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È partita da Amatrice, in provincia di Rieti, la campagna di sensibilizzazione dell'opinione pubblica promossa da Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, la ragazza scomparsa il 22 giugno 1983 e mai ritrovata. Nel cinema cittadino sono stati distribuiti biglietti da spedire via posta a «Sua Santità Papa Benedetto XVI, Palazzo Apostolico, Segreteria di Stato 00120 Città del Vaticano» per invitare la Santa Sede a fare «tutto ciò che è umanamente possibile per fare chiarezza sul caso di Emanuela Orlandi». I biglietti sono stati distribuiti durante la presentazione del libro-denuncia Mia sorella Emanuela (edizioni Anordest) scritta da Pietro Orlandi assieme al giornalista Fabrizio Peronaci. «Il pubblico intervenuto è rimasto molto colpito da questa iniziativa che presto diffonderemo anche tramite web - ha spiegato Peronaci - ed in tanti hanno assicurato che scriveranno al Papa per arrivare alla verità sul caso di Emanuela Orlandi, rapita in quanto cittadina vaticana». Nel corso della presentazione, Peronaci ha ribadito l'importanza «di una memoria che rigetta l'oblio testimoniata da Pietro che rifiuta di far finire questo giallo tra i grandi misteri italiani irrisolti ed è fondamentale la pressione che potrà essere fatta dalla gente affinchè chi sa alcuni passaggi oscuri, analizzati nel libro, finalmente parli. Una pressione che può essere un elemento in grado di far fare un salto di qualità alla risoluzione del caso». Pietro Orlandi ha anche sottolineato per la prima volta come si sia verificata in questa vicenda «una violazione dell'articolo 1 dei Patti Lateranensi che recita che la Repubblica e la Santa Sede si impegnano al rispetto ed alla reciproca collaborazione per il bene del Paese», ed ha ribadito come «questa iniziativa non sia una forma di ostilità verso la Santa Sede ma un sollecito affinchè quelle energie migliori che hanno avviato quell'opera di purificazione legata al problema dei pedofili faccia chiarezza anche su quei lati oscuri di cui è emblematico il caso Orlandi». (Fonte Ansa)

Caso Orlandi, l'appello del fratello "Scrivete al Papa, chiedo la verità" (la Repubblica)

Il mistero di Emanuela Orlandi (Chi l'ha visto?)

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Banda della MaglianaProvate a digitare su GoogleBanda and Magliana. Oppure, se avete la fortuna di avere a disposizione un motore di ricerca semantico (cioè uno di quei software crawler comunemente utilizzati dall’intelligence per setacciare le “fonti aperte” e correlare le informazioni partendo dal loro significato), divertitevi ad approfondire l’argomento. Perché – sarà un caso – da un po’ di tempo anche le macchine si sono ammalate di dietrologia e le open source, pur non essendo dotate di propria intelligenza, ce la stanno mettendo tutta per rendere più chiaro uno scenario che per decenni è parso annebbiato e viziato. Ed è un peccato che in rete ci siano ancora pochi atti giudiziari, indicizzati e taggati, a raccontare, a chi resta affascinato da figure come quelle del Freddo o del Libanese, la storia e le gesta della più potente organizzazione criminale che abbia mai operato a Roma. ...continua a leggere "Il Vecchio, Zeta e Pigreco tra (poca) fiction e (tanta) realtà"

