FABRIZIO COLARIETI

Processo allo Stato

PagliarelliQualcuno lo ha paragonato al processo Andreotti, quando per la prima volta il sospetto che la politica, quella con la “p” maiuscola, fosse collusa con la mafia finì dentro un’aula di tribunale. Oggi, ventuno anni dopo il tritolo di Capaci e via D’Amelio, sul banco degli imputati, insieme alla politica e a vertici di Cosa nostra, c’è finito anche lo Stato. Processerà se stesso, a partire dal 27 maggio, il giorno in cui, secondo il gup Piergiorgio Morosini, quattro boss mafiosi, due politici, tre ufficiali dell’Arma dei carabinieri e un ambiguo testimone dovranno rispondere di fronte alla giustizia di aver preso parte, con ruoli differenti, alla presunta trattativa Stato-Mafia.
LA TRATTATIVA. E’ uno dei capitoli più oscuri della storia del nostro Paese. Secondo i magistrati di Palermo – che dopo quattro anni di indagini hanno chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio di tutti gli indagati oggi imputati in attesa di giudizio dinanzi alla prima Corte d’Assise di Palermo – per fermare le stragi, tra il 1992 e il 1994, lo Stato scese a patti con Cosa nostra. Facendo avvicinare i vertici della cupola palermitana dagli emissari del Ros dei carabinieri con in tasca il benestare della politica a trattare una resa militare, sedendosi a un tavolo che era già sporco di sangue. Quello del giudice Paolo Borsellino, che dello scellerato dialogo in corso tra i carabinieri e i colonnelli di Riina era venuto certamente a conoscenza poco prima della sua morte, e di Giovanni Falcone, ilmagistrato che aveva osato sfidare la piovra convincendo don Masino Buscetta a parlare e che da anni sosteneva l’esistenza di un “terzo livello”. Questo, in estrema sintesi, è il teorema a cui ha creduto il gup Morosini rinviando a giudizio 10 dei 12 indagati dell’inchiesta avviata dai pm Antonio Ingroia, Lia Sava, Antonino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
GLI IMPUTATI. I boss Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Giovanni Brusca dovranno rispondere di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. Stessa accusa anche per tre ufficiali dell’Arma dei carabinieri, i generali Mario Mori e Antonio Subranni, e il colonnello Giuseppe De Donno, e per il senatore del Pdl, Marcello Dell’Utri. Falsa testimonianza è invece l’accusa rivolta nei confronti dell’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino. Massimo Ciancimino, testimone chiave dell’inchiesta e figlio dell’ex sindaco di Palermo, Vito, dovrà rispondere di concorso in associazione mafiosa e calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia di Stato, Gianni De Gennaro. Manca solo lui, Zu Binu Provenzano, la cui posizione è stata stralciata perché l’ex padrino di Corleone, secondo una perizia ordinata dal tribunale, non sarebbe più in grado di comparire in aula a causa di una grave demenza senile.
LA GENESI. Nelle 34 pagine del decreto di rinvio a giudizio firmato il 7 marzo dal giudice palermitano Piergiorgio Morosini c’è un sunto delle 300mila scritte dal pool di Palermo per riannodare i fili di una storia che parte dall’omicidio del leader della Dc siciliana, Salvo Lima (12 marzo 1992). Il delitto, da cui tutto ebbe inizio, che secondo i magistrati «fu la risposta di Cosa nostra allo Stato che, dopo la sentenza di Cassazione del maxiprocesso, aveva messo in crisi la credenza d’impunita  dei boss, condizione essenziale per la sopravvivenza dell’organizzazione stessa». Dunque la genesi della trattativa - scrivono i pm della procura di Palermo nell’ultima memoria trasmessa al gup il 5 novembre scorso - combacerebbe con la nascita del programma stragista con cui i corleonesi volevano «ristrutturare radicalmente ed in modo irreversibile e violento il rapporto con la politica». Prima di quel “papello”, con le condizioni per fermare le stragi, che secondo gli inquirenti passò dalle mani di Totò u curtu a quelle degli uomini del Ros, la mafia subì colpi durissimi che la procura riassume in tre punti: «l’arresto di numerosissimi uomini d’onore; le prime collaborazioni con la giustizia di Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone e Francesco Marino Mannoia; il rinvio a giudizio prima, e la condanna in primo grado poi di tantissimi mafiosi, alla fine di un processo caricato di grande significato politico-simbolico».
