Gli ultimi messaggi che Giulio Regeni scrisse a un amico anonimo, via Facebook, prima della sua morte, in Egitto, mostrano chiaramente le preoccupazioni per gli studi che il giovane ricercatore stava conducendo nel Paese africano e smentiscono la tesi egiziana che fosse una spia di un’intelligence straniera o un agitatore politico. A sostenerlo è il Guardian, in un articolo dedicato al caso della morte dello studente friulano dell’Università di Cambridge, ora oggetto, in Italia, di un processo contro quattro 007 egiziani che, secondo le indagini condotte dalla Procura di Roma, lo rapirono e torturarono fino ad ucciderlo. Ancor prima di lasciare l’Inghilterra, Regeni era molto preoccupato per i rischi che avrebbe dovuto affrontare lavorando alla sua tesi sui sindacati degli ambulanti egiziani. Il 28enne, ricostruisce il Guardian, in particolare, temeva di essere espulso prima che potesse terminare le sue ricerche. A ottobre 2015, un mese dopo il suo arrivo al Cairo, aveva descritto i sindacati egiziani come “l’unica forza rimasta nella società civile” capace di combattere la repressione del governo. Ma le cose, secondo quanto ricostruisce il Guardian, ben presto presero una piega preoccupante. A una riunione di attivisti sindacali, Regeni aveva notato una giovane donna velata che lo stava fotografando con il telefono e da quel momento iniziò a temere di essere sotto sorveglianza.
Nel ricostruire la vicenda il quotidiano britannico riporta anche la testimonianza di Johannes Svensson, con cui Regeni condivideva un appartamento al Cairo: era un accademico non un agitatore politico, dice lo studente descrivendo Giulio come una persona cauta. Dopo la sua morte Regeni “è diventato un martire per gli scomparsi nell’Egitto di Al Sisi”, conclude il Guardian riportando un’ultima affermazione del suo amico anonimo con cui era in contatto su Facebook: “Ecco perché ci sono graffiti di lui al Cairo: lui è un simbolo dell’opposizione al regime”.
di Fabrizio Colarieti per La Notizia [link originale]