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Storie maledette. Il caso Cervia

Velletri (Roma), 12 settembre 1990, ore 17. L’estate non sembra ancora voler fare le valigie per lasciare il posto all’autunno che comincia timidamente a far arrossire le chiome degli alberi. Quattro uomini, che indugiano sotto il balcone del civico ventotto della Contrada Colle dei Marmi, sembrano voler rubare al giorno le ultime forze prima del tramonto fino a quando un rombo lontano desta la loro attenzione. Una giornata qualunque invece per l’uomo che si appresta a tornare a casa sulla sua Volkswagen bianca che sta per svoltare l’angolo. Nell’aria immobile rimangono solo i quattro uomini che si schierano pronti a imprimersi in maniera indelebile in quella giornata mai andata a dormire, rimasta nella memoria collettiva.
L’uomo scende dall’auto immerso nei suoi pensieri, forse la moglie, o il figlio Daniele, che a soli quattro anni riesce a sciogliere un iceberg con i suoi occhioni teneri, Erika, la maggiore, curiosa come chi, a sei anni, si appresta a scoprire il mondo. Ma chissà, poi, se ha realmente il tempo di pensare un uomo nell’istante che separa un'azione tanto comune da un’aggressione, nel momento in cui viene picchiato, incappucciato e narcotizzato da quattro uomini che decidono del suo destino.
Se fosse una fiction, se questa storia la dovessimo raccontare per la tv, la prima scena, quella di apertura, la scriveremmo esattamente così: Davide Cervia si trova d’un tratto al centro di una scena di paura improvvisa nella via tranquilla di una giornata qualunque. Le sue urla chiedono aiuto oltre le mura, la via, oltre il silenzio che avvolgerà tutto. Perché è plausibile pensare che nella realtà le cose siano andate proprio in questo modo. Perché se Davide Cervia fosse il protagonista di questa fiction sarebbe scomparso così. Questa è la ricostruzione di un’azione che assomiglia tanto a una extraordinary rendition, una consegna straordinaria, un sequestro di persona, come quelli compiuti dalla Cia in giro per il mondo nel nome della lotta al terrorismo.
Questa è la storia maledetta di un uomo onesto e volenteroso, ex militare della Marina, “indispensabile”, per le capacità, a chi si interessava degli armamenti e delle sofisticate apparecchiature elettroniche per la difesa made in Italy, sopratutto nei mesi in cui le truppe di Saddam Hussein invadevano il Kuwait. Ed è anche il dramma di una donna, Marisa, moglie coraggiosa, che in un attimo s’è trovata, con la famiglia, a lottare, con in mano solo le armi dell’amore e della ricerca della verità, contro tutti. Questa è la storia di un mistero di Stato che inizia e viene inghiottita nel nulla di un mercoledì degli anni novanta.
Sono le cinque del pomeriggio, Davide ha appena finito di lavorare e si appresta a tornare a casa inconsapevole dell’appuntamento preso dal destino con i quattro uomini che da lì a poco lo aggrediranno. Nessuno spettatore o testimone di quell’azione violenta, la velocità con cui Davide viene avvicinato, bloccato e rinchiuso in auto impedisce di percepire le grida che il rapito riesce disperatamente ad emettere. Solo, a un certo punto, la voce innaturale di Davide cattura l’attenzione di un vicino, Mario C., un agricoltore intento ad annaffiare la siepe del suo podere in fondo alla via. E’ lui il primo dei due unici testimoni oculari delle fasi successive al sequestro.
Tre mesi dovranno passare prima di raccogliere il coraggio per raccontare agli inquirenti ciò che ha visto e sentito quel 12 settembre. Sta innaffiando le sue siepi, come ripeterà agli inquirenti, riconosce le urla di Cervia. Lo sente pronunciare, per almeno tre volte, il suo nome: «Mario… Mario… Mario…». Poi il silenzio seguito da una sgommata. Il testimone racconterà, prima ai familiari di Cervia poi ai carabinieri, di aver visto due auto, di cui una Volkswagen Golf di colore chiaro simile a quella di Cervia, che si allontanano spedite verso via Appia Nuova. L’agricoltore, oggi deceduto, racconta di avere avuto la sensazione che dentro l’auto ci fosse proprio il suo vicino di casa di cui ha riconosciuto la voce, alta e concitata.
Dentro quell’auto c’era Davide Cervia? Perché lo hanno rapito?
Un’azione di questo tipo, necessita, oltre che di un commando di uomini ben addestrati, anche di lunghi pedinamenti, osservazioni e rilievi fotografici. È necessaria un’ottima conoscenza del territorio e una consistente capacità operativa. Chi ha agito sicuramente conosceva ogni spostamento di Davide, lo studiava da mesi, lo pedinava a distanza, lo seguiva in ogni suo movimento. Quel commando era diventato la sua ombra. Solo in questo modo, solo conoscendo tante informazioni, un’azione può risultare perfetta, come quella portata a termine sotto casa di Cervia, e questo porta anche a pensare che tanta solerzia ed efficienza siano motivate solo da uno scopo molto importante.
E così, come se questa vicenda fosse un copione scritto per il piccolo schermo, durante il moto scoordinato, lento delle indagini, il 20 gennaio del 1991 “Chi l’ha visto?” sposta le telecamere e l’attenzione sul caso Cervia. Il contributo della popolare trasmissione della terza rete Rai, è per certi versi prezioso per le investigazioni che arrancano nelle sabbie mobili. Numerose chiamate e lettere anonime, più o meno attendibili, invadono la redazione e riuscendo, nel corso di molte puntate, a far emergere elementi mancanti per mettere ordine in fatti apparentemente incongruenti.
A febbraio un ulteriore apporto alle indagini è dato dalla voce di un telespettatore, Alfio G., autista delle autolinee Acotral (oggi Cotral), il secondo testimone oculare di quel giallo intricato. Egli racconta in diretta telefonica che quel 12 settembre era alla guida del pullman sulla tratta Torvajanica-Velletri e proprio nel punto in cui Contrada Colle dei Marmi incontra via Appia Nuova, fu costretto a frenare bruscamente perché una Volkswagen Golf bianca con alla guida un giovane dalla carnagione chiara e con i baffi, gli negava la precedenza. L’auto è seguita, a brevissima distanza, da un’altra Golf verde scuro, con a bordo almeno tre persone. Sui sedili posteriori, dirà poi l’autista del pullman anche agli inquirenti, uno era seduto in maniera tale da dare le spalle al finestrino del veicolo, come a voler nascondere qualcosa o qualcuno. Superato l’incrocio, le due auto, si immettono a forte velocità sull’Appia Nuova in direzione Genzano-Roma, prima di scomparire nel nulla. Se uno degli uomini seduti in quell’auto è davvero Cervia, l’autista è l’ultima persona ad averlo visto. Le dichiarazioni di Alfio G. risultano attendibili quanto quelle dell’agricoltore, e saranno loro ad aggiudicarsi il primato di unici testimoni oculari.
Nelle ore successive alla scomparsa dell’uomo, la famiglia considera l’incidente stradale come unica spiegazione plausibile dell’assenza di Davide. L’auto non è parcheggiata al solito posto e anche Marisa, da quando quella mattina ha salutato sulla porta suo marito Davide, non l’ha più vista. Che fine ha fatto la Volkswagen Golf bianca di Davide Cervia? Dalle testimonianze di Mario C. e Alfio G. è una delle due auto allontanatesi da casa Cervia e diventa il secondo mistero tessuto sul giallo del sequestro. Anche in questa occasione risulterà determinante l’apporto investigativo di “Chi l’ha visto?”. Proprio la conduttrice, Donatella Raffai, il 1° marzo, avverte la famiglia di Cervia che, grazie a una lettera anonima appena giunta in redazione, sono riusciti a trovare l’auto di Davide. La Volkswagen Golf bianca è parcheggiata all’altezza del civico centootto di via Marsala, a due passi dalla stazione Termini al centro di Roma.

