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«Lo Stato tiri fuori l’agenda rossa di Paolo Borsellino, solo così potrà recuperare credibilità». A parlare è Giuseppe Di Lello Finuoli, ex giudice istruttore e parlamentare, nel ’83 chiamato da Antonino Caponnetto a far parte del pool di Palermo dopo l’uccisione di Rocco Chinnici. Insieme a Leonardo Guarnotta, attuale presidente del tribunale di Palermo, Di Lello è l’unico testimone ancora in vita della stagione che li vide in prima fila nella lotta a Cosa nostra, gomito a gomito con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Cosa ricorda di quegli anni, quando nacque il pool e lavorò al fianco di Falcone e Borsellino?
«Quando Gaetano Costa e Rocco Chinnici (entrambi vittime di mafia, ndr) cominciarono seriamente a indagare su Cosa nostra, ci si rese conto che in realtà era un fenomeno abbastanza perseguibile, cioè non era quel mostro sconosciuto e impenetrabile cui si faceva spesso riferimento. Ma le grandi intuizioni, quelle che cambiarono l’approccio, furono quelle di Giovanni Falcone. Mi riferisco al fatto di andare a guardare dentro le banche, di utilizzare le intercettazioni, di avviare rapporti con gli altri organi inquirenti. Era un innovatore, e il suo modo di indagare fu dirompente. Fino a quel momento a Palermo non c’era stata una magistratura credibile, ma Falcone aveva la fama di essere un giudice bravo, uno di cui ci si poteva fidare. Sono entrato nell’ufficio istruzione nell’82, c’erano già Falcone e Borsellino, il pool nacque con la morte di Chinnici, strutturalmente venne messo in piedi da Caponnetto. E anche la sua fu una grande intuizione: far lavorare insieme i giudici asse-gnatari di processi contro la mafia, per costruire un unico grande processo. Nacque così il pool che era composto da Falcone, Borsellino e me, poi arrivò Guarnotta, e noi quattro istruimmo i primi grandi processi contro Cosa nostra». ...continua a leggere "Di Lello: «Lo Stato tiri fuori l’agenda rossa di Borsellino»"

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«Sono uno scapestrato? Sono solo un po’ sfigato e sono il figlio di un politico mafioso, non il solo però. Mi sento responsabile, ma sappiate che quella trattativa è costata la vita al giudice Borsellino e portava in alto, molto in alto. Talmente tanto che ancora oggi potrebbe avere un effetto dirompente». Lo sfogo di Massimo Ciancimino, il controverso figlio di Don Vito, sindaco mafioso del “sacco” di Palermo, uomo chiave dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia, arriva via Facebook, nel cuore della notte, dopo aver letto un articolo de Il Punto di qualche settimana fa (Palermo Top Secret, ndr) e mentre le trascrizioni delle ansiose telefonate di Nicola Mancino al consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, fanno il giro del mondo. Ciancimino junior lo immaginiamo con un iPad tra le mani, chiuso nella sua casa, nel cuore elegante di Palermo, impegnato a leggere il malloppo di atti giudiziari allegato all’avviso di conclusione delle indagini con cui la Procura del capoluogo siciliano si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per una dozzina di indagati eccellenti. Tra loro c’è anche lui che in quell’aggettivo, «scapestrato» appunto, come lo avevamo definito sulle pagine del nostro settimanale, proprio non riesce a riconoscersi. Carte scottanti, che, secondo i magistrati di Palermo, Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, raccontano come lo Stato, negli anni del tritolo, provò a scendere a patti con la mafia stragista, attraverso la mediazione sotterranea di politici e di alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri. Carte che contengono tutto quello che Ciancimino aveva cominciato a ricostruire con gli inquirenti quattro anni fa, ridando voce, un po’ alla volta, alle parole di suo padre. E che, nell’ambito della stessa inchiesta palermitana, gli sono costati due capi di imputazione: associazione a delinquere di stampo mafioso e calunnia. ...continua a leggere "«Borsellino ucciso dalla trattativa»"

