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E’ Roma, non la Chicago degli anni Venti. Trentatré omicidi in undici mesi, con il pesante sospetto che dietro tanto piombo e morte ci sia una guerra tra delinquenti, piccoli e grandi, che sgomitano per controllare il territorio e scalare le gerarchie criminali. Una lunga scia di sangue che, secondo alcuni, sta disegnando uno scenario identico a quello che caratterizzò gli anni Settanta, mentre, secondo altri, tanta violenza sarebbe il segnale più evidente che la criminalità organizzata, tutta, si sia definitivamente insediata nella Capitale. A lanciare l’allarme, che nel ventre di Roma c’è qualcosa che sta cambiando, con cui prima o poi bisognerà fare i conti, è il giudice Otello Lupacchini, colui che disarticolò la più potente organizzazione criminale autoctona che abbia mai operato nella Capitale: la Banda della Magliana. «Non v’è dubbio che trentatré morti, siano effettivamente molti - commenta il giudice rispondendo alle domande de Il Punto - ma il dato interessante, in questi ultimi giorni, è comunque un altro: sembra sia finito il tempo degli esorcismi o, se si preferisce, del negazionismo. Così il sindaco Alemanno come pure il responsabile della Direzione distrettuale antimafia, Capaldo, sebbene con toni e accenti diversi, segnalano finalmente il “rischio mafia” nella capitale. Il primo, infatti, ha esternato il timore che “ci sia un contatto tra le bande territoriali e la grande criminalità organizzata, che ha già comprato pezzi di economia romana e che si è limitata finora a investire”; il secondo, più prudente, di fronte ai due ultimi assassinati a Ostia, per altro già coinvolti, ma anche usciti pressoché indenni da indagini di criminalità organizzata, che descrive, tuttavia, come “due personaggi profondamente inseriti nel contesto della criminalità organizzata di un certo significato, non marginale, insediata anche a Roma nel traffico di droga e usura, già coinvolti in fatti di sangue e conflitti tra bande”, ha rilevato invece come sia in atto uno “scontro evidente tra due gruppi criminali molto forti”, quantunque non specifichi a quali gruppi si riferisca». ...continua a leggere "Romanzo criminale"

Nessun passo indietro, anzi. Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, intende rimanere un “partigiano della Costituzione”, con tanto di tessera dell’Anpi in tasca. Dopo la sua provocazione al congresso del Pdci di Rimini e le polemiche che lo hanno investito, facendo irritare anche l’Anm e spingendo il Consiglio superiore della magistratura ad aprire un fascicolo, al Punto il procuratore aggiunto di Palermo racconta che ne è valsa la pena. A chi, poi, lo vorrebbe in politica, magari come sindaco del capoluogo siciliano, risponde «no grazie», e al nuovo governo chiede ascolto e dialogo per continuare a lottare contro Cosa Nostra.
Dottor Ingroia, le sue parole al congresso del Pdci le sono costate l’apertura di un’inchiesta da parte del Csm. Ne è valsa la pena definirsi un “partigiano della Costituzione”?
«Per ora si parla dell’apertura di un fascicolo del Csm per una presunta incompatibilità ambientale, anche se non ho ancora capito con chi. Comunque sì, ne è valsa la pena, ne sono assolutamente convinto. Credo ne valga la pena in ogni occasione nella quale c’è modo di esprimere la propria posizione di difesa della costituzione, dei suoi principi e del diritto di ogni cittadino, magistrati compresi, di svolgere un ruolo di difesa della Carta costituzionale. In qualunque sede e a qualunque costo. Ho giurato sulla costituzione e la difenderò sempre, anche a costo di essere investito dalle polemiche ogni qualvolta che mi trovo a difenderla. Come ho già detto sono abbastanza sereno, sono convinto di aver esercitato un mio diritto e perciò non ho nulla da temere».
Ma non crede che iniziative di questo tipo rischino di dare troppi argomenti a quanti puntano il dito contro le toghe politicizzate?