Riemerge dagli annali ingialliti, grazie alle parole di un "infame" della banda della Magliana, una storia che in Sabina in molti ricorderanno e che, altri ancora, preferirebbero saperla definitivamente archiviata. Sono gli 8 miliardi del vecchio conio, a dirla con le parole di Bonolis, concessi nei primi anni '90, attraverso un fido, dalla Cassa di risparmio di Rieti al boss della banda della Magliana Enrico Nicoletti. Una storia chiacchierata e risaputa: roba da archeologia giudiziaria. Una muffa finita anche nelle pagine di alcune relazione della Commissione parlamentare antimafia. Carte ingiallite sì, ma ancora oggi rintracciabili su Internet, come quelle scritte nel corso di un decennio di indagini patrimoniali condotte dalla Dia e dalla Finanza. Così la banca reatina si è ritrovata accusata, anche in ambito parlamentare, di compiere strane attività finanziarie e movimenti in "odor di mafia" che andavano dal riciclaggio di danaro sporco all'erogazione non motivata di fidi a persone "sospette di far parte di organizzazione criminali". Nicoletti, si saprà poi, era una di queste: un "cliente", certamente non uno qualunque, a cui la Cassa di risparmio concesse tramite l'agenzia numero uno - quella che si trova tuttora a piazza Montecitorio a Roma - un fido di 8 miliardi, che nel '90 non erano bruscolini. Glielo concesse trattandolo con i guanti bianchi, nonostante il boss fosse stato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e sottoposto a misure di prevenzione. Difficile scambiare il cassiere di una banda di criminali per un affidabile imprenditore, ma così andò, probabilmente alla direzione della banca non leggevano i giornali. Oggi questa storia è tornata a rivivere sulle colonne di Repubblica (edizione del 14 febbraio scorso), vent'anni dopo, con un'inchiesta dal titolo "Finanza sporca e omicidi, torna la banda della Magliana" a firma di Carlo Bonini che ripercorre la carriera di Nicoletti, della sua banda e delle sue misteriose fortune, tornando anche sul quel fido concesso senza batter ciglio. Le novità arrivano dalle parole di un pentito, Antonio Mancini, un altro della batteria criminale, uno di quelli "seri" che terrorizzò la Capitale per un ventennio. "Nino l'accattone", così è soprannominato Mancini, agli occhi di chi non lo conosce potrebbe sembrare uno uscito direttamente dalle pagine di "Romanzo criminale" - come "il Freddo" o "Libano" - invece è uno in carne e ossa, ed è anche l'unico che parla. Parla, l'''infame'', del sequestro di Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno '83, e parla anche di un fiume di danari sporchi (1 miliardo di euro solo quelli riconducibili a Nicoletti). Una storia, che riannodando i fili, arriva ai giorni nostri e finisce dritta dritta agli affari, più recenti, del "furbetto" Danilo Coppola.

di Fabrizio Colarieti per Il Messaggero [articolo originale]

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moroE’ il 18 aprile 1978. Un martedì di trent’anni fa. Sono le 9.30 e Rieti sta per entrare nella storia. Le Brigate Rosse tengono prigioniero il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, da trentaquattro giorni. L’incubo è iniziato a Roma, il 16 marzo, in via Mario Fani, dove un commando di brigatisti ha annientato, sparando novantuno colpi, i cinque uomini di scorta e rapito lo statista mentre si stava recando alla Camera per il voto di fiducia al governo Andreotti, il primo con l’appoggio del Pci. Una telefonata anonima al centralino del “Messaggero” annuncia un nuovo comunicato delle Bierre, il settimo dall’inizio del sequestro. Diciotto righe in tutto, scritte a macchina con il carattere “Light Italic” e lasciate dentro un cestino dei rifiuti in Piazza Giuseppe Gioacchino Belli. In calce c’è la firma “Per il Comunismo: Brigate Rosse”, in cima al foglio la stella a cinque punte. La missiva non lascia dubbi: «comunichiamo l’avvenuta esecuzione del presidente della Dc Aldo Moro, mediante “suicidio”. Consentiamo il recupero della salma, fornendo l’esatto luogo ove egli giace. La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi del lago Duchessa, altezza metri 1800 circa località Cartore (RI)».
Non è una mattina qualunque quella del 18 aprile. La Telefonata arriva mentre la polizia ha appena fatto irruzione in un appartamento al civico 96 di via Gradoli. Lì un’infiltrazione d’acqua ha permesso di scoprire un covo brigatista ancora “caldo”. Sembra la svolta giusta, quella che gli inquirenti attendono da quando hanno cominciato ad indagare sul sequestro. Il passo falso. Ma a gelare ogni aspettativa è proprio quella telefonata. Moro è morto. E’ un depistaggio, perché lassù, in cima ai monti della Duchessa, la primavera non è ancora arrivata, è ancora pieno inverno e il lago è ghiacciato. Tutto intorno c’è solo neve e silenzio. Fanno subito gli inquirenti, che cercano il presidente della Dc, a capire che lì non c’è. Il procuratore capo della Repubblica di Roma, Giovanni De Matteo, che coordinale indagini, alle 15 sorvola in elicottero il lago mentre centinaia di uomini, sotto di lui, setacciano le rive e i sommozzatori il fondale, dopo aver aperto un varco nel ghiaccio. Gli occhi angosciati di tutto il Paese sono puntati su quel lago, arrivano la Rai e gli inviati dei maggiori quotidiani nazionali. Lì il presidente Moro non c’è, ma non importa perché la messinscena è ormai servita. ...continua a leggere "Caso Moro: la falsa esecuzione del Lago della Duchessa"