la Procura di Firenze - che lo ha chiamato come teste al processo che vede imputato l’uomo d’onore Francesco Tagliavia in qualità di «coautore» della strage che distrusse l’Accademia dei Georgofili e uccise 5 persone ferendone altre 48 - è il testimone chiave. Oggi studia teologia e invoca il perdono, è in carcere dal ’97 per 6 stragi e 40 omicidi, si è autoaccusato di aver rubato la Fiat 126 che il 19 luglio 1992 venne impiegata per far saltare in aria Paolo Borsellino e la sua scorta, di aver partecipato all’omicidio di don Pino Puglisi e di aver rapito il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, sciolto nell’acido dopo oltre due anni di prigionia.
Spatuzza, già condannato anche per gli stessi attentati del ‘93, si è presentato in aula completamente vestito di nero, scortato da sette uomini del Gom in “mefisto”, e ha parlato, nascosto da un paravento, per sette ore. Chiede perdono a Firenze e lo aveva già fatto con una lunga lettera inviata nel giugno 2010 all’Associazione dei familiari delle cinque vittime dell’attentato di via dei Georgofili. E “u tignusu” la sua versione la racconta a partire da quei giorni, quelli che precedettero la strage: «Nel maggio 1993 sono arrivato a Firenze da terrorista. Il nostro obiettivo era di colpirla nel cuore e ci siamo riusciti - ha detto il pentito rispondendo alle domande dei pm Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi - oggi dopo 17 anni vengo come collaboratore di giustizia, pentito, e chiedo perdono. Un perdono che può non essere accettato, può essere strumentalizzato, ma dovevo farlo».
Francesco Tagliavia, dice Spatuzza, «l’ho visto per la prima volta nell’86-87, periodo in cui eravamo partecipi per spingere il Partito socialista. C’è stato un incontro politico in Sant’Erasmo, in un ristorantino in via del Tiro a segno. Non era una persona comune, l’ho capito subito - ha aggiunto parlando sempre di Tagliavia -, quel giorno era tutto vestito di nero, non so se gli era morto il fratello. Negli anni seguenti abbiamo poi fatto degli omicidi insieme».
LE STRAGI
L’attentato di Firenze fu organizzato in una villetta, nel corso di un incontro a cui parteciparono Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Matteo Messina Denaro, Barranca e Giuliano. «Graviano - racconta Spatuzza - mi comunica che siamo lì per mettere a punto un attentato. Sul tavolo ci sono dei libri con figure artistiche, dei monumenti, delle fotografie. Per quello che ho capito loro avevano già fatto sopralluoghi a Firenze, parlavano di quei posti come se fossero già a conoscenza». Tagliavia, dopo l’attentato di Firenze, avrebbe mandato a dire a Giuseppe Graviano di fermare le stragi: «Dopo l’attentato in via dei Georgofili - racconta ancora Spatuzza - ci sono in atto dei doppi attentati a Roma e a Milano. Me lo comunicò Lo Nigro. E qui iniziano i preparativi, macinatura e quant’altro. In questa fase, Lo Nigro mi comunica che Tagliavia vuole un incontro che avviene durante un’udienza nel tribunale di Palermo, nel quale siamo entrati da un ingresso secondario. Noto Francesco Tagliavia sul banco degli imputati, quando siamo entrati ha guardato noi e ci siamo salutati. Qui avviene il colloquio tra Tagliavia e Lo Nigro. Tagliavia mi manda un bacio a distanza muovendo il polso “a martello”: è un gesto in codice, è un bacio diretto a Giuseppe Graviano, che da bambino era soprannominato “martello”. Tagliavia in quel modo voleva far sapere a “madre natura”, altro soprannome di Giuseppe Graviano come boss, di bloccare tutta la fase dei Bingo, cioè come chiamavamo gli attentati. Io non me l’aspettavo - aggiunge Spatuzza - e non sono a conoscenza di come pervenne questo messaggio a Graviano. Per quanto mi riguarda, la questione stragista andò avanti». Sul fallito attentato nei pressi dello stadio Olimpico di Roma, programmato per uccidere decine di carabinieri il 31 ottobre 1993 e fallito perché l’autobomba non esplose, Gaspare Spatuzza riferisce: «Dopo che Giuseppe Graviano notò una mia debolezza durante una riunione mi disse che “ci si deve portare dietro un po’ di morti, così chi si deve muovere si dia una mossa”. Una situazione che, secondo Giuseppe Graviano, se fosse andata a buon fine ne avremmo tratto tutti dei benefici, a partire dai carcerati».