«Sì, sono consapevole che c’è questo rischio. Tuttavia non mi rassegno che di fronte al rischio di accuse strumentali e pretestuose debbano innescarsi meccanismi di autocensura, e quindi, di fatto, un arretramento rispetto ai nostri sacrosanti diritti. Non solo come magistrato, ma non intendo rassegnarmi anche come cittadino. Non posso e non devo rinunciare ai miei diritti soltanto perché c’è qualcun altro che, in modo pretestuoso e strumentale, afferma che ogni volta che esercito questo diritto sto commettendo un abuso. Essendo il mio un diritto, e non un abuso, rivendico, perdoni il gioco di parole, il diritto di esercitare ogni mio diritto». ...continua a leggere "In trincea col partigiano Ingroia"

Il problema è nel dna. I Servizi segreti italiani non sono ancora usciti dal tunnel del sospetto e il dopo riforma - quella che doveva rimettere a posto ogni cosa - pare sia un percorso ancora tutto in salita. Un pantano pieno di inciampi con il passato scomodo che continua a incombere.
Giuseppe De Lutiis, uno dei massimi esperti italiani di spie lo ripete anche nel suo libro “Storia dei servizi segreti in Italia” (Editori riuniti): “Non esistono i Servizi segreti deviati, ma le deviazioni dei Servizi segreti”. E forse nelle segrete stanze della nostra intelligence - tra uno scandalo e l’altro - la situazione è ancora questa. Non ha vita facile, perciò, il prefetto Gianni De Gennaro (ex capo della polizia, nella foto), a due anni dalla sua nomina, definita di “alto prestigio”, al vertice del Dipartimento informazioni della sicurezza (il Dis, ex Cesis): il super Servizio che vigila e coordina l’attività delle due agenzie – Aisi e Aise – nate dopo la riforma del 2007 al posto di Sismi e Sisde.
Recentemente, provando a imporre un “volto nuovo” dell’intelligence, anche raccogliendo, per esempio, migliaia di curriculum di giovani italiani interessati a lavorare per i Servizi, proprio De Gennaro disse che era necessario sgombrare il campo dai luoghi comuni e dai pregiudizi legati al passato. Diffondere, insomma, l'idea di una intelligence trasparente e affidabile, che lavora per la difesa del bene comune, integrata nelle dinamiche sociali del Paese. Eppure non solo De Gennaro ha il sentore, leggendo i giornali e ascoltando la tv, che l'unica idea dei Servizi di informazione che passa è l'istituzionalizzazione di un concetto negativo, “semplificato nella più diffusa definizione di Servizi deviati”.
C’è qualcosa che non va, qualcosa che serpeggia nei palazzi, che fa tremare le poltrone, che continua a velare l’immagine dell’intelligence italiana. Un virus che viene da lontano, dagli scandali degli anni settanta - dal Supersismi all’Ufficio affari riservati del Viminale passando per i fondi neri del Sisde dei primi anni novanta. Un virus che si tramanda da generazioni di “barbafinte”, che ha ormai impregnato, come nel caso dell’Aisi (ex Sisde), le pareti della direzione romana via Giovanni Lanza. Là anche il direttore Giorgio Piccirillo (ex carabinieri), pare non abbia vita facile, insieme ai suoi vicedirettori, Nicola Cavaliere (ex polizia) e Paolo Poletti (ex finanza), nel tenere saldo il timone e rinnovare le fila. A mietere vittime, a offuscare l’immagine dell’Agenzia per la sicurezza interna, sono gli scheletri nell’armadio, i sospetti che arrivano dal passato. A Palermo che ruolo ebbero decine di agenti segreti, molti dei quali ancora in servizio, durante la stagione di sangue che vide cadere Falcone e Borsellino? L’onda lunga di quell’epoca vela ancora oggi la rispettabilità del Servizio segreto civile e a mettere tutto in discussione non sono solo le parole di Massimo Ciancimino. ...continua a leggere "Servizi in crisi"

dia_agente_antimafiaGli analisti della Direzione investigativa antimafia le chiamano allogene. Sono le organizzazioni criminali straniere che operano sul nostro territorio, a volte a stretto contatto con quelle autoctone (mafia, camorra e ‘ndrangheta) altre in assoluta autonomia. Sono ramificate, fluide e in continua evoluzione e in alcuni casi hanno una struttura mafiogena, cioè di tipo verticistico, che assomiglia tanto alle mafie made in italy. Sono particolarmente specializzate in traffici illeciti, dalla droga al tabacco, passando per le armi, l’importazione di merci contraffatte, la tratta degli esseri umani e il riciclaggio di danaro sporco. Un fenomeno, quello delle infiltrazioni delle mafie straniere, che secondo la Dia non va perso di vista, anche se al momento non appare invasivo come quello nostrano. In cima alla classifica, dicono gli analisti dell’Antimafia, ci sono certamente gli albanesi, seguiti da cinesi, romeni, nigeriani, sudamericani, magrebini, russi, bulgari e progressivamente anche i serbi.