Ecco alcuni passaggi della lettera inviata alla Rai:

Il giorno 12 settembre 1990 arrivava alla stazione Termini un mio vecchio amico di Firenze con il quale avevo un appuntamento la stessa sera, questa data mi è stata successivamente confermata dallo stesso. Trovare un parcheggio libero intorno alla stazione è un’impresa impossibile, così feci un giro e imboccata via Marsala, non mi sfuggirono dei posti liberi. Erano circa le 19 quando parcheggiai la mia Mercedes. Mentre mi apprestavo a scendere dalla macchina non potevo fare a meno di notare con quanta velocità una Golf bianca parcheggiava vicino alla mia automobile. Nello scendere dalla macchina, il conducente un poco magro e con i capelli chiari, e unico passeggero, urtava lo sportello sul fianco della mia Mercedes. dall’interno lo invitavo a fare attenzione ma, con aria strafottente e un gesto che era tutta una risposta, si allontanò velocemente verso il cavalcavia della stazione. Per lunghi periodi spesso il lavoro mi allontana da Roma e proprio in una di queste occasioni, a Milano, ho pensato spesso al caso Cervia - che ho seguito sin dall’inizio - e a quella Golf bianca. Rientrato a Roma sentivo la necessità di verificare se quell’auto in via Marsala avesse a che fare, in qualche modo, con quella vicenda. Con mio grande stupore l’auto era parcheggiata ancora nello stesso punto e la targa, corrispondeva a quella che avevo appuntato seguendo la vostra trasmissione. Per motivi di sicurezza personale ho preferito mantenere l’anonimato sull’indirizzo e l’identità.

Gli inquirenti sollevano dubbi sul mezzo impiegato per la segnalazione - perché non una semplice telefonata anonima da una cabina pubblica? - ma sulla base dei dettagli emersi dalla lettera, il traffico romano di via Marsala viene bloccato per le analisi indispensabili all’acquisizione di nuovi elementi di indagine. Regolarmente chiusa e parcheggiata da quasi sei mesi sotto gli occhi dei passanti, la macchina di Davide Cervia sembra avere tutto in perfetto ordine. Se non fosse per la polvere sembrerebbe che il tempo là dentro non sia passato, perfino l’autoradio è al suo posto. Strano però che la scena del ritrovamento venga alterata e inquinata dall’inesperienza o forse dal pressappochismo degli addetti ai lavori. In questi casi particolari, infatti, l’iter di ritrovamento presuppone che i primi a mettere le mani sulle prove siano gli esperti della polizia scientifica, perché compiano tutte le analisi e gli approfondimenti su ogni piccolo particolare. In questa occasione invece, i primi ad arrivare sono gli artificieri che con esibizione di perizia per la piccola platea di curiosi, scongiurano la presenza di un ordigno all’interno del baule, demolendo la parte posteriore dell’auto. La scena, ancora calda di fiamme e punti di vista, viene poi lasciata ai vigili del fuoco che, per non essere da meno, danno il loro meglio in una performance di eliminazione minuziosa di tracce e indizi. Curioso che nessuno abbia pensato a rispettare la sequenza ordinaria degli interventi, laddove anche un inesperto, in quella situazione, avrebbe avuto l’intuizione di ricercare, quantomeno, delle impronte papillari. Stando alle ultime testimonianze, infatti, alla guida della golf di Cervia, è un uomo dai capelli chiari. Chiunque guidi un’auto per circa quaranta chilometri, la distanza che separa Velletri da via Marsala, lascia indizi preziosi per il lavoro della scientifica: oltre alle scontate ma fondamentali impronte, anche una traccia di Dna. Tutti elementi che gli esperti avrebbero potuto analizzare per portare avanti le indagini, tutto irrimediabilmente cancellato con azioni che rimbombano ancora oggi appaiono irresponsabili e imperdonabili.
Ecco allora che comincia a farsi avanti l'ipotesi che non si voglia trovare la soluzione a un altro intricato mistero italiano che si delinea simile a tanti altri, nei quali l'occultamento di prove e informazioni è favorito proprio dalle figure deputate alla ricerca della verità. Sembra infatti che la polizia fosse a conoscenza della Golf da tempo ferma in via Marsala, almeno un mese prima dell’arrivo della lettera anonima. Stando alle rivelazioni seguite alle immagini del ritrovamento mandate in onda a “Chi l’ha visto?”, la macchina parcheggiata davanti alle vetrine dell’ufficio postale, era già stata fotografata da alcuni agenti perché ritenuta sospetta. Il servizio fotografico viene ricordato anche dagli impiegati dello stesso ufficio che confermano anche le voci anonime giunte in trasmissione: la Golf era lì da tempo, e la polizia ne era a conoscenza prima del ritrovamento ufficiale. Se questo è vero, perché la Polizia non ha comunicato tempestivamente di aver ritrovato in via Marsala l’auto di Cervia? E poi, perché oltre alle fotografie non si è seguita anche la normale prassi di accertamento della proprietà attraverso il numero di targa della vettura?
Per cercare di capire è indispensabile scavare il passato e ricostruire l’identità di Davide Cervia. Nato a Sanremo nel 1959, nel settembre ‘78 si arruola come volontario in Marina da cui, rinunciando ai ruoli permanenti, si congeda col grado di sergente, nella classe ’83. Un anno di cambiamenti, il 1983 segna il percorso di una nuova vita al fianco di una donna, Marisa, che di lì a poco diventerà sua moglie. Durante la leva volontaria, Davide frequenta fino all’agosto 1980 il corso biennale di tecnico elettronico alla Scuola della Marina di Taranto. Il mese dopo viene trasferito a La Spezia e imbarcato sulla nave officina Moc 1204. Dalle stesse officine, parteciperà successivamente all’allestimento della nave Maestrale. Le eccellenti capacità nel campo dell’elettronica diventano il suo elemento distintivo: terminato con ottime valutazioni l’iter d’addestramento, con la qualifica di addetto Elt/Ete/Ge (tecnico specializzato nella cosiddetta “guerra elettronica”), Cervia viene assegnato alla manutenzione e utilizzo di sofisticate apparecchiature radar e sistemi di intercettazione, inganno e disturbo delle emissioni radio nemiche. In Marina sono in pochi a poter raggiungere certi livelli e Davide è uno dei più bravi nel suo campo tanto che, al termine della missione nel gennaio 1984, sulla scheda valutativa compilata dal comando della nave Maestrale, le sue qualità e la sua preparazione tecnico-professionale vengono definite “superiori alla media” con questo giudizio complessivo:

