In quel 19 luglio di lacrime e morte, tra le lamiere roventi e l’odore del tritolo sporco di sangue, si sarebbe potuto immaginare un finale diverso. Magari come questo: «Ecco via d’Amelio con un’ampia zona in cui è vietato il parcheggio davanti al civico 19-21. E’ un paesaggio tipico di Palermo di quegli anni; la casa, infatti, è un obiettivo sensibile, ci abita la madre del giudice Borsellino e il giudice viene spesso a trovarla. La sua scorta ha da tempo individuato quella zona come un punto ideale per commettere un attentato. E il giudice Paolo Borsellino, come tutti sanno, è il principale obiettivo di Cosa nostra. L’acume, la professionalità e la dedizione degli agenti, il lavoro dei servizi segreti, la solidarietà popolare contro la mafia hanno permesso la recinzione di quel tratto di strada, e nessuno ha protestato troppo per i disagi nei parcheggi. Così è stata protetta la vita del procuratore nazionale antimafia Paolo Borsellino…». Ma come scrive nel suo ultimo libro (Il vile agguato) Enrico Deaglio, «non andò così» e «lo sappiamo bene». Ci sono altre cose, invece, che non sappiamo affatto: perché dopo vent’anni esatti di depistaggi e menzogne, sull’assassinio di Borsellino e degli uomini della sua scorta, in uno Stato che la rivendica a parole ma la ostacola nei fatti, la verità non è stata ancora accertata. ...continua a leggere "Strage di via D’Amelio, vent’anni senza verità"
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Tutti i “non ricordo” di Nicola Mancino
«Dopo la strage di Capaci era forte la preoccupazione che lo Stato non facesse tutto il possibile per contrastare Cosa Nostra. Fu per questo motivo che già il 1° luglio 1992 io e Paolo Borsellino ci recammo al Viminale per incontrare il ministro Mancino al quale volevamo fare gli auguri per il nuovo incarico e cogliere l’occasione per chiedergli quali fossero le reali intenzioni dello Stato nel contrasto a Cosa Nostra». È il 13 gennaio 2011 e il pm Vittorio Aliquò ha un’immagine molto chiara ricostruendo, davanti ai colleghi della Procura di Palermo, quanto accadde 18 giorni prima della strage di via D’Amelio. Era a Roma con Borsellino, per interrogare il pentito Gaspare Mutolo (che confermerà la circostanza in più sedi), e insieme si recarono al Viminale a incontrare il nuovo ministro dell’Interno. Ma Nicola Mancino, di quell’incontro, non ricorda nulla. «Ho sempre escluso – dirà il 1° aprile 2011 rispondendo alle domande del capo della Procura di Palermo, Francesco Messineo – di avere avuto un colloquio con il giudice Borsellino e in interrogatori da me resi, ho sempre detto: non escludo, però, di avergli potuto stringere la mano, così come ho fatto con tantissimi funzionari il giorno del mio insediamento al Viminale, che è avvenuto nel pomeriggio del primo luglio 1992. Posso anche avergli stretto la mano, ma non conoscendo fisicamente il giudice Borsellino, non posso però escludere che, passando per i corridoi, stringendogli la mano, ma non ho avuto nessun colloquio con il giudice Borsellino». Appare davvero singolare che il ministro dell’Interno, a poche settimane dalla strage di Capaci, non conosca fisicamente il simbolo della lotta antimafia, il giudice che in quel momento in Sicilia sta rischiando più di chiunque altro la vita. Ed è lo stesso Mancino che in un primo momento nega di aver mai appreso, in quello stesso periodo, dell’esistenza di un dialogo tra pezzi dello Stato e i boss. «Se ne fossi venuto a conoscenza», dice l’ex vicepresidente del Csm ai pm palermitani Ingroia e Di Matteo - che indagando sulla trattativa tra Stato e Mafia lo hanno appena iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza - «l’avrei respinto e avrei denunciato la cosa al capo dello Stato». Poi il 24 febbraio, nel corso di un’udienza del processo al generale Mori, Mancino cambia versione: «Martelli mi parlò genericamente di attività non autorizzata del Ros, ma non capii perché lo diceva a me e non alla Procura». E tutto questo, dice Martelli, avvenne prima dell’eccidio di via D’Amelio. Per Ingroia e Di Matteo, perciò, qualcuno sta mentendo. A tirare in ballo il potente ex ministro democristiano c’è anche il pentito Giovanni Brusca, che lo indica come «terminale» dello scellerato accordo tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra, ma anche Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, che sostiene da tempo che i ministri Rognoni e Mancino fossero a conoscenza della trattativa. L’iscrizione di Mancino nel registro degli indagati era nell’aria. «Il teorema che lo Stato, e non pezzi o uomini dello Stato, abbia trattato con la mafia – dice commentando la notizia – è vecchio di almeno venti anni, ma non c’è ancora straccio di prova che possa confortarlo di solidi argomenti». Insieme a Mancino, a Palermo, ci sono altri 8 indagati: i generali Mori e Antonio Subranni, l’ex capitano Giuseppe De Donno, l’ex ministro Dc, Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano e Nino Cinà. Sempre lo stesso Mancino - che nega la circostanza - sarebbe stato tra coloro che nel ‘93 sostennero che il 41 bis andava ammorbidito. Già nel settembre del ‘92, l’ex ministro dell’Interno pare fosse al corrente del fatto che la strategia di Cosa Nostra doveva proseguire con il compimento di altre stragi «in continente». Ed è ancora Mancino, nel dicembre del ‘92, ad anticipare alla stampa che da li a breve sarebbe stato catturato Riina. Coincidenze?