La mafia albanese e kosovara è strutturata in modo assai simile alle organizzazioni criminali autoctone e con esse ha storicamente contatti ben consolidati. La mafia albanese, come quella cinese e nigeriana, può essere definita stanziale, cioè che delinque stabilmente nel nostro Paese. Gli albanesi sono leader nel mercato degli stupefacenti: un’attività che hanno ereditato dai cugini kosovari, in particolare nel traffico di eroina dove si sono imposti sul mercato come intermediari tra la mafia turca e l’occidente, ma anche per la cocaina. In principio erano i migliori sul mercato per la marijuana, essendone stati per anni grandi coltivatori, poi si sono evoluti e si sono inseriti nel segmento del trasporto delle altre droghe. La mafia italiana ha sfruttato gli albanesi, come trasportatori, loro si sono fatti valere e hanno acquisito nel tempo contatti diretti con i produttori. Oltre i grandi gruppi, quelli che trafficano essenzialmente in droga, ci sono una miriade di satelliti, più piccoli, familiari, dediti allo sfruttamento della prostituzione e alla commissione di reati contro il patrimonio.
Poi ci sono i cinesi. Loro danno meno problemi dal punto di vista dell’ordine pubblico, perché commettono reati che, almeno per ora, non creano allarme sociale ma il loro silenzio non va sottovalutato. Tuttavia il problema più grosso - dicono dalla Dia analizzando ciò che succede ogni giorno - è costituito dalla principale attività che li tiene impegnati nelle Chinatown italiane (Firenze, Milano, Roma e Napoli): l’importazione di merce contraffatta. Gli analisti parlano di un vero e proprio “inquinamento del mercato regolare”. Un mercato tossico, che ha ormai affondato le sue radici nell'economia italiana diventando molto appetibile anche per la criminalità autoctona. La criminalità cinese, per la Direzione investigativa antimafia, ha ormai contatti e collaborazioni, comprovate e consolidate, con la camorra con cui condivide, grazie alla sua indubbia abilità, il business della contraffazione dei marchi. L’attività di sfruttamento dei connazionali, secondo le agenzie di intelligence, sembra essere finalizzata anche alla costituzione di strutture parabancarie: vere e proprie “banche clandestine” utilizzate dalla criminalità cinese per il trasferimento di fondi. Alla Dia, tuttavia, non amano parlare della secolare e temibile mafia gialla, le Triadi, la Tian Di Hui (società del cielo e della terra). Però collegamenti, anch’essi comprovati da indagini giudiziarie, parlano comunque di un’affermazione molto forte della criminalità cinese in Europa. Un’affermazione che ha i connotati di un’organizzazione transnazionale che si muove e delinque allo stesso modo dovunque si insedi.