Trattasi di sottoufficiale di ottime qualità generali che ha contribuito in maniera fattiva alla esecuzione delle manutenzioni preventive e correttive sugli apparati GE, facendosi apprezzare per l’elevata preparazione professionale, l’interesse e la dedizione al servizio.

 Tutte queste qualifiche e informazioni sono fondamentali, non solo per rintracciare uno dei possibili motivi per la sua scomparsa, ma soprattutto per non cadere nella trappola di chi ha tentato di sminuirne capacità e importanza pur di non cercare risposte. Il sottufficiale è, un esperto di guerra elettronica, specializzato cioè nell’impiego di vari sistemi d'arma, di ultima generazione, in grado di impedire al nemico l'uso dello spettro elettromagnetico, cioè delle onde radio nella GE (guerra elettronica). Con il rilascio di un apposito nulla osta di sicurezza, (Nos Segreto/Nato) Cervia, ha la possibilità di accedere a documenti classificati, anche per conto di alcune aziende italiane specializzate nella progettazione di apparecchiature per scopi militari, in particolare la Elettronica Spa di Roma e la Sma di Firenze, sue committenti abituali.

È abilitato - scriverà lo Stato Maggiore della Marina nel 1991 - all’uso di sottosistemi di guerra elettronica installati sulle fregate della Marina. Tutte apparecchiature il cui funzionamento è classificato “riservatissimo”.

