Dalla fine degli anni ‘70 a oggi, Franco/Carlo entra ed esce dalle storie di mafia così come coloro che erano certamente un gradino più sotto di lui, i manovali, le “facce da mostro”. Massimo Ciancimino nel corso dei suoi interrogatori ai pm siciliani, tra Palermo e Caltanissetta, che indagano su fronti diversificati, ma che tendono a intrecciarsi con una certa frequenza, racconta quanto “Franco” fosse vicino al padre in ogni momento e di come abbia seguito da vicino, dopo la scomparsa del sindaco mafioso di Palermo, passi importanti della sua stessa vita, fino al 2006. Massimo Ciancimino lo definisce un uomo che “tira i fili”, un puparo, l’unico in grado di intavolare una trattativa tra Stato e Cosa nostra perché, forse, aveva un piede su ognuna delle due sponde del fiume. Uno che con la stessa facilità entra ed esce dai palazzi più importanti del Paese. Che per comunicare passa tramite la “batteria” del Viminale, senza il timore di non essere ricevuto o ascoltato.
Sembra l’immagine del famigerato “grande vecchio”, che sta dietro a ogni mistero italiano che si rispetti. Così, mettendo assieme tutti quelli che il giornalista palermitano Salvo Palazzolo chiamerebbe “i pezzi mancanti”, sul mistero di “faccia da mostro” non è così difficile rendersi conto, a poco a poco, che il “mostro” ha fatto parte di una catena di comando molto complessa al vertice della quale c’era senz’altro il Signor Franco. Qualche gradino più in basso troviamo Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde finito in carcere e condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, e i suoi uomini più fidati, come il suo vice Lorenzo Narracci. Mentre “faccia da mostro” diviene, per usare un linguaggio caro agli esperti, una sorta di «riferimento territoriale di prossimità».
Un soggetto che conosce bene il territorio e chi lo abita, uno che parla la “lingua” giusta, uno che quando occorre si sporca le mani e torna, in punta di piedi, nell’ombra. Persone, luoghi e fatti. Ma, verosimilmente, potrebbe non essere stato organico alla struttura di intelligence nostrana. Semplicemente reclutato di volta in volta, per fare il lavoro sporco, assumendosi il rischio conseguente, in caso di fallimento, dell’abbandono da parte della struttura dalla quale ha accettato l’incarico. Un cane sciolto a busta paga del Sisde, uno che poteva essere bruciato in qualunque momento ma anche messo lì, come uno specchietto per le allodole, per depistare, per mischiare le carte. Nei mesi scorsi le procure di Palermo e Caltanissetta hanno rivolto dal Dipartimento per le informazioni e la sicurezza, che oggi è guidato dall’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, un’istanza di accesso ai documenti ufficiali relativi alle attività svolte in Sicilia, in particolare a Palermo, dal Sisde e dal Sismi, nel periodo delle stragi. Compreso l’organico degli 007 impiegati nelle operazioni.
Il Dis, a quanto risulta a Il Punto, ha prontamente risposto alle sollecitazioni congiunte delle due procure. «Ma - hanno spiegato gli investigatori - si tratta di una risposta completa da un punto di vista formale». Facile comprendere la diffidenza verso tanta efficienza burocratica. Se è vero, come è vero, che i Servizi di sicurezza hanno carta bianca nella scelta di collaboratori e consulenti individuati con modalità e tecniche “border line”, il fatto che gli stessi non compaiano in alcun elenco previsto dalla legge, è una naturale conseguenza. Massimo Ciancimino ha riferito di una “faccia da mostro” che con il padre Vito si occupavano di tenere saldo il controllo di alcuni settori strategici all’interno della burocrazia regionale. Ciancimino Jr. sostiene di avere riconosciuto, davanti ai magistrati di Caltanissetta, proprio quel funzionario del dipartimento regionale alla sanità, che - secondo più fonti - sarebbe passato a miglior vita.
Ma c’è una pista che porta in Calabria. Il mostro a libro paga del Sisde non poteva più esporsi perché l’aspetto, considerata l’impressione generata in chi incrociava il suo sguardo, non gli consentiva più l’operatività che, con le sue capacità, gli aveva permesso fino a quel momento di essere un utile strumento. Così, bruciato il fronte siciliano, quel biondo col viso sfigurato avrebbe deciso di trascorrere gli anni della sua vecchiaia nel continente. In Calabria. In un paesino collinare della provincia di Catanzaro. Ma anche questo resta un sospetto. A Palermo, davanti al pm Nino Di Matteo, Ciancimino avrebbe recentemente fornito ulteriori elementi per risalire all’identità del “Signor Franco”, ma non lo avrebbe riconosciuto in nessuna delle foto che gli sono state mostrate. Tuttavia tra quelle foto Ciancimino Jr. pare abbia individuato solo alcuni collaboratori dello 007.
