In quel 19 luglio di lacrime e morte, tra le lamiere roventi e l’odore del tritolo sporco di sangue, si sarebbe potuto immaginare un finale diverso. Magari come questo: «Ecco via d’Amelio con un’ampia zona in cui è vietato il parcheggio davanti al civico 19-21. E’ un paesaggio tipico di Palermo di quegli anni; la casa, infatti, è un obiettivo sensibile, ci abita la madre del giudice Borsellino e il giudice viene spesso a trovarla. La sua scorta ha da tempo individuato quella zona come un punto ideale per commettere un attentato. E il giudice Paolo Borsellino, come tutti sanno, è il principale obiettivo di Cosa nostra. L’acume, la professionalità e la dedizione degli agenti, il lavoro dei servizi segreti, la solidarietà popolare contro la mafia hanno permesso la recinzione di quel tratto di strada, e nessuno ha protestato troppo per i disagi nei parcheggi. Così è stata protetta la vita del procuratore nazionale antimafia Paolo Borsellino…». Ma come scrive nel suo ultimo libro (Il vile agguato) Enrico Deaglio, «non andò così» e «lo sappiamo bene». Ci sono altre cose, invece, che non sappiamo affatto: perché dopo vent’anni esatti di depistaggi e menzogne, sull’assassinio di Borsellino e degli uomini della sua scorta, in uno Stato che la rivendica a parole ma la ostacola nei fatti, la verità non è stata ancora accertata. ...continua a leggere "Strage di via D’Amelio, vent’anni senza verità"
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All’ombra della trattativa
L'anno delle stragi, del delitto Lima (12 marzo), di Capaci (23 maggio) e via D’Amelio (19 luglio). Anno di grande fermento politico: dalle dimissioni (28 aprile) del «picconatore» Francesco Cossiga, che lascia il Quirinale prima della scadenza del suo settennato aprendo la strada all’ascesa al Colle di Oscar Luigi Scalfaro, fino alle elezioni politiche. Sono passati vent’anni da quel maledetto 1992: si cercano ancora verità e risposte. Sull’escalation di una sanguinaria stagione delle stragi che, dalla Sicilia, allungherà la sua scia di morte sul “continente”. Dalle bombe in via dei Georgofili a Firenze (nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993) a quelle contro le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma e in via Palestro a Milano (27 luglio). E’ lo scenario nel quale, secondo i magistrati della Procura di Palermo, l’aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, che hanno firmato l’avviso di chiusura delle indagini, si dispiega e va in scena la trattativa Stato-mafia al centro della loro inchiesta.
IL DELITTO LIMA: L’INIZIO
Dai verbali d’interrogatorio dei dodici indagati e delle persone sentite come testimoni, i magistrati di Palermo cercano di fare luce sulla consecutio temporum che si instaura tra i fatti di sangue firmati dalla mafia e l’evoluzione del quadro politico nazionale di quegli anni. In particolare, sulle ripercussioni del delitto Lima. «L’uccisione del parlamentare non è l’inizio della trattativa ma è un omicidio di rottura dei rapporti con la classe politica – chiarisce il procuratore aggiunto Antonio Ingroia in una recente intervista a Libero –. L’aggiustamento del maxiprocesso era fallito e la mafia voleva dare una sanzione». ...continua a leggere "All’ombra della trattativa"
Parla “u tignusu”
«Innanzitutto un buongiorno, che sia un buongiorno per tutti. Mi chiamo Gaspare Spatuzza e intendo rispondere alle vostre domande». Così “u tignusu” (il pelato), il pentito anti-premier, al secolo Gaspare Spatuzza, già stretto collaboratore dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e uomo di fiducia del boss corleonese Leoluca Bagarella, si è presentato lo scorso 3 febbraio nell’aula bunker di Firenze dove si sta celebrando il processo per la stragi del ‘93 (Via dei Georgofili a Firenze, 27 maggio; Via Palestro a Milano, 27 luglio; San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma, 28 luglio).
Spatuzza per la Procura di Firenze - che lo ha chiamato come teste al processo che vede imputato l’uomo d’onore Francesco Tagliavia in qualità di «coautore» della strage che distrusse l’Accademia dei Georgofili e uccise 5 persone ferendone altre 48 - è il testimone chiave. Oggi studia teologia e invoca il perdono, è in carcere dal ’97 per 6 stragi e 40 omicidi, si è autoaccusato di aver rubato la Fiat 126 che il 19 luglio 1992 venne impiegata per far saltare in aria Paolo Borsellino e la sua scorta, di aver partecipato all’omicidio di don Pino Puglisi e di aver rapito il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, sciolto nell’acido dopo oltre due anni di prigionia.
Spatuzza, già condannato anche per gli stessi attentati del ‘93, si è presentato in aula completamente vestito di nero, scortato da sette uomini del Gom in “mefisto”, e ha parlato, nascosto da un paravento, per sette ore. Chiede perdono a Firenze e lo aveva già fatto con una lunga lettera inviata nel giugno 2010 all’Associazione dei familiari delle cinque vittime dell’attentato di via dei Georgofili. E “u tignusu” la sua versione la racconta a partire da quei giorni, quelli che precedettero la strage: «Nel maggio 1993 sono arrivato a Firenze da terrorista. Il nostro obiettivo era di colpirla nel cuore e ci siamo riusciti - ha detto il pentito rispondendo alle domande dei pm Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi - oggi dopo 17 anni vengo come collaboratore di giustizia, pentito, e chiedo perdono. Un perdono che può non essere accettato, può essere strumentalizzato, ma dovevo farlo».
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