Dal polveroso fascicolo che raccoglie questa storia, qualcosa di strano sembra insinuarsi tra le pagine, fino a far emergere un particolare da non sottovalutare. Siamo a cinque giorni dalla scomparsa di Davide, il tempo, immerso in un silenzio innaturale rotto solo dal suono tanto atteso del telefono di casa Cervia. Sono momenti difficili per Marisa, in cui un’inimmaginabile apprensione si mescola alla speranza, la risucchia nel vortice dei pensieri per capire cos’è accaduto, per rendersi conto di essere sveglia anche se dentro un incubo, mentre prova a soffocare il dolore cercando risposte. Proprio in uno di questi momenti di ricerca della verità, un ricordo, per la prima volta, appare netto nella mente di Marisa: nei due giorni precedenti la scomparsa di Davide, la donna rammenta dei movimenti sospetti lungo il viale privato che porta al cancello di casa. L’immagine è tanto nitida da risultare utile a tracciare un identikit.
E’ il 10 settembre, Marisa vede una Fiat 131 blu, con a bordo due persone di età media, uno era moro e aveva le basette marcate. Solerti, i ricordi continuano ad affiorare e fino al giorno successivo, martedì 11, quando è una Fiat Uno scura in sosta lungo il viale, con due giovani a bordo. Ricorda di aver chiesto loro cosa stessero facendo lì fuori e che uno di loro, un po’ seccato, le aveva risposto di star effettuando un censimento sui vigneti del luogo, commissionato dal ministero dell’Agricoltura. Marisa traccerà i primi contorni dei due sedicenti censori ai carabinieri: venticinquenne circa il conducente, alto 1 e 65, 1 e 68 al massimo, capelli lisci castani chiari tagliati a caschetto, con gli occhiali. L’altro più alto di circa dieci centimetri, capelli corti e biondi, è più esile del suo compare. Entrambi parlano l’italiano. Marisa ricorda di aver notato quegli stessi movimenti anche mercoledì 12 settembre, sempre prima delle sedici. Questa volta si tratta di una Fiat Ritmo grigio chiaro, ma sull’autista non sa aggiungere altro perché, non appena accortosi della sua presenza si era allontanato dopo averle fatto un cenno. Un’ora dopo, proprio lungo quel vialetto, a un passo dalla porta di casa, Davide verrà rapito. Marisa dirà agli inquirenti che prima di allora, nessuno aveva sostato in quel modo e così a lungo sotto la loro abitazione.
Cervia lascia la Marina nel 1984 con il grado di sergente dopo aver calcato sul curriculum la sua alta formazione quinquennale e che rivende agli anni Ottanta-Novanta, quando la discussa industria militare italiana vantava commesse da tutto il mondo. Dal pubblico al privato fa presto a trovare lavoro alla Enertecnel Sud, una società che produce componenti elettronici ad Ariccia, il comune dell’hinterland romano a mezz’ora da Velletri dove Cervia si è trasferito con la famiglia dopo le nozze.
Chi lo ha rapito è interessato al suo know-how e alle doti tecnico-militari acquisite in Marina e nelle aziende della cosiddetta Tiburtina Valley. Lui è la “chiave di volta” di un sistema altrimenti indecifrabile come ad esempio quello impiegato nella guerra elettronica.
Marisa il giorno successivo al rapimento, denuncia la scomparsa del marito e oggi attende ancora il perché di quel “furto” al cuore della sua famiglia. Le indagini stentano a partire, i carabinieri brancolano nel buio per settimane: la procura di Velletri non sa da che parte cominciare perché non ha mezzi e uomini a sufficienza per affrontare un’inchiesta del genere.
C’è voluto tutto il coraggio, la tenacia e l’ostinazione di Marisa e della sua famiglia, in particolare del padre Alberto, perché qualcuno scrivesse, nero su bianco, che Davide Cervia fu vittima di un sequestro, ma questo è avvenuto solo troppi anni dopo. L’ha scritto l’allora sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Luciano Infelisi, chiedendo nel novembre del 1999 l’archiviazione dell’unica indagine che sia giunta a conclusione, pur non facendo piena luce sul caso, “perché ignoti gli autori del reato”.
All’ostinazione e alla tenacia, indispensabili ma non sufficienti, è necessario affiancare l’intuizione giusta e un bravo avvocato che come prima mossa chieda alla Procura generale di avocare l’indagine avviata dalla procura di Velletri, e di questo si occupa il penalista Nino Marazzita. La piccola procura di Velletri, per sua stessa ammissione, non riesce ad esercitare l’azione penale “per carenza di organico” e per questo l’indagine, relegata in un piccolo fascicolo, non arriverà neanche alla richiesta di archiviazione da parte del sostituto procuratore, Romano Miola. Troppo tempo è trascorso prima di arrivare, con ragionevole certezza, alla conclusione che l’ex sottufficiale era stato rapito. E come ogni mistero che si rispetti, dietro ai “si poteva fare molto” è mancata la volontà di agire, soprattutto nelle primissime ore.
Il silenzio, l'omertà e le infiltrazioni nella vicenda, hanno sollecitato chi sapeva a non dire e, in presenza di testimoni e di gravi indizi, suggerito la superficialità, derubricando, come si dice in gergo giudiziario, un sequestro di persona in una fuga d’amore o, peggio ancora, in un suicidio.
Secondo il procuratore Luciano Infelisi, Cervia non aveva motivo di allontanarsi volontariamente dalla sua abitazione, né di togliersi la vita. Le indagini poi, hanno appurato che quel pomeriggio Davide era tornato a casa perché aveva appuntamento con i tecnici dell’Enel per dei lavori e, che per la mattina successiva, aveva chiesto a un suo collega di portargli le uova fresche per suoi bambini.
Dalle indagini emergerà un quadro caratteriale di Davide contraddistinto dalla serenità nei rapporti con gli altri, dall’attaccamento verso la sua famiglia, con particolare riguardo ai figli e al loro futuro, ma anche dall'interesse nei confronti di una carriera in espansione.
Le stesse caratteristiche risulteranno anche scandagliando l’ambiente di lavoro, alla Enertecnel Sud, dove Davide era capo reparto. I colleghi concordano sulla personalità dell’ex sottufficiale descrivendolo come un soggetto dal carattere cordiale, gradevole e che, seppur molto scrupoloso sul piano professionale, riusciva a esplicitare doti umane apprezzate da tutti.