In procura a Palermo, dove le bocche sono cucite, è difficile trovare qualcuno disposto a raccontare cosa è venuto fuori dai riscontri alle dichiarazioni che, lentamente, Massimo Ciancimino sta mettendo a verbale. Specialmente quando si parla di “barbefinte”. Concentrarsi solo sulle “facce da mostro”, dicono gli inquirenti palermitani, è fuorviante. È verso l’alto che la verità va ricercata, verso chi muoveva i fili e le pedine sullo scacchiere siciliano perché il rischio che la varie “facce da mostro” servono a sviare, a depistare, è altissimo. Secondo quanto è riuscito a ricostruire il Punto (vedi n. 10/2010 su www.ilpuntontc.it) una delle due “facce da mostro” sarebbe stato un sottufficiale della polizia di Stato, di origini siciliane. Per anni, almeno così pare, in servizio presso l’Ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno, alle dipendenze di Federico Umberto D’Amato (tessera P2 n. 554). Poi sarebbe transitato nella sezione “criminalità organizzata” del centro Sisde di Palermo, quella di via Notarbartolo (vedi box) diretta da Contrada e Narracci. “Faccia da mostro” sarebbe rimasto in servizio a Palermo fino al ‘96 e tutta la sua carriera si sarebbe svolta lì, poi la pensione e una collaborazione fino al ‘99. Scompare, a causa del tumore che nel frattempo gli ha aggredito il volto, nel 2004.
Parla di lui Luigi Ilardo, il mafioso, vice capo mandamento a Caltanissetta, cugino del boss Giuseppe “Piddu” Madonia, che nel ‘95 aveva messo sulle tracce di Bernardo Provenzano i carabinieri del Ros, poi la copertura saltò e fu ucciso. Ilardo disse che a Palermo c’era un agente segreto con la faccia da mostro che frequentava strani ambienti, un uomo dello Stato che stava dalla parte sbagliata. Nell’89 parla di lui una donna che, poco prima del ritrovamento di un ordigno vicino la villa di Giovanni Falcone, all’Addaura, lo notò da quelle parti.
Poi ci sono i delitti coperti dalla stessa ombra. L’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castellucci, avvenuto il 5 agosto ‘89 a Villagrazia di Carini. Agostino, segugio sulle tracce dei latitanti anche per conto dei Servizi, aveva saputo qualcosa che non doveva sull’Addaura. Il padre racconta che un giorno notò vicino l’abitazione del figlio due persone. Uno di questi era «biondo con la faccia butterata e per me era faccia di mostro». Una “faccia da mostro” c’è anche dietro l’omicidio dell’agente di polizia Emanuele Piazza, ucciso e sciolto nell’acido in uno scantinato di Capaci il 15 marzo ‘90. «La Dia, incaricata dalla procura, - scrive Salvo Palazzolo nel libro “I pezzi mancanti” (Editori Laterza, 2010) - individua un dipendente regionale, già interrogato dopo il delitto Piazza, perché il suo nome era contenuto nell’agendina della vittima. È affetto da “cisti lipomatosa” nella parte destra del viso, risulta deceduto nel 2002».
E ancora, secondo Ilardo, “faccia da mostro” sarebbe coinvolto nell’omicidio dell’11enne Claudio Domino, ucciso a Palermo il 7 ottobre ‘86 mentre stava rientrando a casa. Secondo gli inquirenti il bambino vide l’amante di sua madre, che era legato a un clan mafioso, e per questo fu giustiziato. «Quel giorno, dove fu assassinato il piccolo Claudio, c’era anche “faccia da mostro”», disse la “gola profonda” del Ros.
Un uomo del “signor Franco”. E’ il sospetto dei magistrati che indagano sul nuovo filone delle stragi e della presunta trattativa “Stato-mafia” di quegli anni. La caccia agli uomini che hanno “deviato” l’apparato di intelligence. Raccogliere le prove che possano inchiodare pupi e pupari di ogni grado. Un uomo dello Stato, con la potenza descritta da Ciancimino, non poteva di certo agire per conto proprio ed è forte il sospetto che a garantire “politicamente” certe operazioni non convenzionali non si muovesse solo un fronte interno, ma che a tirare il filo ci fosse una manina d’oltreoceano. A stelle e strisce. Del resto la storia racconta che quelli della “compagnia”, della Cia, erano in Sicilia già dal ‘43.
Tommaso Buscetta non voleva parlare del “terzo livello”, negli interrogatori con Giovanni Falcone, e così anche Massimo Ciancimino si ferma un attimo prima, quel nome non lo fa, fa finta di non ricordare o, forse, neanche lo conosce, dice solo che non era uno qualunque. «Vedi Massimo - gli disse Don Vito - Buscetta aveva paura di fare i nomi del “terzo livello”. Il Signor Franco rappresenta il quarto».
Il Punto - di Fabrizio Colarieti e Antonino Monteleone - 1 aprile 2010 [pdf]