di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 21 giugno 2012 [pdf]
Palermo top secret
Accordi, trattative, tavoli di accomodamento e “barbe finte” che si muovono nell’ombra. Dentro ogni mistero, giù a Palermo, ce n’è nascosto un altro e poi un altro ancora. Sono come le scatole cinesi. C’è la trattativa tra lo Stato e la Mafia, e quel signor Franco, che gioca su più tavoli e che Massimo Ciancimino, il figlio scapestrato di Don Vito, ha tirato in ballo, ma che nessuno ha finora identificato. E quindi, chissà se esiste davvero. C’è l’arresto del Capo dei capi, Totò Riina, e la mancata perquisizione della sua villa in via Bernini, un altro rompicapo infinito. E poi la mancata cattura da parte del Ros di Binnu Provenzano, nelle campagne di Mezzojuso nel ’95, e il suo arresto, compiuto undici anni dopo dalla polizia. E, ancora, la storia di «Svetonio», la fonte che porta l’Aisi a un passo dalla cattura di Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande latitante, il nuovo capo della Cupola siciliana, imprendibile da diciannove anni.
LA RESA DI BINNU
In Sicilia nulla è come appare, le storie di mafia non hanno mai un the end, neanche dopo i processi e le sentenze. Mancano sempre dei pezzi e nell’ombra si muovono sempre i soliti faccendieri, messaggeri, informatori ed emissari. L’ultima vicenda, che chiama in causa lo Stato e Cosa nostra, e chi nel mezzo trattava con entrambi, riguarda proprio Bernardo Provenzano. Non è una trattativa, non ci sono né pizzini né papelli, ma condizioni - anzi “tavoli di accomodamento” - e tanti danari. E anche qui c’è uno strano personaggio che si muove nell’ombra, a libro paga della guardia di finanza e del Servizio segreto militare. Si spaccia per commercialista esperto in flussi finanziari, parla romano stretto ai microfoni di «Servizio pubblico», e racconta di quando Provenzano, tramite un altro misterioso contatto, provò a mediare la sua resa. Il tutto si consumò tra il 2003 e il 2005. Una vera e propria trattativa con un emissario che detta le regole e le condizioni di resa. ...continua a leggere "Palermo top secret"
Martelli-Mancino, scontro sul ring del processo Mori
«Avemmo la sensazione che tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino ci fossero rapporti stretti ma se avessi avuto sentore che c'era una trattativa in corso tra pezzi dello Stato e la mafia, avrei fatto l'inferno». Claudio Martelli nell’estate del '92, a cavallo tra gli eccidi di Capaci e di via D’Amelio, era a conoscenza che c'erano in corso contatti “anomali” per fermare le stragi tra alcuni ufficiali del Ros e l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino.
L’ex ministro socialista lo ha confermato l’8 aprile, diciotto anni dopo quella stagione di sangue in un’aula di tribunale, incalzato dalle domande dei pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. Ha parlato per due ore, in qualità di testimone, al processo in corso a Palermo contro il generale del Ros, Mario Mori, e il colonnello Mauro Obinu, entrambi accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano, nell'ottobre del ’95, a Mezzojuso. L'ex Guardasigilli conferma che venne a conoscenza che gli ufficiali dell’Arma erano in contatto con Ciancimino, già a fine di giugno del '92, quando l'allora direttore degli Affari penali, Liliana Ferraro, gli riferì quello che aveva appreso parlando con il capitano del Ros, Giuseppe De Donno.
«La Ferraro - ha aggiunto Martelli deponendo al processo - mi raccontò di avere invitato De Donno a rivolgersi a Borsellino. Praticamente la Ferraro mi fece capire che il Ros voleva il supporto politico del ministero a questa iniziativa. Io mi adirai - ha aggiunto Martelli - perché trovavo una sorta di volontà di insubordinazione della condotta dei carabinieri. Avevamo appena creato la Dia, che doveva coordinare il lavoro di tutte le forze di polizia e quindi non capivo perché il Ros agisse per conto proprio». Martelli, rispondendo alle domande dei pm palermitani, si infuria ancora oggi e tira in ballo anche l’allora ministro dell’Interno (Nicola Mancino, che però nega) da lui stesso informato di quanto aveva appreso dalla Ferraro. «Nell'ottobre del 1992 - prosegue il racconto di Martelli - Ferraro mi disse di avere visto De Donno e che questi le aveva chiesto di agevolare alcuni colloqui investigativi tra mafiosi detenuti e il Ros e se c'erano impedimenti a che la procura generale rilasciasse il passaporto a Vito Ciancimino. Dare credibilità a Ciancimino - ha aggiunto - per cercare di catturare latitanti era un delirio. Per questo chiamai l'allora procuratore generale di Palermo Bruno Siclari esprimendogli la mia contrarietà alla storia del passaporto». In soldoni il Ros, secondo Martelli, agiva di testa propria e senza l’avallo della procura per mera presunzione: «Non ho mai pensato che Mori e De Donno fossero dei felloni, ma che agissero di testa loro. Che avessero una sorta di presunzione o orgoglio esagerato. Sono convinto che lo scopo del Ros, fermare le stragi, fosse virtuoso ma che il metodo usato - ha aggiunto Martelli -, contattare Ciancimino senza informare l'autorità giudiziaria, fosse inaccettabile».