Ad aiutare la verità sono in pochi ma i canali utilizzati a volte possono trasformare le richieste in grida. Qualcuno contatta apertamente “Chi l’ha visto?”, altri direttamente la famiglia con la convinzione che dietro il destino di Cervia ci sia la Marina e le maledette armi elettroniche che lui conosceva e sapeva maneggiare. A togliere il velo al mutismo anche Lucio P., esperto in guerra elettronica e compagno di corso di Davide a Taranto. Lucio conferma, per esperienza personale, l’appetibilità sul mercato della loro specializzazione. Ad esempio degli sconosciuti sono arrivati ad offrirgli diecimila dollari al mese, per recarsi in Medio Oriente, a lavorare con apparecchiature che lui conosce. Lucio racconta, di aver subito per anni pressioni e altri pesanti tentativi intimidatori, dalla manomissione dell’auto, ai colpi di fucile sparati contro le finestre di casa e dal 1985 al 1990 verrà più volte avvicinato da strani emissari. Ma anche di fronte a questa testimonianza, assai attendibile, nulla cambia.
Anche le indagini del procuratore Infelisi vanno avanti a fatica, gli uomini della Digos di Roma, a cui sono delegate, arrivano sempre un attimo dopo i riscontri già compiuti dai tanti giornalisti che si occupano del caso. Tra questi c’è Gianluca Cicinelli che dedicherà, insieme a Laura Rosati, un libro alla vicenda Cervia e affiancherà in questa difficile battaglia i familiari costituendo anche un Comitato per la verità.
L’amaro in bocca si fa più acre quando, leggendo le settantasei pagine della requisitoria del procuratore generale, si scopre che la Tim (l’unico operatore di telefonia mobile a coprire la zona) non ha fornito agli inquirenti la copia del traffico radiomobile registrato, dal 9 al 12 settembre, nella zona compresa tra Velletri, Colle dei Marmi e Cecchina. Viene spiegato che per motivi tecnici i dati delle celle interessate erano disponibili, al momento della richiesta, ma solo a partire dal 1994. Peccato. Perché proprio analizzando quel traffico si sarebbe potuto, come è avvenuto in centinaia di indagini di questo tipo, individuare i telefoni cellulari, all’epoca poco diffusi, attivi nelle ore di interesse.
Ci sono i due testimoni oculari a ricostruire quanto accadde quel giorno a Velletri. Le loro deposizioni sono risultate attendibili e avvalorano, secondo lo stesso Infelisi, l’ipotesi del sequestro di persona, anche considerando le minacce anonime che i due subiranno nei mesi successivi. Ma non basta, serve la volontà di scavare, di andare oltre, saltare i muri del silenzio e schivare le trappole che, in questa storia, non sono mancate. Il disinteresse di gran parte degli attori ancora oggi, infatti, non ci permette di conoscere la verità e Marisa aspetta ancora sull’uscio di casa il suo Davide, in un’attesa che non ammette l’ipotesi della morte.
La Marina non s’impegna a collaborare né a cercare Cervia e, dal suo Stato Maggiore le rassicurazioni sembrano avere sapore di depistaggio, negando anche l’evidenza e ostacolando il corso dell’inchiesta. Leggendo dentro quelle carte incontriamo gli atteggiamenti evasivi e reticenti che, da sempre, hanno contraddistinto in negativo i vertici dell’Aeronautica, come nell’affaire Ustica. Allo stesso modo, infatti, anche in questa storia ci si imbatte in un silenzio immobile e ingiusto. Sul banco degli imputati finisce un solo ufficiale: l’ammiraglio Giorgio Sprovieri, responsabile dell’ufficio del Personale presso lo Stato Maggiore della Marina, con l’accusa di falso ideologico per aver fornito, in quattro occasioni, versioni diverse del foglio matricolare di Cervia, dove, tra l’altro, viene omessa dalla Marina la reale specializzazione conseguita dall’ex militare sulla guerra elettronica. Manomissione piuttosto grave, dal momento che non solo priva le indagini di un importante elemento relativo alle reali (e appetibili) mansioni ricoperte da Cervia negli anni di servizio in Marina, ma che soprattutto vizia l’aria di depistaggio. Il foglio matricolare, nella sua versione completa, giungerà nelle mani dei familiari di Cervia solo il 14 settembre 1994, cioè tre anni dopo la prima richiesta, che risale al 1991, quando proprio Sprovieri trasmise il primo rapporto incompleto sulla carriera di Cervia.
A sette anni dalla scomparsa di Davide, una telefonata rompe il silenzio in casa Cervia, un solo trillo nel cuore della notte, capace di riaccendere in un attimo, le speranze che l'ex marinaio possa essere ancora vivo. Marisa sembra ormai essere assuefatta: di telefonate mute, infatti, ne ha ricevute moltissime dal giorno successivo al rapimento di suo marito: tutte uguali, tutte insignificanti come le numerose lettere anonime. Questa però è diversa e Marisa non la dimenticherà mai. Mentre sale le scale nel suo appartamento per andare a prendere il telefono al piano di sopra, ha come un presentimento: è tardi, è da poco passata la mezzanotte e il telefono che squilla stavolta non è come sempre il fisso, ma il cellulare, di cui pochi conoscono il numero. Marisa risponde e sente una gran confusione rotta da una voce, che le fa urlare il nome di suo marito. Marisa non ha dubbi, è la voce di Davide, non importa quanto tempo è passato, lei la riconoscerebbe tra milioni. Suo marito sta parlando con altre persone, in italiano, sono diversi uomini e almeno una donna, parlano di questioni tecniche ma dalla voce di Davide non si percepisce tensione nell’ambiente. Marisa grida al telefono, tenta in tutti i modi di farsi sentire, ma può solo ascoltare perché dall’altro capo nessuno risponde, potrebbe anche essere una registrazione. Prima che la linea cada, riesce solo a far sentire quella voce a sua madre che la riconosce come quella di suo genero. Poi la telefonata viene interrotta e il silenzio ripiomba ancora più pesante. Marisa non lo dirà a nessuno, neanche agli inquirenti per timore di non essere creduta e tutti apprenderanno questa circostanza molti anni dopo, nel 2008, dalle pagine del libro “A.A.A. vendesi esperto di guerre elettroniche” che il giornalista Valentino Maimone dedica al caso Cervia.