BERLUSCONI E DELL’UTRI
«Ci incontriamo - racconta Spatuzza, riferendosi a Graviano -, lui era gioioso, mi disse che avevamo ottenuto tutto grazie alla serietà di queste persone che non erano come quei quattro socialisti che ci avevano venduto nel 1988. Lui menziona nello specifico la persona di Berlusconi. Io gli dissi se era la persona di Canale 5 e lui me lo confermò e mi disse che c’era anche un suo compaesano, Marcello Dell’Utri. Giuseppe Graviano - prosegue Spatuzza - mi disse: “Berlusconi e Dell’Utri sono gli interlocutori, attraverso queste persone ci siamo messi il Paese nelle mani”». E ancora, riferendosi a un incontro con altri mafiosi, Pietro Romeo e Francesco Giuliano: «Così in una confidenza a tutti e due, Romeo e Giuliano, dissi a entrambi per tranquillizzarli che “siamo in mani buone, siccome era nato questo soggetto politico che si chiama Forza Italia”».
LA PATERNITA’ DELLE STRAGI
«Per quello che mi riguarda - afferma ancora Spatuzza -, nell’ottica criminale, Capaci ci appartiene, via D’Amelio ci appartiene. Ma su Firenze, Milano e Roma entriamo in una storia diversa, è un terreno che non ci appartiene. Cosa Nostra non è così imbecille da andare in guerra senza le spalle coperte. Dissi della bambina (una delle vittime di Firenze, ndr) - spiega il pentito - che poi non era una ma erano due, ma io l’ho saputo più tardi, questo era il nostro malessere tra noi: la piccola Nadia (Nencioni, ndr), di cui ho saputo in questi ultimi anni, e l’altra è la sorella Caterina. Giuseppe Graviano disse che era meglio che ci portassimo dietro un po’ di morti, così diamo una smossa, così chi si deve muovere si muove. In realtà Giuseppe Graviano aveva capito la mia debolezza di esprimere dei dubbi - ha aggiunto - sulle stragi che avevamo fatto. Per me, Graviano rappresentava “mio padre”, altrimenti sarei stato zitto perché nei rapporti tra mafiosi queste cose non si possono dire tanto più se sono state fatte o decise».
LA COLLABORAZIONE CON LO STATO
«Io mi sono inginocchiato davanti allo Stato - prosegue nella sua deposizione “u tignusu” - e ho chiesto perdono. Devo dire che io giuridicamente ho sbagliato, ed è giusto che lo Stato mi punisca. Moralmente ho agito convinto di fare la scelta più giusta in quella circostanza. Nel marzo 2008 chiesi un colloquio con il procuratore antimafia Piero Grasso per via D’Amelio. Avevo tanta paura a collaborare, venni trasferito in un altro penitenziario più sicuro. Ma sono entrato in conflitto con questioni di politica, con questioni di polizia, di servizi segreti, di magistratura, rispetto a processi già chiusi con condanne definitive, ed ero chiuso in una cella. Non è stato facile trovarsi da solo contro davanti a tutto questo. Lo Stato, quello che conosco io, la protezione non me l’ha fatta mancare. Ma io conduco una vita peggio del 41 bis».
di Fabrizio Colarieti per Il Punto, 17 febbraio 2011 [pdf]