Cho-hai, tradotto dal cinese vuol dire pescecane o anche succhiasangue. Sono loro i boss delle famigerate Triadi, la mafia cinese. Sono di poche parole, tanto che gli investigatori hanno scoperto che usano minacciare i conterranei recapitandogli mazzi secchi di gladioli rossi. Quando le buone maniere non bastano, poi, passano ai colpi di machete, raramente al piombo. C’è un responsabile per ogni territorio, ma non si sa con quale legame verso l’alto. Un’organizzazione verticistica, poco rumorosa, stanziale e ben radicata in Italia, che alimenta con i propri introiti un notevole flusso finanziario. Sono specializzati in estorsioni, sfruttamento della prostituzione, traffico di armi e di droga e, in particolare, nella contraffazione dei marchi. Nel novembre scorso, a Torino, la Mobile ha disarticolato una potente cosca "gialla", ramificata in tutta Italia, che faceva capo al 36enne RuiChun Zheng, il grande fratello, così come lo avevano ribattezzato in segno di rispetto i suoi connazionali. L’indagine era partita dall’uccisione del 22enne Hu Lubin, uno spacciatore di chetamina, ucciso a febbraio a Milano, a colpi ti machete, per uno sgarro. Dalle intercettazioni - un rompicapo per via del dialetto dello Zhejiang - si è arrivati al grande fratello, che aveva appena preso il posto di Hu Lubin. Più in generale, di loro, si dice che sono quasi immortali e sempre in buona salute. Zu-pin, vuol dire funerale. Dove? Quando? Non si sa. La loro vita è un mistero fin dalla nascita. Quando muoiono, poi, non esiste un registro né risultano cinesi sepolti in Italia. Vengono a lavorare da giovanissimi, tra i 15 e i 20 anni, e quando arrivano da clandestini sono wu-min, senza nome. È un ciclo continuo: i documenti dei morti finiscono ai vivi, riciclati per generazioni. Un passaporto di un cinese morto vale 15mila euro e lavorano giorno e notte per pagarsi il viaggio e per ottenerlo. Saldato il debito, diventano imprenditori, sfruttano se stessi, creano società schermo, le cosiddette scatole cinesi, e un’infinità di strutture parabancarie per esportare grandi capitali. Da dove arrivano tanti danari, è un altro mistero. Dietro quelle mazzette di eulo ci sarebbe la Repubblica Popolare Cinese, lo Stato, fortemente interessato a fare “cubatura” nel vecchio continente, ma anche la temibile mafia gialla. Le loro comunità sono omertose: un silenzio facilitato da una sessantina di impenetrabili dialetti.
Le stesse caratteristiche della criminalità cinese, provate da altrettante indagini, sono state individuate dalla Dia e dai Servizi analizzando un’altra organizzazione criminale, quella nigeriana. Una holding transnazionale del crimine presente in Italia e specializzata, così come quella albanese e magrebina, nel traffico degli stupefacenti. Anche le organizzazioni criminali africane hanno dimostrato grandi capacità nel crimine economico, in particolare quelle algerine, sia sul piano dell’attività di produzione e commercializzazione di generi contraffatti, con possibili saldature con le organizzazioni asiatiche, sia per quanto riguarda il riciclaggio del danaro, nel caso dei nigeriani, attraverso l’acquisizione di strutture commerciali e di money transfer. Anche i sudamericani contrabbandano droga sul suolo italiano, in ottimi affari con la mafia siciliana, in particolare per il mercato della cocaina, e ora anche con la ‘ndrangheta calabrese. Sulla mafia russa mancano attuali evidenze giudiziarie. Per gli analisti dell’Antimafia, in questo caso, il discorso va comunque allargato alle organizzazioni criminali dei paesi dell’ex blocco sovietico, come la criminalità romena e quella bulgara, dedite alla tratta degli esseri umani e allo sfruttamento della prostituzione, e in particolare quella ucraina, specializzata nel contrabbando di grandi quantitativi di sigarette.
La criminalità russa, è una mafia di transito, o meglio ancora d’affari, perché particolarmente dedita, su scala mondiale, al riciclaggio e al traffico di armi. Le poche evidenze giudiziarie parlano, infatti, di enormi flussi di danaro da riciclare all’estero, attraverso massicce acquisizioni immobiliari anche in Italia. Inquietante e drammatico, il tema della tratta degli esseri umani a cui, alcuni mesi fa, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica dedicò uno studio sottolineando implicazioni e rischi per la sicurezza nazionale. L'organizzazione mondiale del lavoro stima che nel mondo ci siano oltre 12 milioni di persone sottoposte a sfruttamento sessuale e lavorativo. Questo fenomeno è diventato il secondo business illecito globale, dopo il narcotraffico, che vede in prima linea sia organizzazioni mafiose - presenti stabilmente anche sul territorio italiano (albanesi, cinesi, romeni e bulgari) - che holding terroristiche. 

di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 11 febbraio 2010 [pdf]