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Accordi, trattative, tavoli di accomodamento e “barbe finte” che si muovono nell’ombra. Dentro ogni mistero, giù a Palermo, ce n’è nascosto un altro e poi un altro ancora. Sono come le scatole cinesi. C’è la trattativa tra lo Stato e la Mafia, e quel signor Franco, che gioca su più tavoli e che Massimo Ciancimino, il figlio scapestrato di Don Vito, ha tirato in ballo, ma che nessuno ha finora identificato. E quindi, chissà se esiste davvero. C’è l’arresto del Capo dei capi, Totò Riina, e la mancata perquisizione della sua villa in via Bernini, un altro rompicapo infinito. E poi la mancata cattura da parte del Ros di Binnu Provenzano, nelle campagne di Mezzojuso nel ’95, e il suo arresto, compiuto undici anni dopo dalla polizia. E, ancora, la storia di «Svetonio», la fonte che porta l’Aisi a un passo dalla cattura di Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande latitante, il nuovo capo della Cupola siciliana, imprendibile da diciannove anni.
LA RESA DI BINNU
In Sicilia nulla è come appare, le storie di mafia non hanno mai un the end, neanche dopo i processi e le sentenze. Mancano sempre dei pezzi e nell’ombra si muovono sempre i soliti faccendieri, messaggeri, informatori ed emissari. L’ultima vicenda, che chiama in causa lo Stato e Cosa nostra, e chi nel mezzo trattava con entrambi, riguarda proprio Bernardo Provenzano. Non è una trattativa, non ci sono né pizzini né papelli, ma condizioni  - anzi “tavoli di accomodamento” - e tanti danari. E anche qui c’è uno strano personaggio che si muove nell’ombra, a libro paga della guardia di finanza e del Servizio segreto militare. Si spaccia per commercialista esperto in flussi finanziari, parla romano stretto ai microfoni di «Servizio pubblico», e racconta di quando Provenzano, tramite un altro misterioso contatto, provò a mediare la sua resa. Il tutto si consumò tra il 2003 e il 2005. Una vera e propria trattativa con un emissario che detta le regole e le condizioni di resa. ...continua a leggere "Palermo top secret"

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Quattordici anni lontani, distanti uno dall’altro. Le morti di Aldo Moro e di Paolo Borsellino sembrano essere legate dal tradimento. Di quella parte di Stato che entrambi, con ruoli diversi difendevano. E per il quale hanno, alla fine, dato la vita. Le lettere scritte da Moro durante i 55 giorni della prigionia sono un potente e implacabile atto d’accusa per la politica italiana. Le ultime rivelazioni che giungono da Caltanissetta sugli ultimi giorni di Borsellino rappresentano un colpo micidiale per la credibilità della lotta alla mafia.
C’è un luogo ben preciso e ricco di significati dove lo Stato e l’anti Stato si incontrano. È il Cafè de Paris, da simbolo della Dolce Vita romana negli Anni Sessanta a emblema dell’infiltrazione criminale nella Capitale nei nostri giorni. A pochi giorni di distanza dal 16 marzo 1978, giorno del sequestro di Aldo Moro, Francesco Fonti – oggi meglio conosciuto come il pentito che ha raccontato le vicende delle navi dei veleni - viene convocato dalla sua cosca, Romeo, a San Luca e gli viene detto di andare a Roma. Dalla Dc calabrese erano venute pressanti richieste alle cosche per attivarsi al fine della liberazione di Moro. Pressioni – ricorda Fonti - erano venute anche dalla segreteria nazionale e dal segretario Benigno Zaccagnini, morto a Ravenna il 5 novembre 1989. Fu proprio nel locale di via Veneto, che Fonti incontrò l’esponente democristiano: «E’ un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico – disse il politico - e non avrei mai potuto pensare che oggi potessi essere seduto davanti a lei in qualità di petulante, ma è così». Fonti ricorda come Zaccagnini non facesse nulla per nascondere il proprio “schifo”: «Non sono mai sceso a compromessi - riprese - ma se sono venuto ad incontrarla significa che il sistema sta cambiando, faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva, ci dia una mano e la Dc di cui mi faccio garante saprà sdebitarsi». Prima di andarsene, disse: «Non ci siamo mai incontrati se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona lo dica all’agente Pino». Quello che Zaccagnini non sapeva era che Fonti, uomo organico all’organizzazione criminale, da nove anni frequentava con profitto le stanze di Forte Braschi. E che già conosceva l’agente Pino. Moro non venne salvato. Certo non per colpa di Fonti che, anzi, tornato in Calabria, riferì delle ricerche avviate. Ma venne bruscamente stoppato: «La vicenda non interessa più», gli fu detto. ...continua a leggere "Da via Fani a via D’Amelio, il filo rosso che unisce le morti di Moro e Borsellino"