Tuttavia Nicola Mancino, attuale vice presidente del Csm, pochi minuti dopo la fine dell’udienza in cui ha testimoniato Martelli, nega all’Ansa di essere stato informato dall’ex Guardasigilli dei contatti tra Ros e Ciancimino: «Né Martelli né altri mi parlò mai di contatti con Ciancimino - afferma Mancino. Ho sempre escluso, e coerentemente escludo anche oggi, che qualcuno, e perciò neppure il ministro Martelli, mi abbia mai parlato della iniziativa del colonnello Mori del Ros di volere avviare contatti con Vito Ciancimino. Ribadisco che, per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell'Interno, nessuno mi parlò mai di possibili trattative con la mafia». Le parole di Mancino non sono una novità. In diverse occasioni ha detto che lo Stato non trattò ma, di quella torbida stagione, nega anche un’altra circostanza: l’incontro con il giudice Paolo Borsellino che ci sarebbe stato proprio il giorno del suo insediamento al Viminale (il 1 luglio ’92). Il giudice quella mattina, mentre negli uffici romani della Dia stava raccogliendo le confessioni del pentito Gaspare Mutolo, ricevette una telefonata e sospese l’interrogatorio per recarsi, pare, proprio al Viminale a incontrare Macino. Quando tornò da quell’incontro, come confermò anche Mutolo, Borsellino era visibilmente agitato tanto da mettersi in bocca due sigarette contemporaneamente. Mancino, fino a oggi, non ha negato la possibilità che l’incontro sia potuto avvenire ma ha sempre ribadito di non ricordare se “tra gli altri giudici che venivano a omaggiarlo per la sua nomina” ci fosse stato anche Paolo Borsellino. Strano o, quantomeno, anomalo.
Dalla deposizione di Martelli emerge, poi, un’altra misteriosa circostanza, legata alla cattura del boss Totò Riina: «Il generale dei carabinieri Francesco Delfino, nell'estate del '92, vedendomi preoccupato, - ha aggiunto l’ex ministro della Giustizia rispondendo ancora alle domande dei pm Ingroia e Di Matteo - mi disse che dovevo stare tranquillo perché mi avrebbero fatto un bel regalo di Natale e aggiunse che Riina me lo avrebbero portato loro». Il generale Delfino, di fatto, diede a Martelli una notizia vera perché il capo dei capi fu catturato dal Ros dopo Natale, il 15 gennaio ’93, grazie alle confidenze, raccolte dallo stesso alto ufficiale, di Balduccio Di Maggio. «Per quanto riguarda la vicenda dell’arresto di Riina - dice a Il Punto Claudio Martelli - ricordo perfettamente di aver ricevuto una telefonata da parte dell’allora sindaco di Milano, Aldo Aniasi, in cui mi chiedeva di incontrare un suo amico generale dei carabinieri che a suo dire doveva riferirmi delle cose importanti. Così, qualche tempo dopo, incontrai Delfino e in quella circostanza mi informò che Riina stava per essere arrestato. Queste cose - aggiunge l’ex ministro della Giustizia - le ho raccontate solo ora perché solo ora sono stato chiamato a deporre in un processo. Nell’estate del ’92, lo ripeto, segnalai a chi di competenza che a mio avviso il Ros stava tenendo un comportamento anomalo, ma in quel momento non potevo sapere che fosse il preludio di una trattativa. Con Mancino - aggiunge Martelli - non parlai della trattativa, non avevo elementi per pensare questo, lo informai solo degli “anomali” contatti che c’erano in corso tra alcuni ufficiali del Ros e l’ex sindaco Ciancimino. Mi sembrava assurdo che i carabinieri agissero di propria iniziativa, senza informare né la magistratura né la Dia, che era stata appena creata per coordinare l’attività investigativa. Non parlai con lui di una possibile trattativa tra Stato e mafia, su questo aspetto ha ragione, ma lo informai certamente di quanto avevo appreso dalla Ferraro, così come informai il capo della Dia e quello della polizia. Il colloquio avvenne tra la fine di giugno e i primi di luglio, quindi subito dopo la sua nomina a ministro dell’Interno e - chiosa l’ex Guardasigilli socialista - certamente prima della strage di via D’Amelio».
di Fabrizio Colarieti per Il Punto del 22 aprile 2010 [pdf]