Stiamo alle notizie. La Cassazione ha scritto che il Dc9, quella notte, fu abbattuto da un missile e che lo Stato non garantì l’incolumità dei passeggeri di un volo che percorreva un’aerovia civile in tempo di pace, tornando così ad accreditare, con il sigillo di una sentenza definitiva, una tesi antica quanto questa vicenda. Un sospetto - sostenuto da sufficienti elementi di prova - che aleggia attorno all’affaire Ustica fin dalla notte del 27 giugno 1980, quando Ciampino perse i contatti con il volo IH-870.
Non ho intenzione di ripercorrere quelle ore, ma su Ciampino voglio spendere alcune parole. Di Ciampino abbiamo il tracciato radar, l’unica prova, documentale, sopravvissuta alla sistematica azione di depistaggio e distruzione di prove che ha accompagnato il caso Ustica in questi anni.
Abbiamo le registrazioni audio, originali, di quanto avvenne dentro il Centro di controllo e le voci degli operatori. Abbiamo, cioè, una prima prova, una prima conferma, per affermare che quella notte, a Ciampino, l’Aeronautica non si trovò di fronte a un normale incidente aereo.
Ciampino si affanna ad entrare in contatto con l’Ambasciata americana, tutti lo ricorderanno. A Ciampino si materializza, già nei primissimi momenti che seguono l’ultima chiamata radio senza risposta verso il volo Itavia, il sospetto che il Dc9 sia entrato in collisione con un altro velivolo. A Ciampino, l’Aeronautica, prima ancora di occuparsi dei soccorsi, si affretta a chiedere agli americani, all’attaché militare dell’Ambasciata di via Veneto, se per caso, in volo o in mare, ci sono i loro mezzi militari. Con i ritorni radar di Ciampino viene disegnato quel tracciato che mostra, a parere dei massimi esperti di disastri aerei (statunitensi), la presenza, certa e incontestabile, di numerosi velivoli intrusi che in più punti incrociano la rotta del Dc9 fino al Punto Condor. Di più: tre “echi” radar fissano, nero su bianco, la traccia, l’impronta digitale, del caccia che ha attaccato.
La Nato ha detto al nostro governo che quella notte c’erano molti velivoli militari in volo, molti dei quali senza nome, ma non una parola in più, non una prova utile ad identificare il paese, o i paesi, che parteciparono a quella che il giudice Rosario Priore definì un’operazione di polizia internazionale. Un’imboscata.
La sentenza della Cassazione, la prima, a distanza di quasi 33 anni, è l’ennesima conferma che quella notte i confini del nostro Paese, e con essi anche la sua sovranità, furono violati.
E’ l’ennesima prova che i nostri apparati di sicurezza, e che ci governava, nascosero a tutti una verità inconfessabile per evitare un incidente diplomatico di grandissime dimensioni. Cinicamente fu pagato il prezzo più basso, la perdita di 81 nostri concittadini, in cambio del silenzio e dell’impunità.
Leggo le parole del generale Leonardo Tricarico, ex capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, che oggi si dichiara allibito «dall’incapacità dello Stato di difendersi in un giudizio civile, soprattutto dopo che la Cassazione penale aveva consegnato alla storia un giudizio diametralmente opposto». Tricarico scopre con questa sentenza «che ai tanti poteri oscuri dell’Italia bisogna aggiungere il “Partito del Missile”, in grado di far prevalere presso un giudice monocratico quella stessa tesi che il lunghissimo procedimento penale aveva rigettato come fantascienza».
Da Tricarico mi aspetto altro. Vorrei che s'impegnasse, da esperto quale è, a cercare la verità, a difendere il suo Paese e la dignità della divisa che indossava. Solo così l’Aeronautica militare italiana riuscirà a scrollarsi di dosso il pesante fardello del sospetto. Solo raccontando la verità. Se non vuole contribuire, riferendo alla magistratura quello che sa, quello che magari ha appreso stando al vertice dell’Ami, rispetti almeno una sentenza pronunciata in nome del popolo italiano, non il capriccio di un giudice monocratico, che tra l’altro ha fatto il suo dovere giudicando le prove che aveva in mano. Rispetti quanto ha deciso la Suprema Corte di Cassazione. Rispetti lo sforzo di coloro che in questi anni, al fianco dei familiari delle vittime, hanno cercato, in tutte le direzioni, la verità, anche dando credito a tesi davvero bizzarre, come la bomba nella toilette messa non si sa da chi, che scoppia mentre l’aereo è già in volo con due ore di ritardo rispetto alla tabella di marcia. Quella bomba tanto cara all’Aeronautica e ai consulenti tecnici che di giorno giuravano fedeltà al giudice Priore e di notte - al telefono - violavano il segreto investigativo informando gli indagati sui progressi delle indagini.
E ancora: «il prezzo di questa sentenza non si misurerà soltanto in milioni di euro, ma in perdita di credibilità per lo Stato tutto». La credibilità, generale Tricarico, il nostro Paese l’ha persa quella notte, quando ha abbassato la testa. L’ha persa quando decine di uomini in divisa hanno cominciato a raccontare menzogne, a tagliare registri con le lamette, a cancellare registrazioni, a manomettere i radar e a far credere che un cadavere con i vermi, quello del pilota del Mig libico caduto sulla Sila, era fresco di giornata. Chi non ha retto il peso del fardello ha fatto la fine di Dettori e di Parisi, due militari morti di Ustica, con un cappio al collo. Gli altri sono rimasti in silenzio. Hanno preferito voltare le spalle al proprio Paese, magari in cambio di un crest da appendere dietro la scrivania, di una stella in più sulle spalle o di un invito alle cene di gala di un’ambasciata.
Non molto tempo fa, un militare in pensione, mi disse che decine di carriere «dopo l’impiccio di Ustica» erano state costruite sul silenzio e che nessuno avrebbe mai raccontato la verità. Per favore, generale, smentisca questa notizia. Dica agli italiani che l’istituzione che ha rappresentato non è complice di chi ha permesso, finora, che tutto questo diventasse un incubo.
Fabrizio Colarieti