L’ARTE DELLA GUERRA. Tra le carte dell’inchiesta sulla trattativa ci sono, poi, due frasi, che per gli inquirenti assumono un importante valore simbolico. La prima la pronuncia Toto Riina, fare la guerra allo Stato per poi fare la pace». Per la procura di Palermo si tratta di «un modo rozzo di esprimere la ragione dello stragismo mafioso all’ombra dello spirito della trattativa». L’altra è pronunciata da un altro dei dieci imputati di questo processo, Leoluca Bagarella: «In futuro non dobbiamo piu  correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle». Parole che rappresentano, sempre secondo gli inquirenti, l’obiettivo strategico di Cosa nostra e cioè «costruire le premesse per un nuovo rapporto con la politica, perché fosse Cosa Nostra ad esprimere direttamente le scelte politiche attraverso i suoi uomini, senza alcuna mediazione. Annullare la politica ed i politici tradizionali per favorire l’ingresso della mafia in politica, tout court».
I PROTAGONISTI. A gestire la trattativa, scrivono i pm del pool di Palermo nella memoria inviata al gup Morosini, per Cosa nostra fu Riina in persona, per lo Stato furono gli ufficiali del Ros (Subranni, Mori e De Donno) «a loro volta investiti dal livello politico (ed in particolare dal sen. Calogero Mannino, all’epoca Ministro in carica ed esponente politico siciliano di grande spicco), che contattarono Vito Ciancimino – a sua volta in rapporti con Salvatore Riina per il tramite di Antonino Cinà – nel 1992, nel pieno dispiegarsi della strategia stragista ». Una trattativa «unitaria, omogenea e coerente» che nel tempo - fino al 1994 – subi  «molteplici adattamenti», cambiò «interlocutori e attori da una parte e dall’altra », fino a quando «le ultime pressioni minacciose finalizzate ad acquisire benefici e assicurazioni hanno ottenuto le risposte attese». Cosa nostra avviò una vera e propria «campagna del terrore contro il ceto politico dirigente dell’epoca al fine di ottenere i benefici e i vantaggi che furono poco dopo specificati nel papello di richieste che Riina fece pervenire ai vertici governativi». La mafia, scrivono i magistrati di Palermo, arrivò a minacciare lo Stato attraverso uomini politici «cerniera, cinghie di trasmissione»: Calogero Mannino prima (che sarà giudicato con il rito abbreviato dal prossimo 20 marzo) e Marcello Dell’Utri dopo. Mannino e Dell’Utri, così come i tre alti ufficiali dell’Arma imputati in questo processo, per la procura, e per il gup che ne ha sposato l’impianto accusatorio, fornirono «un consapevole contributo alla realizzazione della minaccia, con condotte atipiche di sostegno alle condotte tipiche che si sono risolte nell’avere svolto il ruolo di consapevoli mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi fossero gli intermediari di un’estorsione». Il “dialogo”, scrive infine Morosini, «avrebbe avuto ad oggetto la disponibilità a trattare sulla concessione di benefìci penitenziari e sull’intervento penale in cambio della cessazione degli attentati».
UOMINI CERNIERA. Manca all’appello chi agì nell’ombra. Il giudice Morosini, motivando il rinvio a giudizio, dedica un paragrafo all’analisi di uno scenario parallelo alla trattativa che contiene ancora molte zone d’ombra. E’ il ruolo dell’intelligence deviata e il tentativo di destabilizzare il Paese da parte di «consorterie di diversa estrazione interessate a “sfruttare” la crisi politico-istituzionale italiana e ad acuirla con “azioni destabilizzanti”». «Dall’esame delle fonti - scrive il giudice - si ricavano elementi a sostegno di una ipotesi di esistenza di un progetto eversivo dell’ordine costituzionale, da perseguire attraverso una serie di attentati aventi per obiettivo vittime innocenti e alte cariche dello Stato, rivendicati dalla Falange Annata, compiuti con l’utilizzo di materiale bellico proveniente dai paesi dell’est dell’Europa». Una strategia del terrore nata dalla saldatura di Cosa nostra con entità di «diversa estrazione», favorita dalla mediazione di «uomini cerniera» tra crimine organizzato, eversione nera, ambienti deviati dei servizi di sicurezza e della massoneria.

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 21 marzo 2013 [pdf]

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