Onorevole Scotti, a distanza di vent’anni si è fatto un’idea del motivo per cui venne rimpiazzato al Viminale?
«Non c’era niente di personale. Il problema era strettamente politico. La risposta è nella storia scritta in quei due anni, a partire dal momento in cui cambiò la linea politica su come andava combattuta la mafia».
In altre parole sta dicendo che il fatto che lei si occupasse costantemente di lotta alla mafia dava fastidio a qualcuno?
«Con il decreto dell’8 giugno, quello che introduceva nell’ordinamento anche il 41-bis, volevamo impedire che i boss continuassero a gestire gli affari di famiglia anche dall’interno delle carceri. E quest’azione incontrò notevoli resistenze, in molte direzioni e con ragioni diverse. Da una parte c’era l’azione mia e di Martelli, apertamente a sostegno del pool di Palermo, e dell’altra c’erano alcuni, con ragioni nobili e altre meno, che ritenevano che la lotta alla mafia andasse condotta con forme meno aggressive di quelle che noi proponevamo. Questa è la storia di quegli anni. Secondo noi non bisognava continuare con i provvedimenti straordinari, ma bisognava cambiare le istituzioni investigative e giudiziarie».
Quindi?
«Quindi istituimmo la Direzione nazionale antimafia e la Dia, introducemmo la legge sui pentiti, cioè arrivammo a costruire una corpo di leggi e di strutture per dichiarare guerra alla mafia. Come del resto fu la mia scelta di indicare il nome di Borsellino, chiedendo la riapertura dei termini del concorso, per l’incarico di Procuratore nazionale antimafia. Una scelta che nasceva dall’esigenza di garantire continuità a un’azione. Avevano ammazzato Falcone, bisognava rispondere accentuando e non riducendo la pressione sulla mafia, quindi anche sostenendo la candidatura alla Dna di un uomo che aveva lavorato con lui».
Nel marzo del ‘92 denunciò in Parlamento l’esistenza di un piano di destabilizzazione ordito dalla mafia. Perché il governo non lo prese sul serio?
«Annunciai che c’era il sentore, più che fondato, che la mafia stava organizzando azioni violente, lo dissi a marzo, cioè due mesi prima della strage di Capaci. Il mio allarme fu preso molto sottogamba, perché in Parlamento posi il problema che bisognava dichiarare guerra alla mafia. Fui sostituito in quel clima. Cambiare il ministro dell’Interno a venti giorni dall’uccisione di Falcone fu una scelta scellerata. Il decreto dell’8 giugno aveva sollevato un fuoco di sbarramento e difficilmente, anzi quasi sicuramente, non sarebbe stato convertito se non fosse intervenuta la tragica vicenda di Borsellino, solo grazie all’onda emotiva di quel fatto quel decreto diventò legge».
Qualcuno le disse che era in corso una trattativa con la mafia?
«Sostanzialmente ero già fuori quando la cosa emerse. Martelli accennò a contatti e informative verso il 20 giugno, il governo si formò il 29, ma io ero già tagliato fuori e non ne seppi nulla».
Che idea si è fece sul ruolo del presidente Scalfaro?
«Non ho elementi, solo impressioni ma non fatti. Il problema a mio avviso era un altro: come mai dopo la strage di Capaci, dopo le resistenze emerse sul decreto 41- bis, nacque la necessità di cambiare il ministro dell’Interno? Il problema è tutto qui. Non penso che c’entrasse la trattativa, credo piuttosto che di fronte alle stragi occorresse abbassare i toni, attenuare la pressione. E questa è una delle opinioni che circolava».
Martelli ha riferito che fu Scalfaro a chiedere ad Amato di affidare il Viminale a Mancino. Le risulta?
«Non ho gli elementi per poterlo dire, so solo una cosa: nella formazione di un governo il ministro dell’Interno non è una pedina irrilevante, specie in un momento come quello. Era, perciò, un problema certamente di rilevanza sia per il presidente del Consiglio sia per il Capo dello Stato».
Lo Stato trattò con Cosa nostra?
«E’ l’autorità giudiziaria che deve rispondere a questo interrogativo, ci stanno lavorando, hanno tutti gli strumenti per farlo, e vedremo. Non sono in grado di poterle rispondere in modo corretto. Sul piano politico ci sarebbe molto da discutere su alcune scelte che furono fatte, come attenuare l’applicazione del 41-bis e bloccare il completamento degli ordinamenti, perché c’erano ancora tante cose da fare. Questo è un ragionamento politico, non ne faccio un discorso di responsabilità, non è mio compito».
E sulla vicenda delle telefonate tra Mancino e Napolitano?
«Credo che il Capo dello Stato si sia comportato correttamente, in modo istituzionalmente ineccepibile. Indubbiamente ci sono dei vuoti legislativi che vanno coperti, penso alle intercettazioni. C’è molta ambiguità e alla fine non vorrei che si desse ragione agli uni e agli altri perché manca una legislazione adeguata. Resta aperto un problema: perché nel nostro Paese si parla di queste anomalie solo dopo le emergenze e non con continuità?».
In molti affermano che non avete raccontato tutta la verità sui fatti del ’92. Sente il peso di questi sospetti?
«No. Credo di aver collaborato nel modo più aperto e responsabile e credo che anche la Commissione antimafia lo abbia costatato. Non ho segreti nei miei cassetti. Le risposte vanno date sulla base dei documenti e dei fatti. Credo che bisognerebbe ragionare sulla base delle carte che ci sono. Ho insistito molto in Commissione antimafia, invitandoli ad andare a vedere tutte le carte al ministero dell’Interno e a esaminarle attentamente. Forse oggi, in quei documenti, si trovano molte più risposte di quante se ne possa immaginare».
Al Viminale, che lei sappia, esistono carteggi ancora riservati su quella stagione?
«La commissione antimafia ha tutti i poteri e non avrebbe difficoltà a consultali».
di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 27 settembre 2012 - [pdf]