La storia di Davide Cervia, come tanti altri casi in cui lo Stato si è trovato a interrogarsi, viene scandita dal ritmo di inquinamenti, omissioni, depistaggi e colpevoli silenzi che non hanno permesso alla magistratura di raggiungere alcun obiettivo, se non quello di lasciare aperto il caso. È inquietante come la Marina militare abbia trattato il caso Cervia e come sia arrivata, in alcuni casi, anche a smentire se stessa nel comunicare agli inquirenti le reali mansioni dell’ex sottufficiale, quasi a voler nascondere le sue capacità, o coprire quella “debolezza” che lo ha reso appetibile sul mercato. Un segreto è tale, anche davanti alla morte, in ambienti militari, si sa è così. Inquieta l’inerzia incontrata dentro quei palazzi dove i familiari di Cervia e gli inquirenti hanno tentato di trovare delle risposte, arrivando fin dentro la stanza di un ministro della Difesa. Allarmano i contenuti delle lettere anonime giunte in questi anni alla famiglia Cervia, che in alcuni casi sembrano avvalorare la tesi secondo cui l’uomo sarebbe stato rapito da agenti segreti di una potenza straniera per sfruttare la sua specializzazione. Da altre fonti si apprende che il sottufficiale avrebbe perso la vita il 4 febbraio 1991 in un centro radar a nord di Bassora (Iraq) colpito da un missile tattico; successivamente viene segnalato insieme ad altri esperti italiani, in una struttura dell’intelligence irachena a Zawra Park, sulle rive del Tigri, bombardata dagli americani nel luglio del 1993. Nel 1994 una lettera anonima tira in ballo l’Arabia Saudita e un’altra la Libia, affermando che Davide è vivo ma prigioniero di Gheddafi, in mezzo al deserto, in una zona che si trova tra le città di Socna e Sebha, dove due persone lo avrebbero riconosciuto a bordo di un tir, vestito con una mimetica. Due anni dopo altre lettere anonime affermano che Cervia sarebbe ancora vivo in una base sotterranea segreta in Iraq, a centodieci chilometri da Baghdad, ma l'Ambasciata irachena presso la Santa Sede smentirà questa fonte. Anche i servizi ricevono segnalazioni, due in particolare. La prima, dell’8 marzo 1993, secondo cui Cervia è a Kirkuk, in Iraq ai confini con l’Iran in territorio curdo, in uno stabilimento militare. La seconda arriva da Praga, undici giorni dopo, dove una “fonte” siriana soffia al Sismi che Davide è stato rapito da membri dell’organizzazione Abu Nidal e condotto in Libia. Ma le piste sembrano non fermarsi tanto da coinvolgere anche la Francia e le rotte dell’Air France. Dall’archivio della compagnia aerea, tra il 6 e il 9 gennaio 1991, cioè circa cinque mesi dopo la scomparsa, emerge un tal “monsieur Cervia”, tra i passeggeri di un volo Parigi-Il Cairo, rotta Jeddah, Aden, Sana’a. Secondo gli accertamenti compiuti da Air France, Cervia avrebbe usufruito di biglietti emessi su richiesta del ministero degli Affari pubblici francese. Ma perché la compagnia francese, pur essendo a conoscenza di tali informazioni non ritiene opportuno comunicarle subito alla famiglia? Solo dopo l’interessamento della direzione generale italiana, infatti, due funzionari riusciranno a ottenere la documentazione e a farla avere, tramite il giornalista Gianluca Cicinelli, sia alla famiglia che alla Criminalpol di Roma. Una seconda verifica nella banca dati parigina dell’Air France rivela che l’8 aprile 1991, a bordo di un aereo in servizio sulla tratta Barcellona-Parigi era presente una donna di nome “Cervia”. Nel 1991 la securitè della compagnia ha chiarito, che il monsieur Cervia del volo Parigi-Il Cairo è un militare di origine corsa. L’evidente mancanza di entusiasmo nella collaborazione di Air France alle indagini spinge la Digos, a mettere i francesi alle strette. L’interrogatorio dei vertici italiani permette di acquisire nuovo materiale: nella sede di Roma viene rinvenuta una cartellina, titolata “Caso Cervia”, contenente alcuni documenti e la corrispondenza tra la compagnia e le autorità italiane. I funzionari, pur confermando agli inquirenti che da un primo accertamento compiuto nel febbraio 1991 era effettivamente emersa la presenza di un monsieur Cervia su un volo Air France, non forniranno però ulteriori elementi. Proprio tra i documenti sequestrati nella sede romana della compagnia però, gli inquirenti trovano delle incongruenze, come l’inspiegabile mancanza di informazioni sul biglietto emesso a nome Cervia, pur dopo la ricerca del 1991 nella banca dati dei viaggiatori. La procura, a questo punto chiederà la collaborazione dell’Interpol e del Sismi. Attivatisi dopo un’interrogazione parlamentare per la verifica dell’esistenza di un militare corso di nome Cervia, i due bureau compiranno accertamenti presso la Gendarmeria francese e la Direction du Reinseignement Militaire, da cui emergerà l’assoluta inesistenza del militare corso di nome Cervia. Ignoti restano comunque i motivi delle tre differenti versioni fornite da Air France ai magistrati italiani: un tal Cervia sul volo Parigi-Il Cairo, una donna di nome Cervia, da Barcellona a Parigi, uno sconosciuto militare corso, con lo stesso nome, in volo da Parigi al Cairo. A spese del governo poi.
La Guerra nel Golfo scoppia appena un mese prima della scomparsa di Cervia. All’inizio degli anni Novanta le cronache raccontano delle truppe di Saddam Hussein che invadono il Kuwait, ma anche di traffici internazionali di armamenti e apparecchiature elettroniche destinate alla Difesa. Parlano anche di importanti società italiane (Fincantieri, Oto Melara, Aeritalia, Selenia, Elettronica, Sma e Meteor) in commercio con il Medio Oriente e con il Nord Africa e di esperti italiani “noleggiati” alla Libia di Gheddafi, all’Iraq di Saddam e all’Iran di Khomeyni per addestrare militari all’uso delle apparecchiature made in Tiburtina Valley. Ma il nostro hardware, lo stesso su cui Cervia si era fatto le ossa in Marina, come il sistema missilistico antinave Otomat-Teseo, finiva anche in Egitto, India, Indonesia, Venezuela, Perù, Ecuador, Malesia, Nigeria, Marocco e Thailandia. In buona sostanza da questo quadro emerge che a quell’epoca erano molti i Paesi e le organizzazioni, più o meno clandestine, interessate a ottenere a ogni costo, i migliori specialisti del settore.
Anche i nostri Servizi, in particolare il Sismi, si interessano alla tesi secondo cui Cervia fu rapito per interessi legati alla sua competenza professionale. Tanto che nel 1993 per occuparsi del caso, viene istituito un apposito gruppo di lavoro su iniziativa della Presidenza della Repubblica, di cui fanno parte specialisti in antiterrorismo e controspionaggio del Sismi. Secondo il servizio segreto militare, in un appunto di quattro pagine, inizialmente classificato “Riservatissimo” e successivamente “Riservato”, le ipotesi di lavoro sono due:

una fuga volontaria, variamente determinata da motivi quali una crisi coniugale, un sopravvenuto innamoramento, una disavventura economica, il desiderio di ricostruirsi una vita diversa lontano dall’ambiente di origine;

un sequestro di persona, operato da non meglio identificate organizzazioni straniere (ricorrono i nomi della Libia, dell’Iran, dell’Iraq e anche d’Israele), con la eventuale complicità di organismi italiani. La motivazione sarebbe la presunta specializzazione del Cervia nel campo della Guerra Elettronica (GE), indispensabile nell’imminenza della Guerra del Golfo e al fine della manutenzione e dell’impiego dei sistemi d’arma asseritamene venduti dall’Italia ad alcuni di quei Paesi.

Il documento del Sismi è molto interessante, denota certamente un lavoro di ricerca e di analisi certosino. E pensare che questo lavoro è stato compiuto senza accedere a documentazione segreta ma semplicemente rileggendo i giornali, ascoltando qua e là e rispolverando la memoria. A favore della prima ipotesi secondo il Sismi deporrebbero due elementi. Una nota informativa del Sios/M, secondo la quale il Cervia era solo un “tecnico manutentore” e non possedeva cognizioni ed informazioni meritevoli di attirare l’attenzione di organizzazioni estere. Inoltre nella risposta del Governo italiano ad alcune interrogazioni parlamentari sulla vicenda, si dichiara che l’Italia non ha mai esportato verso Paesi mediorientali apparecchiature analoghe a quelle su cui il Cervia si era addestrato. Un caso unico, in cui il servizio informazioni della Marina, il Sios/M e lo stesso Stato Maggiore della Marina, riescono in poche righe non solo a negare l’evidenza ma anche a smentirsi. Infatti, al Sismi i cugini del Sios raccontano almeno un paio di frottole colossali: solo a fatica e dopo aver cambiato più volte versione, lo Stato Maggiore della Marina ammette che un militare specializzato in Guerra Elettronica (GE) non è solo un “tecnico manutentore” ma un operatore specializzato. Ma lo stesso Sismi sottolinea come il Sios/M, nel profilo professionale di Cervia, avesse omesso la dicitura GE. Un dettaglio di scarso valore? E poi il fatto che Cervia non “possedeva cognizioni ed informazioni meritevoli di attirare l’attenzione di organizzazioni estere” non è forse, un po’ contraddittorio con il fatto che fosse dotato dello specifico nulla osta di sicurezza, il Nos, che gli stessi servizi rilasciano solo al personale che potrebbe entrare in contatto con notizie sensibili o documenti classificati? Tra l’altro il Nos concesso a Cervia era di classe “Segreto-Nato”, quindi di maggiore delicatezza. Il Sios della Marina, a quanto pare, si è affrettato a demolire l’immagine di un militare che, invece, avrebbe dovuto tutelare, indicando notizie false con l’evidente fine di depistare chi legge i suoi appunti. Il secondo elemento che il Sismi colloca a sostegno della fuga d’amore, è l’affermazione di un sedicente amico di Cervia, Giuseppe C., secondo cui l’ex sottufficiale avrebbe confessato, nel corso di un incontro avvenuto nel 1987, di avere problemi coniugali e di aver ricevuto proposte di lavoro all’estero. Ma la moglie di Cervia non conosce Giuseppe C., non ha mai sentito parlare di lui, né suo marito avrebbe mai accennato a questa persona. È anche lui un agente segreto? Per conto di chi? L’ultima bugia, forse la più grande contenuta tra le righe di questo appunto, è quella legata al fatto che l’Italia, per gli 007 di Forte Braschi a cui è demandata la vigilanza su questo tipo di commerci, “non ha mai esportato verso Paesi mediorientali apparecchiature analoghe a quelle su cui il Cervia si era addestrato”. Sappiamo tuttavia che le nostre aziende specializzate in questo genere di armamenti e tecnologie, quelle di via Tiburtina per intenderci, hanno fatto per anni grandi affari con una lunga lista di Paesi non proprio amici né, tantomeno, alleati. Tutto questo con il benestare dei vari governi e il nulla osta, assai discutibile, dello stesso Servizio segreto militare. E di questo esistono le prove. In quegli anni, il Sismi, di certo non poteva essere smentito da chiunque ma se questo suo appunto fosse stato redatto oggi, anche un semplice cittadino, spendendo un po’ di tempo in Internet, avrebbe potuto facilmente trovare traccia di questi commerci, ad esempio leggendo le interrogazioni parlamentari, o anche i vari curriculum vitae dei dirigenti e profili delle aziende che si vantano, ancora oggi, di aver portato a termine contratti miliardari per commesse di questo tipo. A sostegno della seconda ipotesi, scrive sempre il Sismi, quella che vede Cervia vittima di un rapimento perché esperto in guerra elettronica, ci sarebbero le testimonianze del vicino di casa e dell’autista di pullman, e quelle rilasciate dagli ex colleghi di Davide, intervistati in tv, che affermano di aver ricevuto in passato pressioni e minacce affinché accettassero offerte di lavoro all’estero dietro forti compensi di denaro. Tra questi, Lucio P., parlando di Davide, aggiunge che era tra i più bravi al corso di specializzazione in GE a Taranto e che quello stesso corso era frequentato anche da militari libici e iraniani. Ma se il nostro Paese non forniva loro le apparecchiature per la Guerra Elettronica, stando a quello che afferma il Sismi, in cosa si specializzavano? Lucio P., dirà anche di aver assistito, nel porto di La Spezia, alla consegna ai venezuelani di una nave equipaggiata con attrezzature made in Italy per la Guerra Elettronica. A questo si aggiungono le dichiarazioni alla stampa dell’ex magistrato, senatore Ferdinando Imposimato, secondo le quali, una fregata e quattro corvette attrezzate battenti bandiera libica, avrebbero sostato nelle nostre officine tra il 1979 e il 1985. Le quattro pagine dell’appunto riservato del Sismi si concludono in questo modo, e le parole usate fanno gelare:

Sulla base della documentazione esaminata, e ribadita l’assoluta prevalenza in essa di materiale proveniente dalla “parte lesa” e dagli organi che ne sostengono le tesi, si conferma la valutazione della 1° Divisione sulla “credibilità” dell’ipotesi del rapimento del Cervia, ad opera di società od organizzazioni verosimilmente straniere, per interessi commerciali-militari legati alla sua competenza professionale.

Anche se ufficialmente nega di aver compiuto verifiche, non è la prima volta che il servizio segreto della Marina si occupa della vicenda di Davide Cervia. Come risulta dalle indagini, un suo uomo, il maresciallo dei Carabinieri Antonio B., confermerà, in una prima deposizione, di essersi recato a Velletri uno o al massimo due giorni dopo la scomparsa dell’uomo, per “accertare se (Cervia, nda) avesse effettivamente prestato servizio in Marina”. In sintesi: la Marina, questo il sottoufficiale vorrebbe far credere agli inquirenti, invia un suo 007 in giro per Velletri per verificare se Cervia è stato un suo dipendente. Il militare, poi, ritratta tutto meno di un anno dopo, nel corso del processo contro l’ammiraglio Sprovieri. In sostanza, tornerà sui suoi passi affermando che i superiori lo mandarono alla caserma dei Carabinieri di Velletri per chiedere informazioni, solo quando, il 21 settembre 1990, e non uno o due giorni dopo la scomparsa, Marisa, la moglie di Cervia si era recata allo Stato Maggiore della Marina in cerca d’aiuto. Il processo a carico dell’ammiraglio Sprovieri, quello che aveva omesso di indicare sul foglio matricolare di Cervia la reale specializzazione del sottufficiale, è l’ennesima tegola piovuta sulla testa dei familiari di Davide. Per i giudici infatti, non ci sono elementi certi sul dolo perché, ironia della sorte, è emerso che quell’indicazione mancava anche sui fogli di altri militari. Ammiraglio Sprovieri: assolto “perché il fatto non sussiste”.
3 novembre 1999, indagine chiusa. Il procuratore generale Infelisi mette nero su bianco le sue conclusioni senza lasciare alcun dubbio, senza condizionali, o incertezze. Secondo le sue indagini, e rispetto a quanto si deduce da molteplici aspetti, Cervia fu vittima di un sequestro di persona a opera di ignoti. Ecco le conclusioni di Infelisi nella sua requisitoria:

La personalità del Davide Cervia, l’assenza di turbe particolari o di una volontà di fuga da parte dello stesso come risulta non solo dal suo carattere mite e tranquillo ma anche dalle circostanze, riferite dai testi secondo cui il Cervia per il giorno della sua scomparsa aveva convocato gli operai dell’Enel per degli allacci ulteriori di corrente elettrica alla sua casa, e aveva altresì addirittura richiesto per la mattina del 13 settembre ad un suo compagno di lavoro delle uova fresche per i suoi bambini che tanto amava, escludono una scomparsa volontaria da parte dello stesso. Di contro le testimonianze del Mario C. che sentì le urla di invocazione di aiuto da parte del Cervia, e del Alfio G. che vide due macchine in fuga nella circostanza di tempo e di luogo della scomparsa, una delle quali individuata nell’auto del Cervia, portano alla formulazione della ipotesi criminosa p.p. dall’articolo 605, 110 c.p. perché in concorso tra loro privano con violenza e minaccia Cervia Davide della libertà personale. In Velletri, Contrada Colle dei Marmi n°. 28 il 12 settembre 1990.

Gli autori del reato sono ignoti alla giustizia, i loro nomi sono sconosciuti e forse nessuno saprà mai come sono andate veramente le cose quel giorno a Velletri. Marisa, la moglie di Cervia, i suoi due figli, i genitori, attendono che sia fatta giustizia e, dentro di loro, hanno ancora una flebile speranza di riabbracciare Davide. Le indagini su questa inquietante vicenda sono ferme al 5 aprile 2000, quando il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Velletri, Paola Astolfi, ritenuti ignoti gli autori del sequestro, ha archiviato l’inchiesta della procura generale di Roma pur condividendone le conclusioni.

© Fabrizio Colarieti - Editing Marina Angelo (nottecriminale.wordpress.com)

4 pensieri su “Storie maledette. Il caso Cervia

  1. tiziana

    Non bisogna fermarsi davanti alle menzogne, una moglie e i suoi figli hanno il diritto,legale e morale di sapere ...... la verita'.... fate petizioni, continuate a presentarvi nelle televisioni, fate scrivere su giornali , fate di tutto per far riaprire le indagini.....
    Marisa ti sono vicina come mamma e soprattutto come moglie!!!!!
    scusate ma l'ultima telefonata non e' stata rintracciata tramite i tabulati telefonici?

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  2. dario viale

    Sono stato vicino di casa e compagno occasionale di giochi di Davide da bambino, quando abitava a Limone Piemonte ed ogni volta che leggo della sua storia, come stasera, mi vengono i brividi. Mi pareva più "grande", più assennato di noi, in particolare mi colpiva il fatto che già avesse le idee chiare sul suo futuro, diceva che si sarebbe arruolato in marina e lo asseriva con sicurezza ed entusiasmo. Come sembrano lontani quei giorni tra nevi e prati verdi leggendo della sua vicenda con tutti i suoi lati oscuri.... Desta ammirazione la forza della compagna.

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  3. cinzia

    seguo da anni chi l'ha visto, e ogni tanto ricordavo questa storia del cervia, oggi l'ho riletta,e mi vengono ancora i brividi.voglio fare 2 appelli: 1 a coloro che sanno ,sono passati tanti anni e dite qualcosa ma che sia la verita' certo senza compromettervi e chiudiamo sta storia e cosi' la famiglia si da' pace, per quanto possibile, tanto ce' qualcuno che sa', vuoi morire con questo peso nello stomaco ?l'altro appello e' per coloro che stanno in alto anche se ritengo se siano solo piu' esposti alle cadute e agli sbagli, fate che questa storia come tante altre non finiscano nell'oblio del dimenticatoio.coraggio famiglia cervia siete grandi e davide comunque sia andata e' con voi.

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  4. alessandro

    purtroppo siamo governati da criminali,al cui confronto i mafiosi sono educande. quindi temo non uscira' fuori mai niente.basta vedere la gentaglia che si e' succeduta al potere in questi anni, e a come e' ridotta l'italia oggi,grazie a loro.

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